CAPITOLO VIII
Il porto di Calcide era uno dei luoghi più antichi ed allo stesso tempo vivaci di tutta la Grecia.
Arrivando dal promontorio situato ad ovest, Theodote poté ammirare la distesa di case basse e di colore chiaro che facevano da cornice al litorale dove una schiera di imbarcazioni di vario genere e dimensione erano ormeggiate l’una in fila all’altra lungo la banchina del molo.
Era già mattina inoltrata quando il giovane cavaliere discese lungo gli stretti vicoli della periferia della città che, come in un labirinto, si intrecciavano e si rincorrevano tra le mura degli edifici spesso adornate da profumate piante grasse tipicamente mediterranee o dal colore dei panni che le donne di Calcide avevano steso al sole. La brezza ed il profumo del mare riuscirono comunque a guidare Theodote sino alla grande piazza del mercato dove una moltitudine di persone erano affaccendate a vendere i propri prodotti o a comprarne cercando di strappare al commerciante di turno il prezzo migliore. Un insieme di profumi e colori derivanti dal pesce, dalla carne, dalle verdure e dai frutti esposti inebriò i sensi di Theodote il quale, dal canto suo, arrivava da alcuni giorni di cammino in solitaria che di certo non gli avevano giovato né al fisico né all’umore. Facendosi largo tra la folla e tra i banchi di cui il mercato era gremito riuscì, non prima di aver assaggiato delle succosissime ed enormi olive verdi gentilmente offertegli da uno dei tanti venditori che evidentemente, notando il suo fermaglio pregiato, lo aveva scambiato per uno di quei ricchi ateniesi dei quali un tempo aveva fatto parte, a giungere finalmente all’imbocco del porto.
Qui l’esercito di natanti che aveva potuto osservare dall’alto del promontorio dal quale era giunto gli appariva come un praticamente infinito filare di scafi, alberi e vele ripiegate che, a partire dalla prima pietra della passeggiata che costeggiava il molo, si perdeva quasi all’orizzonte.
La maggior parte dei capitani governavano barche da pesca o da trasporto; era facile riconoscere quale fosse la destinazione d’uso di una o l’altra a seconda se, sopra di essa, vi fossero degli uomini addormentati dopo aver passato la notte in mare ed aver già sbarcato il proprio bottino ittico, oppure altri personaggi che, svuotata la stiva, offrivano a gran voce i propri servigi al miglior offerente per farsi carico di spostare qualsiasi genere di merce dal porto di Calcide ad un’altra qualsivoglia destinazione.
Theodote però non aveva bisogno né di un pescatore né di un mercante, il suo unico scopo era quello di trovare qualcuno disposto a condurlo, attraversando il golfo di Eubea, il più vicino possibile ad un altro porto che gli consentisse di proseguire poi, via terra, in direzione della città di Larissa. Da qui si sarebbe potuto addentrare infine nell’entroterra della Tessaglia alla ricerca dell’Albino.
Percorrendo lentamente tutto il molo e osservando con cura ogni scafo e gli uomini a bordo di esso, Theodote non sapeva in tutta sincerità da che parte incominciare: non aveva idea di quale tipo di imbarcazione facesse al caso suo, quale scusa utilizzare per convincere il capitano a condurlo sino ad una destinazione che nemmeno lui stesso conosceva con esattezza e soprattutto come fare a persuadere quest’uomo a fare tutto ciò senza essere pagato dato che con sé non aveva denaro.
Durante la sua passeggiata d’ispezione rifiutò tutte le offerte che alcuni marinai gli offrirono; Theodote, partendo dalla totale confusione che albergava nella sua testa, mano a mano che avanzava lungo il molo si stava convincendo di essere alla ricerca di qualcosa di specifico, non sapeva nemmeno lui dire che cosa, ma il suo cosmo avvertiva chiaramente il richiamo di qualcosa o di qualcuno a lui molto affine.
Improvvisamente il suo sguardo fu attirato quasi involontariamente su una modesta imbarcazione di legno scuro sul cui scafo era dipinto in azzurro il nome della barca stessa: Athena.
Theodote si avvicinò al bordo della banchina cui la Athena era collegata a mezzo di una passerella di legno tanto consumato quanto poco rassicurante in merito al poter sopportare il peso di carichi troppo pesanti. L’albero maestro, così come l’intero natante, non era di grande dimensioni ed era ora avvolto da parte dell’unica vela presente, non parevano infine esserci né cabine né stive. Gettando l’occhio al suo interno si poteva osservare infatti come remi, cime, reti da pesca, barili ed altri oggetti vari fossero abbastanza disordinatamente ammassati sul ponte. In fondo ad esso vi era un ragazzo che, seduto su un secchio, pareva intento a sbrogliare una matassa di cime consumate. Costui aveva circa l’età di Theodote anche se la vita per mare probabilmente lo aveva già iniziato a segnare facendogli dimostrare più anni di quelli che aveva in realtà. Era un ragazzo piuttosto alto e snello, i calzoni bianchi legati in vita da un cordino esaltavano il colore della sua pelle abbronzatissima, i capelli molto lunghi e di un color castano che pareva essere stato oltremodo schiarito tanto dal sale quanto dal sole erano legati in una treccia che usciva da sotto la bandana color verde acqua che gli copriva la sommità del capo che, in quel momento, era chinato ed intento a seguire il lavoro che le sue mani grandi e callose stavano svolgendo.
Theodote lo osservò per quasi un minuto stazionando sul limitare del molo senza che quel ragazzo avesse né la minima reazione nei suoi confronti né distogliesse anche solo per un istante la propria attenzione da quel gomitolo di cime.
Il cavaliere sentiva però un’attrazione quasi magnetica che lo spinse infine a appoggiare un piede sulla passerella di legno scricchiolante con l’intento di salire a bordo.
Solo in quel preciso momento l’interesse del proprietario dell’Athena si spostò repentinamente su Theodote.
Sollevando la testa, il suo sguardo costituito da due penetranti occhi di un azzurro glaciale si fissò sullo sconosciuto visitatore.
Il cosmo del cavaliere rituonò riconoscendo immediatamente che innanzi a se stesso vi era un altro predestinato.
«Che posso fare per te?» chiese gentilmente il marinaio il quale, nonostante quello sguardo impenetrabile, si dimostrò da subito cortese ed ospitale facendo segno con la mano allo straniero di salire liberamente a bordo.
Dopo un istante di vago smarrimento Theodote cercò di tergiversare e rispose:
- Salve, non ho potuto fare a meno di notare il nome della tua barca.
«Si chiama Athena, come la Dea della giustizia alla quale mi rivolgo spesso ma tutto ciò non risponde alla domanda che ti ho posto» ribatté il ragazzo che ora aveva abbandonato il gomitolo di cime e si era alzato in piedi impaziente di avere una risposta.
«Hai ragione, lascia che mi presenti: il mio nome è Theodote, vengo dalla città di Atene e sto affrontando un lungo viaggio. Il mio scopo attualmente è quello di rintracciare una persona che pare viva in una remota località detta Meteora ma, per farlo, ho bisogno di giungere in un qualsiasi porto della Tessaglia dal quale possa poi muovermi a piedi verso l’entroterra. Sappi che questa mia missione è molto importante. Se fallirò, ciò potrebbe influire negativamente sul destino di tutti noi e su quello della stessa Dea Athena della quale anche io sono un fedele servitore».
Theodote rifletté per un secondo sulle proprie parole pensando di aver probabilmente esagerato nel vuotare il sacco in questo modo; quasi sicuramente il suo interlocutore gli avrebbe riso in faccia o gli avrebbe dato del pazzo.
Con suo immenso stupore però il marinaio non gli disse nulla di tutto ciò. Al contrario, sfregandosi il mento con la mano e sfogliando metaforicamente nel suo cervello le carte nautiche di sua conoscenza, rispose:
- Dici Meteora, eh? Se non ricordo male per giungere sin là dovresti essere pressoché obbligato a prendere la strada che passa per Larissa. Quindi il porto più vicino dovrebbe per tanto essere quello di Vòlo. Non è vicinissimo ma se il vento e la corrente ci assistono, potremmo arrivare a destinazione entro un paio di giorni.
Se credi che ti possa star bene, possiamo partire anche subito.
Theodote esitò per un attimo. Non aveva la minima idea di dove si localizzasse Vòlo e non aveva conoscenza di correnti marine, venti o, più in generale, di navigazione. Per tanto doveva dar fiducia a prendere per buone le previsione del marinaio.
«Non posso pagarti in denaro perché non ne ho con me ma ti giuro sulla mia vita che la Dea Athena in persona saprà ricompensarti lautamente per i tuoi servigi» ribatté con sincerità ed anche con un pizzico di faccia tosta Theodote.
Un velo di sospetto si dipinse sul volto del marinaio il quale comunque incoraggiò il suo avventore rivolgendogli le seguenti parole condite da un pizzico di sarcasmo:
- Dovevo in ogni caso navigare in quella direzione, mi ripagherai dandoti da fare a bordo dato che, come puoi ben vedere con i tuoi occhi, l’equipaggio è composto esclusivamente da me e nessun altro. Per la ricompensa da parte della Dea ci metteremo d’accordo più avanti. Sali a bordo amico, si salpa! Io mi chiamo Demetrios.
Theodote non se lo fece ripetere due volte e, attraversata con cautela la passarella, balzò dentro la Athena con un salto tirando poi dietro a se l’asse di legno che gli aveva permesso di entrare a far parte di quel risicato equipaggio.
Nel giro di qualche ora i due nuovi compagni di viaggio erano già al largo, la terra ferma non era più visibile e tutt’intorno all’Athena vi era solo il blu delle acque del Mediterraneo. Il vento era buono, la vela gonfia e lo scafo correva liscio fendendo le poche onde presenti. Demetrios si era dimostrato un capace capitano in grado di governare anche da solo senza alcun problema la propria imbarcazione. Ciò nonostante l’aiuto di Theodote, il quale obbediva puntualmente e con buona volontà a tutti gli incarichi che gli venivano assegnati, gli rendeva meno faticosa la navigazione.
Nel tardo pomeriggio Demetrios se ne stava tranquillo al timone mentre, sul limite opposto del ponte, Theodote era indaffarato a far pratica di nodi marinari.
«La notte in mare cala velocemente e con essa anche il freddo, ti consiglio di coprirti» gli disse il capitano lanciandogli una coperta di lana.
«Grazie per il pensiero. In effetti sento la brezza farsi più fresca. Tu non ti metti nulla addosso» ribatté Theodote.
«Io sono abituato e comunque non voglio distrarmi. Rivolgi il tuo sguardo verso ovest, il sole sta calando, non è forse uno spettacolo impareggiabile?» rispose in tono compiaciuto Demetrios.
Effettivamente la visione del disco solare che calava dietro alla linea dell’orizzonte era una cosa magnifica: un ampio semicerchio arancione con sfumature di colori che andavano dal giallo al viola passando per il rosso sembravano fondersi come sulla tavolozza di un artista con l’azzurro del cielo ed il blu del mare in un insieme di tinte la cui contemplazione non poteva fare a meno di riempire lo spirito di gioia e di un naturale senso di appartenenza alla magnificenza del creato.
Forse era proprio per la stessa magnificenza di quel dipinto che, ogni giorno, tale spettacolo poteva essere osservato per soli pochi minuti. In breve tempo infatti la notte prese il sopravvento ed il mare si fece una massa scura e silenziosa il cui solo sciacquettio delle onde che si infrangevano sulla prua dell’Athena faceva percepire la sua presenza.
Demetrios aveva solo le stelle sopra la sua testa per orientarsi.
Quest’ultimo, forse per fare due chiacchere, prese la parola intavolando un discorso con Theodote:
- Parliamo di cose serie. Come dicevi che la Dea mi pagherà il tuo viaggio, Theodote?
Nell’ombra del ponte, accendendo una lanterna, il cavaliere decise di dire la verità a quel ragazzo che non solo lo stava aiutando a compiere la sua missione ma che soprattutto doveva riuscire a convincere a far divenire la causa della Dea Athena lo scopo della propria vita futura. I segnali che il cosmo di Demetrios gli stava lanciando erano chiari e nitidi.
«Non ti ho mai mentito in proposito alla ricompensa che Athena saprà riconoscerti. Non sarà né denaro né gloria probabilmente ma, se ti unirai a me e agli altri miei compagni d’arme, potrai divenire un suo cavaliere ed ambire a farti carico della vita più nobile che esista. La Dea Athena al momento si trova in una località dell’Attica in compagnia del fedele Patros mentre l’altro mio compagno Atthia è in viaggio come me in cerca di altri uomini degni di costituire l’esercito della Dea. Tra meno di un anno dovremo fare ritorno in Attica mentre nel prossimo futuro saremo chiamati a scalare il monte Olimpo e a combattere contro i guerrieri delle altre divinità per guadagnarci il diritto, come Athena desidera, di poterci far carico della salvaguardia dell’intera umanità. Noi siamo i cavalieri di Athena, siamo uomini scelti dalle stelle che ci hanno fatto dono di poteri straordinari che ci consentono di fare cose impensabili. L’insieme di questa energia potentissima che esse ci conferiscono viene chiamata cosmo. Bisogna solo saperlo riconoscere e piegarlo alla nostra volontà in modo da poterne sfruttare le immense potenzialità».
Demetrios, la cui sagoma era appena visibile grazie alla fioca luce della lanterna ora accesa, si avvicinò a Theodote tenendo in mano un secchio di legno colmo d’acqua quasi sino all’orlo.
«Ti sembrerà impossibile ma le tue parole non mi suonano poi così strampalate. Mio nonno, sin da quando ero poco più che un infante, mi parlava di cose simili a quelle di cui mi hai narrato. Narses, questo era il nome del padre di mio padre, sapeva fare cose molto particolari e, dicendomi di avvertire queste sue capacità anche in me, mi ha sempre incoraggiato a coltivarle piuttosto che a temerle. Io non so se questo sia il cosmo di cui parli ma voglio darti una dimostrazione» disse Demetrios accovacciandosi di fronte a Theodote e frapponendo il secchio tra loro due.
Il capitano dell’Athena cercò di trovare la massima concentrazione, chiuse gli occhi e lasciò che il potere ereditato da Narses si liberasse.
Theodote lo osservava in religioso silenzio. Era incuriosito ed al contempo emozionato.
Demetrios aprì il palmo della propria mano e lo avvicino al pelo dell’acqua contenuta dentro al recipiente. Dopo qualche secondo, alcune piccole bollicine d’aria iniziarono ad affiorare in superficie in un crescendo sempre maggiore e repentino; in breve tempo il liquido iniziò letteralmente a bollire tanto da produrre del vapore che, leggero, si alzò sino al di sopra delle le loro teste. Theodote poteva avvertire nitidamente il calore del gas sul proprio viso mentre alcuni piccoli schizzi d’acqua che, zampillando al di fuori del secchio, andarono a bagnargli le gambe.
Demetrios guardò il cavaliere con aria compiaciuta prima di chiudere il pugno e far sì che l’acqua riacquistasse nel medesimo tempo il suo quieto stato originale.
«Interessante e stupefacente» fu il commento di Theodote.
«Questo è ciò che riesco a fare, il mio dono è quello di saper dominare i liquidi» ribatté Demetrios.
L’ateniese fissò quest’ultimo e gli disse:
- In te c’è senza dubbio del cosmo o come preferisci chiamarlo. Il fatto che tu riesca a controllare lo stato dell’acqua è solamente una delle forme in cui il tuo dono può esprimersi. Ti assicuro, Demetrios, che puoi fare molto di più: lascia che ti dia una piccola dimostrazione.
Theodote si alzò e, spostandosi al centro del ponte, incrociò le dita della mano destra con quelle della sinistra facendo perfettamente aderire i palmi di entrambe. Dopo alcuni secondi il capitano dell’Athena, che osservava attentamente il compagno di viaggio, vide con suo stupore che dalle mani di Theodote stava iniziando a fuoriuscire una lama di luce che, nel tempo di un battito di ciglia, aveva già assunto la forma di una piccola sfera. Questa cosa continuava a crescere ma Theodote pareva saperne controllare la probabile potenza esplosiva; in breve la sfera era così grande da nascondere la sagoma del suo domatore il quale, facendo perno sulle gambe, si era flesso nell’atto di sollevarla sopra il capo per poi lanciarla come un asteroide in direzione del cielo.
La sfera di luce lasciò la presa di Theodote e partì ad una velocità straordinaria salendo in verticale di alcune decine di metri ben al di sopra della sommità dell’albero maestro. Per alcuni secondi l’oscurità della notte parve ricedere anzitempo il passo al chiarore del giorno. La palla di energia poi esplose all’improvviso dividendosi in centinaia di altri corpi luminosi che, dalla barca, parvero sembrare a Demetrios una moltitudine di draghi infuocati che, balenando tra le stelle, finirono infine per ricadere verso il basso sino a spegnersi tra i flutti.
Demetrios era ancora con il naso all’insù quando Theodote, appoggiandogli amichevolmente una mano sulla spalla, gli sussurrò:
- questo è il vero potere di una cavaliere di Athena ma non credere che il mio cosmo sia poi così differente dal tuo. Io ho solamente avuto la fortuna di incontrare prima di te qualcuno che mi mostrasse come usarlo. Se vuoi, caro Demetrios, il tuo viaggio nella conoscenza del tuo dono può iniziare oggi.
I due discussero praticamente senza sosta sino all’alba e per tutto il giorno seguente sulla missione che la Dea Athena aveva affidato ai cavalieri, su cosa sarebbe successo tra sette anni, sui poteri del cosmo; fecero numerose ipotesi sulla sua origine senza in fin dei conti trovare una risposta convincente al quesito, Theodote diede i primi vaghi insegnamenti al Demetrios che si dimostrò molto recettivo sin dalle prime battute. L’ateniese fece leva sulle capacità e sulla curiosità del marinaio per convincerlo a proseguire con lui l’avventura verso Meteora ed oltre ma Demetrios, anche se a tratti si lasciava invogliare dalle lusinghe di Theodote, pareva in definitiva riluttante ad abbandonare la sua vita attuale per iniziare un cammino che non sapeva dove lo avrebbe condotto.
La notte successiva, mentre Demetrios diede sfoggio di avere una resistenza ed una costanza stupefacente nel condurre la propria imbarcazione a destinazione, Theodote si abbandonò al sonno riposando per qualche ora.
Quando non doveva mancare troppo all’alba fu richiamato ad uscire dal suo torpore dalla voce di Demetrios che urlava:
- Terra!!!
Theodote, alzandosi con calma e liberandosi della coperta con cui si era avvolto per ripararsi dall’umidità e dal freddo che la fanno da padroni nel cuore di una notte passata in alto mare, riacquisì lentamente la padronanza dei sensi. Stropicciandosi gli occhi gettò lo sguardo verso prua. In lontananza, dove un leggero chiarore testimoniava il sopraggiungere di un nuovo sole, una massa scura e dal profilo vaporoso indicava la presenza di un litorale che, con ogni probabilità, era la costa della Tessaglia.
Theodote si rimise la coperta sulle spalle perché, nonostante stessero navigando verso una nuova alba, l’aria e la brezza di mare erano ancora piuttosto pungenti, dopodiché andò ad affiancare Demetrios vicino al timone.
Mano a mano che veleggiavano verso Nord Ovest la sagoma del litorale appariva loro sempre più nitida e i tetti delle case di Vòlo, così come gli alberi delle imbarcazioni ormeggiate al porto, confermavano la presenza della civiltà.
Theodote si stava complimentando con Demetrios per aver rispettato perfettamente la tabella di marcia che gli aveva palesato durante il loro primo incontro avvenuto sul molo di Calcide quando improvvisamente ed in modo innaturale una fitta nebbia salì dal mare avvolgendo completamente l’Athena nel giro di qualche minuto. Contemporaneamente all’insorgere di questo insolito fenomeno anche il vento parve arrestarsi di colpo facendo sgonfiare la vela della nave; tutt’intorno regnava un totale silenzio, anche il canto dei gabbiani, che poco prima avevano iniziato a volteggiare sopra le loro teste, si era fatto improvvisamente silenzioso.
Demetrios perse il senso dell’orientamento al punto che non avrebbe saputo dire in quale direzione fosse la prua della nave che era ora solamente sospinta dalle piccole onde il cui sbattere incessante contro lo scafo in legno dell’Athena era il solo suono ravvisabile. Theodote sentiva che qualcosa non stava andando per il verso giusto: l’aria, che si era fatta troppo tiepida, aveva un odore disgustosamente dolciastro e il suo cosmo iniziava ad ardergli in petto come per volerlo avvisare dell’avvicinarsi di un imminente pericolo.
Tra la nebbia poi, a distanza di una decina di metri, apparì loro la sagoma di una barca dalla forma alquanto curiosa. Aveva le dimensioni di una scialuppa, era interamente di colore nero, la sua prua era arrotondata e sulla sommità vi era una sorta di ricciolo alquanto insolito. Due lanterne rosse dovevano essere apposte circa a metà dello scafo. A condurla infine pareva esserci un solo uomo il quale, per mezzo di un lungo remo, sospingeva l’imbarcazione in direzione dell’Athena.
Mentre questa strana figura continuava ad avanzare, Demetrios fece il gesto di richiamare l’attenzione del barcaiolo ma Theodote gli intimò di fare silenzio apponendo il proprio indice sulle labbra dell’amico.
«Resta qui, lascia che sia io a verificare l’identità di costui» disse sotto voce l’ateniese.
Percorrendo il ponte della nave sino alla sommità, Theodote aguzzò la vista cercando di abituare le proprie pupille all’oscurità fatta calare della nebbia. Dopo un primo momento di smarrimento, osservò con orrore che quelle che aveva scambiato per lanterne rosse erano in realtà gli occhi del conducente della sinistra scialuppa che gli si stava facendo incontro.
«Chi va là?» intimò il cavaliere a quella tetra figura ricevendo in risposta solamente una grottesca risata. Un brivido gli attraversò la schiena al solo udirla.
«Non procedere oltre o non potrò più garantire per la tua sicurezza» proseguì nonostante il gelido terrore che gli stava percuotendo le membra.
Il barcaiolo, ormai prossimo allo scafo dell’Athena, prese finalmente a parlare mostrando la propria voce che, non meno tenebrosa della risata di pochi attimi prima, scoprì un ghigno appuntito e malsano:
- Io sono Caronte di Acheronte della stella del cielo di mezzo e se invece il tuo nome corrisponde a Theodote, cavaliere di Atena, sappi che sono giunto sin qui per ucciderti. Sei dunque tu l’anima già condannata che devo traghettare sino in Ade?
Udendo quelle dichiarate minacce, Theodote si irrigidì in un moto di fierezza affermando di essere lui stesso l’oggetto delle sue mire omicide e di essere pronto allo scontro.
Caronte non esitò nemmeno un istante innanzi al guanto di sfida gettatogli dal cavaliere; liberatosi del mantello scuro e sgualcito in cui era avvolto, rivelò di indossare sotto ad esso una curiosa armatura di colore nero e viola che proteggeva il suo corpo dalla testa, dove l’elmo bislungo era adornato da due corni simili alle zanne di un aracnoide, sino ai piedi che, come in corrispondenza dei gomiti, delle ginocchia e dei copri spalle, erano adornati da delle sfere metalliche il cui stile perfettamente si allineava con quello della sua particolare imbarcazione. Usando il remo come pertica fece leva sul fondo di quest’ultima e, compiendo un balzo degno di un circense, volò in aria vorticando su se stesso e finendo poi per atterrare al centro del ponte dell’Athena.
Questa prima mossa mise subito in difficoltà Theodote che ora non avrebbe potuto lanciare i suoi formidabili colpi contro il nemico in quanto avrebbe al contempo corso il rischio di colpire o Demetrios o lo scafo della loro nave causandone l’immediato affondamento.
Caronte si era posto, piazzandosi nel mezzo, esattamente alla stessa distanza sia da Theodote che da Demetrios; ancora immobile e piantato là dove era saltato, stava chiaramente studiando gli avversari. Li osservava a turno mantenendosi guardingo.
«Siete in due dunque. Avverto nitidamente due cosmi anche se uno arde più nitidamente dell’altro. Il mio incarico era quello di prendere la testa di Theodote ma questa sorpresa non farà altro che aumentare la gloria del mio successo. Porterò al mio signore due anime di cavaliere o aspirante tale anziché una sola come era stato previsto» disse infine Caronte sogghignando.
«Theodote, preparati: tu eri il mio obbiettivo, tu sarai il primo a crepare!»
Detto ciò, Caronte si scagliò in direzione della prua della nave contro il cavaliere da lui indicato impugnando il remo come una lancia e scagliando un fendente che Theodote riuscì a schivare per un soffio. L’ateniese si scostò di lato ma un secondo fendente lo raggiunse colpendolo duramente sul fianco destro. Il dolore fu al contempo sordo e pungente. Tastandosi d’istinto il bacino con la mano, Theodote girò ancora una volta su stesso retrocedendo di qualche metro all’indietro. Alle sue spalle Demetrios non riusciva a muovere un muscolo, davanti a lui invece Caronte lo osservava ora con aria trionfante standosene appollaiato in equilibrio sopra al bompresso dell’Athena.
«E’ tutto qui il potere di un cavaliere di Athena?» domandò il malvagio barcaiolo con un tono che apparve a metà tra un rimprovero e un gesto di scherno.
Theodote stava ancora stringendo i denti per il colpo ricevuto ma sul suo viso apparvero quelle due fossette che sempre si presentavano ad ogni suo sorriso. Lasciarsi colpire era stato l’unico sistema per far avvicinare imprudentemente Caronte e farlo posizionare esattamente là dove lui voleva. Non vi era ora né un amico né lo scafo dell’Athena a frapporsi tra i suoi colpi e il nemico: Caronte era candidamente scoperto e dietro a lui vi era solo un nebbioso orizzonte.
Theodote lasciò bruciare il cosmo dentro di sé e, con un colpo repentino, lasciò che dalle sue mani si sprigionasse una bolla fiammeggiante che andò a colpire in pieno viso Caronte che cadde in mare abbattuto senza aver potuto nemmeno rendersi conto dell’errore banale che aveva commesso pocanzi lasciandosi ingolosire dal fianco scoperto del giovane cavaliere.
Demetrios, vedendo cadere il loro assalitore in acqua, si accostò immediatamente a Theodote chiedendo esultante:
- Lo hai ucciso?
«Non credo. Percepisco ancora parte del suo nero cosmo. Ho dovuto colpirlo il più velocemente possibile per evitare che si spostasse e per tanto non mi è stato possibile imprimere la massima potenza al mio attacco. Sono sicuro che sia ancora qui intorno pronto a giocarci qualche altro brutto tiro. Forse resterà nascosto per chi sa quanto in attesa di un nostro passo falso ma credo che potremmo liberarci definitivamente di lui se unissimo le nostre forze» rispose Theodote concentratissimo.
«Unire le nostre forze? Che intendi dire?» chiese Demetrios a metà tra l’interdetto ed il caparbio.
Theodote distolse per un istante il proprio attento sguardo dal punto in cui Caronte era stato inghiottito dai flutti, appoggiò entrambe le mani sulle spalle di Demetrios e, fissandolo con i suoi profondi occhi verdi, gli rivolse le seguenti parole di incoraggiamento:
- Demetrios di Calcide tu sei un predestinato. Se anche un lurido nemico come Caronte ha percepito il tuo cosmo, ciò significa che in te arde quell’essenza che ti condurrà a divenire un cavaliere. So che ancora non sei in grado di sfruttare al massimo il potenziale del tuo cosmo ma, affinché la mia missione possa proseguire e per eliminare definitivamente costui che attenta alle nostre vite, ti chiedo di cercare ora di concentrarti come mai hai fatto sino ad oggi. Ricordi il numero che mi hai fatto con l’acqua all’interno del secchio? Voglio che tu ottenga lo stesso risultato con quella del mare.
«Il mare? Ma è impossibile! Un conto è un secchio d’acqua, un altro è il mare intero» obiettò Demetrios.
«Non vi è nulla di impossibile per un cavaliere, ricordalo. E ora provaci Demetrios, concentrati, la Dea Athena guiderà il tuo spirito» lo incoraggiò l’amico.
Il marinaio annuì con un gesto del capo. Dopodiché si portò sul bordo dello scafo della propria nave, inspirò profondamente e, chiudendo gli occhi, cercò di fare ciò che Theodote gli aveva chiesto.
Dopo qualche secondo di nulla assoluto, iniziò ad avvertire nel petto e nella testa una sensazione che già aveva conosciuto in precedenza ma di portata enormemente amplificata. Nelle orecchie gli pareva di distinguere nitidamente il suono emesso da ogni molecola di quell’immensa distesa d’acqua dalla quale era circondato. Gli sembrava quasi di poterle contare, sentiva lo stridere di ciascuna di esse contro le altre. Improvvisamente l’idea di poterle muovere con il pensiero a suo piacimento non era più così assurda.
«Così sarà» pensò.
Demetrios si sentiva ardere quando spalancò gli occhi e quando puntò la propria mano in direzione dei flutti a lui sottostanti.
Sotto lo sguardo attento di Theodote, dal pelo del mare iniziarono a salire delle piccole bolle d’aria che andarono aumentando di numero e di intensità secondo dopo secondo sino a quando un fumo leggero e biancastro non si sprigionò dalle onde andandosi a confondere con la nebbia. A breve intorno all’Athena il mare stava letteralmente ribollendo.
Theodote stava solo aspettando il momento opportuno. Sapeva che Caronte non si sarebbe potuto nascondere ancora a lungo in quel liquido scuro. Infatti, così come aveva calcolato, all’improvviso la sagoma del nemico emerse tra gli spruzzi dal profondo delle acque come un grosso pesce che, preso all’amo, salta fuori dal suo ambiente naturale sbattendo la coda nel disperato tentativo di liberarsi dal giogo del pescatore. In quel preciso istante tutta il cosmo che Theodote aveva preparato esplose in un colpo decine di volte superiore per forza ed intensità a quello che già aveva inferto a Caronte. Una palla di luce e fuoco dalla quale parevano uscire centinaia di draghi investì in pieno l’inerme avversario quando ancora era a mezz’aria. La nera armatura si sbriciolò in migliaia di piccole briciole mentre il corpo fu lacerato al punto da disintegrarsi trasformandosi in una nube gassosa di sangue. Demetrios trasalì e cadde sulle ginocchia per lo sforzo. Theodote lo raggiunse sostenendolo.
«Caronte è stato annientato. Ora è finita ma forse, amico mio, per te al contrario è iniziata una nuova vita» lo rassicurò l’ateniese.
Con i resti di Caronte, anche la sua strana imbarcazione stava andando a picco mentre intorno all’Athena la nebbia si diradò repentinamente. La luce del sole era già abbagliante oltre l’orizzonte, il cielo era terso di un azzurro brillante, i gabbiani volavano intonando i loro richiami al di sopra delle loro teste, il vento soffiava in poppa, la costa era nitidamente visibile a distanza di un paio di leghe. Le vele dell’Athena si sarebbero rigonfiate e, di lì a poco, avrebbero permesso ai due cavalieri di raggiungere il porto di Vòlo.