CAPITOLO VII

Era molto tempo che non provava quella sensazione sulle proprie membra: l’incrollabile guerriero spartano, dopo quasi una settimana di cammino tra i sentieri e le strade dissestate dell’Attica, riposando tre o quattro ore al massimo per notte su di una stuoia che tutto era tranne che comoda, iniziava a sentirsi piuttosto stanco e spossato. Oltre al fisico, anche la mente iniziava a vacillare. La missione di cui si era fatto carico non lo disturbava tanto per la sua probabile difficoltà pratica ma piuttosto per l’inconsistenza delle informazioni in suo possesso per poterla portare a compimento; non sapeva chi dover trovare e tantomeno aveva idea di come avrebbe saputo convincere a sposare la propria causa colui o coloro che solo il cosmo gli avrebbe suggerito essere i predestinati. Le poche persone che aveva incrociato durante il suo cammino, per lo più viandanti o commercianti intenti a spostarsi da una città all’altra per affari, si erano dimostrate essere semplici uomini o donne privi di quel cosmo sopito che andava cercando e quindi non di certo designati a divenire cavalieri della Dea Athena.

Nel giro di qualche ora un altro giorno sarebbe volto al termine ed Atthia si accingeva nuovamente a rassegnarsi all’idea di passare un’altra nottata all’aperto quando in lontananza scorse del fumo chiaro che, probabilmente, proveniva da una casa dove avrebbe potuto chiedere asilo sino al mattino successivo.

Accelerò il passo uscendo dalla strada maestra e tagliando per un campo seguendo con lo sguardo la scia della fumarola che, mano a mano che si avvicinava alla sua origine, diveniva sempre più nitida e compatta. Il campo era evidentemente localizzato sopra un piccolo altipiano sul limitare del quale, data la posizione sopraelevata, divenne chiaramente visibile, al termine del breve pendio dove la strada principale disegnava un’ampia curva per poi addentrarsi dentro una foresta, una casupola in sasso dalla forma piuttosto squadrata che aveva tutto l’aspetto di essere una locanda.

Il giovane spartano discese il pendio ed attraversò la successiva breve area pianeggiante con passo svelto arrivando in breve tempo alla staccionata in legno che evidentemente delimitava la proprietà del locandiere. Al di là di quel recinto ligneo vi erano anche un cavallo, una vacca ed alcune capre intente a brucare quel poco d’erba che restava loro a disposizione all’interno della piccola aia a lato dell’edificio. Atthia slegò il cordolo che teneva il cancello chiuso e, una volta entrato, lo ripose nella medesima posizione in cui lo aveva trovato; avvicinandosi all’uscio della casa, si impegnò a fare un po’ di baccano per farsi udire da coloro che vi si fossero trovati all’interno. Sapeva infatti che spesso la sua mole e il suo aspetto nonché il suo armamento lasciavano intendere al prossimo cose che in verità non facevano parte dei suoi propositi; infatti un guerriero del suo calibro, e per giunta armato, la più parte delle volte poteva spaventare chiunque se lo trovasse all’improvviso davanti agli occhi. Quel giorno Atthia però non era sul piede di guerra ma cercava solo rifugio e possibilmente anche ristoro per la notte a venire. Il tintinnio dello scudo ottenne il risultato sperato: un uomo di mezza età, probabilmente l’oste, si affacciò sull’uscio. Era un uomo piuttosto robusto, decisamente in carne, dai capelli grigi e radi, abbigliato con un paio di calzoni sgualciti e di colore marrone scuro ed un grembiule legato al collo che di sicuro, date le macchie di varia origine presenti su di esso, non pareva essere stato lavato di recente.

«Chi siete?» domandò restando comunque con un piede dentro e con l’altro fuori dall’ingresso e con un braccio piegato dietro la schiena dove con ogni probabilità impugnava di nascosto un coltello da cucina.

«Il mio nome è Atthia di Sparta, cavaliere di Athena» fu la fiera risposta.

«Cavaliere di Athena? E che significa?»

Atthia, sospirando e pensando che ogni spiegazione sarebbe stata superflua continuò nel dibattito indicando con il pollice della mano ciò che restava di una catasta di ciocchi di legno tagliati:

- Non ve ne curate signore. Sono un soldato e ho camminato quasi ininterrottamente per una settimana, sono molto stanco e vi chiedo ospitalità per la notte e, se vi è possibile, anche qualcosa da mettere sotto ai denti. Non ho denaro con me ma posso ripagare la vostra gentilezza svolgendo qualche lavoro per vostro conto. Non ho potuto fare a meno di notare che la staccionata andrebbe riparata, che l’aia andrebbe rassettata e che la legna che usate per alimentare il vostro focolare sta andando finendo.

L’oste rimase qualche secondo in silenzio scrutando da capo a piedi l’uomo che, ora meno minaccioso ma comunque tenuto a distanza di sicurezza, attendeva davanti a lui una risposta.

«Di norma non mi presto a questo genere di baratti ma diciamo che ho simpatia per i soldati. Sapete, anche io stesso in gioventù ho prestato servizio sotto la bandiera di Atene. Comunque posso offrirvi al massimo un piatto di zuppa e un tetto sopra la testa sino all’alba di domani ma dovrete accontentarvi del pagliericcio della stalla. Per quando il sole sarà alto sulle nostre teste, voi dovrete già essere lontano da qui. Tutto ciò se naturalmente saprete rimpinguare la catasta di legna da ardere, la staccionata e l’aia invece mi stanno bene così come sono e naturalmente se vorrete consegnarmi le vostre armi. Cercate di capire, mio buon soldato, fidarsi è bene ma prendere le dovute precauzioni mantiene più a lungo in vita».

Atthia si morse le labbra. Non si era mai separato dalla sua spada e l’idea che le sudice mani di quell’uomo sfiorassero l’acciaio della sua lama non gli piaceva affatto ma, data la sua spossatezza, acconsentì alla richiesta del locandiere con un cenno della testa.

«Il bosco è alle nostre spalle, vi consiglio di affrettarvi ad andare a far legna prima che cali la sera. Quell’incapace del mio garzone vi accompagnerà» disse con fare tronfio l’oste mentre con le mani faceva frettolosamente cenno ad Atthia di consegnargli gli armamenti.

Sganciato lo scudo e sfilata la lama dal fodero, Atthia gli porse il tutto con una certa riluttanza mentre all’oste parevano brillare gli occhi innanzi a quegli oggetti di forgia spartana così qualitativamente superiori a qualsiasi spada o scudo con cui egli avesse mai avuto a che fare durante il servizio sotto Atene.

Atthia stringeva ancora la spada tra le mani mentre il grasso uomo la reclamava avidamente e a quel punto non poté più trattenersi dal dire:

- Prestate molta attenzione a questa lama, conosco ogni suo graffio e ogni sua minima scalfitura. Domattina cercate di restituirmela così come ve la sto porgendo io in questo preciso momento o vi assicuro che vi renderete conto anche di quanto sia affilato il suo filo.

L’oste non dimostrando apparentemente timore nei confronti delle parole appena pronunciate da Atthia si limitò a rilanciare domandando stizzito anche l’elmo in consegna.

Lo spartano gli consegnò il copricapo fissandolo irrequietamente negli occhi.

Atthia aveva già voltato le spalle al locandiere quando udì quest’ultimo strillare:

- Alexandros???

Dall’interno dell’edificio si affacciò un giovane dai capelli ricci e castani, gli occhi dello stesso colore e dai bei lineamenti che sicuramente facevano escludere qualsiasi grado di parentela con il titolare dell’impresa. Scalzo ed abbigliato con solamente un paio di braghe biancastre metteva in luce il suo fisico asciutto e ben definito.

«Lui è Alexandros, il mio garzone» precisò l’uomo.

«Segui il nostro ospite nel bosco, tienilo d’occhio e vedi di rientrare prima che faccia buio perché ti resta ancora da dare la biada alle bestie e se prima non mangiano loro non mangi nemmeno tu» fu intimato ad Alexandros.

Il ragazzo ubbidì uscendo dalla casa con lo sguardo rivolto verso il suolo ed andando dietro ad Atthia il quale aveva, dal canto suo, già mosso i primi passi in direzione della boscaglia situata dietro alle stalle che, a loro volta, erano localizzate sul lato posteriore dell’edificio.

In un primo momento il cavaliere non diede peso a quel giovane garzone ma, improvvisamente, simile ad una scarica elettrica, un sibilo gli attraversò il capo da orecchio a orecchio. Atthia si voltò repentinamente: per un istante l’ambiente circostante gli sembrò bloccarsi come d’incanto, tutto gli apparve non più a colori ma in bianco e nero tranne un bagliore brillante e di colore giallo intenso che pareva avvolgere il giovane Alexandros.

In un lampo la situazione gli fu chiara: in quel ragazzo vi era un cosmo sopito, la sua missione prendeva corpo.

Alexandros gli si affiancò in pochi passi e dandogli un piccolo colpetto con la spalla gli disse:

- Bhé? Che hai da guardare? Diamoci una mossa, non ho voglia di saltare la cena per colpa tua.

Alcuni minuti dopo i due erano avvolti dalla boscaglia ed Atthia aveva già tra le braccia un discreto numero di rami e tronchi di modeste dimensioni che poi avrebbe fatto a pezzi più tardi; Alexandros lo aiutò nel trasportarli verso la casa facendogli fretta. La sera stava scendendo velocemente e gli animali dovevano essere nutriti.

Una volta usciti dal bosco, il più giovane dei due si fermò a svolgere le proprie mansioni mentre Atthia, fuori da occhi indiscreti, poté sfruttare la sua rapidità per effettuare ancora un paio di andirivieni e la sua forza speciale per tagliare a mani nude i rami più robusti.

Tenuta fede agli impegni presi con il proprietario di casa, il cavaliere poté finalmente distendere le membra sulla soffice paglia che gli sembrò, nella fattispecie, più degna e comoda del giaciglio di un palazzo reale.

La stalla, essenzialmente una struttura di assi di legno scricchiolanti, era pregna dell’odore del fieno che era accumulato sul fondo dell’unico stanzone di cui era costituita; quest’area era nettamente separata da quella dedicata al ricovero delle capre e degli altri animali durante il periodo invernale, il tetto era costruito con altre travi dello stesso legno e ricoperto con dei coppi di colore grigio, l’ingresso, che era il solo lato aperto dell’ambiente eccezion fatta per alcuni lucernai posti sulla sommità delle pareti di destra e di sinistra, poteva infine essere sigillato da un’ampia porta a due battenti che poteva a sua volta essere chiusa solo dall’esterno tramite un chiavistello in ferro.

La tranquillità ed il silenzio di quel luogo stavano in parte facendo sì che gli occhi del possente Atthia iniziassero a socchiudersi quando il cigolio di uno dei cardini arrugginiti del portone gli impedì di lasciarsi sopraffare dal sonno. Alexandros fece capolino.

«Vieni pure avanti» gli disse lo spartano schiarendosi la voce con un colpetto di tose e mettendosi in posizione seduta.

Il giovane portava con la mano destra una ciottola di coccio contenente una zuppa fumante mentre con la sinistra stringeva una pagnotta avvolta all’interno di un panno di lino.

Atthia, alzatosi in piedi del tutto, gli andò incontro ricevendo le pietanze. Rimessosi poi a sedere notò da subito che Alexandros tentennava nell’uscire dalla stalla e dunque gli rivolse la seguente domanda:

- Ragazzo, intendi stare qui ad osservarmi mentre mangio o hai qualcosa da chiedermi?

Alexandros un poco imbarazzato gli restò per qualche secondo davanti senza proferire parola e con lo sguardo di colui che vuole domandare ma non sa se e come farlo; dopo l’esitazione iniziale però il giovane si mise a sedere di fronte all’ospite, gli tese la mano, e, fissandolo con determinazione, gli chiese:

- Tu sei un soldato, vero? Dove stai andando? Se dovessi tirare a indovinare, ti direi che tu sei a caccia di un ingaggio da parte di qualche esercito di liberi mercenari, dico bene? In caso contrario non saresti giunto sin qui in solitudine e nelle tue condizioni ma quantomeno accompagnato da qualche altro tuo compagno e un pochino più equipaggiato. Comunque ti dico che, qualsiasi sia la storia o l’avventura che ti ha condotto sin qui, a me non importa ma che ne diresti di portarmi con te? Potrei farti da scudiero: sono abbastanza robusto da portare il peso delle armi, ho un ottimo senso dell’orientamento e saprei ben occuparmi di un cavallo. Che ne dici spartano, vogliamo suggellare questo accordo?

Atthia guardò da sotto in su il giovane intento nel porgergli la mano e, mordendo la pagnotta, si lasciò sfuggire un sorriso ironico.

Fissò Alexandros intensamente con i suoi profondi occhi neri sino a quando non ebbe terminato di masticare e deglutire ciò che aveva appena addentato, dopodiché, con estrema tranquillità, scostò la mano del ragazzo e prese a parlare.

«Io ero un soldato! Ora io sono un cavaliere di Athena e quando nomino la Dea intendo propriamente dire ciò che hai udito. La Dea della giustizia cammina tra noi ed io sono uno dei suoi fedeli guerrieri. Dove sto andando ancora di preciso non lo so ma la mia missione non è quella di entrare a far parte di un esercito o di un battaglione ma quella di individuare i membri destinati a fare parte di un esercito che ancora non esiste. Questo gruppo di cavalieri predestinati dalle stelle avrà l’onere e l’onore di combattere sotto il nome della Dea Athena per farsi carico della salvaguardia dell’intera razza umana».

Alexandros lo guardò incredulo e per un certo verso anche amareggiato. Aveva immaginato che quell’uomo venuto senza preavviso dal nulla lo avrebbe liberato dalla noia e dall’oppressione di quel lavoro da garzone che decisamente, anche se per il momento gli dava da mangiare, non faceva decisamente per lui ed ora colui che si professava cavaliere di una Dea si era dimostrato essere esclusivamente un folle.

Atthia lesse negli occhi e nell’espressione del suo ascoltatore i chiari segni dell’incredulità, ciò nonostante proseguì:

«So perfettamente che non mi credi ma devi sapere che ciò che ti ho appena detto corrisponde al vero. Esistono uomini che nascono dotati un potere straordinario che noi chiamiamo cosmo e che è insito in loro senza una spiegazione apparente. Questi individui devono solo trovare dentro loro stessi questo cosmo ed imparare a saperlo domare mettendosi al servizio della giustizia. A loro non serviranno più né armi né altro perché il potere a loro conferito li rende capaci di cose ai confini dell’immaginabile».

«E allora perché tu sei arrivato armato di elmo, scudo e spada se non abbisogni di nulla per sconfiggere un nemico?» chiese sarcasticamente Alexandros.

«Porto sempre con me le mie armi perché sono uno spartano, sono nato con una lama tra le mani! La tua domanda è più che lecita ma ti assicuro che io sono un cavaliere di Athena, in me arde un potente cosmo e te lo posso dimostrare anche adesso se lo desideri».

Alexandros si esibì in una smorfia arricciando le labbra ma, ciò nonostante, non si mosse dalla sua posizione.

Lo spartano lo inquadrò con lo sguardo per l’ultima volta prima di abbassare le palpebre e trovare la giusta concentrazione. Immediatamente sentì un calore espandersi in corrispondenza del cuore che riuscì a convogliare nel suo pugno destro dal quale improvvisamente iniziò a defluire un bagliore pervaso da dei minuscoli lampi che aumentavano d’intensità un secondo dopo l’altro. Atthia spalancò di colpo gli occhi, Alexandros era a bocca semi aperta e con un’espressione incredula dipinta sul viso. Il cavaliere inspirò profondamente, ruotò il polso e, aprendo il pugno, riuscì a domare secondo la propria volontà l’energia che si stava sprigionando dal suo arto contenendola e plasmandola in forma di sfera luminosa. All’interno di essa, sforzando gli occhi nel tentativo di resistere all’abbagliamento, pareva quasi di scorgere una miriade di stelle microscopiche sul punto di esplodere.

Alexandros cadde all’indietro spaventato e, gattonando in direzione opposta a quell’inspiegabile prodigio, sentì il cuore sobbalzargli dentro al petto e la gola seccarsi in un sol momento.

La dimensione ed il bagliore della sfera aumentavano di intensità, la stalla stava quasi per essere illuminata a giorno e, al di fuori di essa, si udì il nitrito del cavallo quando Atthia chiuse il pugno che parve soffocare tutta quell’energia che sino ad un istante prima pareva in procinto di esplodere.

Il buio riebbe la meglio.

Il cavaliere si alzò di scatto; la sua stazza imponente ora sovrastava e terrorizzava il giovane Alexandros che, ancora riverso al suolo, si vide piombare la sagoma dello spartano addosso; la reazione naturale fu quella di coprirsi il viso con l’avambraccio dato che ciò che si aspettava era di essere colpito con una forza tale da staccargli la testa dal collo. Passarono alcuni attimi che gli sembrarono interminabili, poi si sentì afferrare per le spalle e sollevare da terra. Non avvenne nulla di ciò che si aspettava: nessun dolore, nessun colpo, era ancora vivo ed in salute, la sola cosa che non quadrava era il fatto che i piedi non toccassero terra. Aprì con cautela prima un occhio, poi il secondo: Atthia lo teneva sollevato ed ora i loro sguardi era posti alla medesima altezza. Lo spartano lo stava fissando con un ghigno a metà tra il divertito e lo stupefatto.

«Ti sei spaventato, ragazzo?» gli chiese sottovoce schernendolo.

«Non credo che tu ne abbia ragione, specialmente nel tuo caso» prosegui Atthia.

Alexandros sollevò un sopracciglio e chiese timidamente:

- in verità mi hai terrorizzato ma che intendi dire con "specialmente nel tuo caso"?

Atthia lasciò la presa sulle spalle del ragazzo rifacendo toccare terra ai suoi piedi. Quest’ultimo fece un passo indietro e si batté i calzoni alzando una nuvola di polvere, dopodiché, messe le mani sulle anche, si mise nella posa di chi attende una risposta convincente che non tardò ad arrivare.

«Ho detto così perché io avverto senza dubbio alcuno che in te vi è un cosmo sopito che attende solo di venire alla luce» furono le parole che senza mezzi termini Atthia utilizzò per definire la situazione.

Alexandros, strabuzzando gli occhi, non poté fare a meno di rispondere nel modo più naturale possibile:

- Io? Io avrei un cosmo?

«Ed anche piuttosto potente, direi da ciò che avverto» ribatté prontamente Atthia il quale poi proseguì affermando:

- Per quel che mi riguarda posso considerare la tua offerta di farmi da scudiero accettata anche se da te pretenderò non tanto di farmi portare la spada o lo scudo, ma piuttosto che tu abbia fiducia nelle mie parole e che segua alla lettera le mie indicazioni.

Alexandros, grattandosi nervosamente il cranio nascosto sotto i suoi folti riccioli, rimase qualche secondo in silenzio con la fronte corrucciata, raggiunse l’uscita mentre si stava ancora massaggiando la cute e si congedò con un laconico «lasciamici pensare».

Lo spartano era nuovamente solo all’interno della stalla ma in cuor suo sapeva che non avrebbe lasciato quel ricovero senza portare con sé il giovane promesso cavaliere che il fato aveva messo sulla sua strada; in ogni caso se Alexandros doveva pensare, lui doveva riposare almeno un poco. Riaccasciandosi stremato sul pagliericcio, chiuse gli occhi e in pochi attimi si lasciò sopraffare da un sonno profondo.

Alcune ore dopo sogni di Dei e di guerrieri implacabili attraversavano la mente di Atthia mentre i primi raggi di sole di una nuova alba solleticavano le sue palpebre. Con gli occhi appena socchiusi, Atthia stava mettendo a fuoco la stalla in cui aveva riposato e i cui contorni e dettagli erano indubbiamente meglio definibili di quanto non lo fossero stati avvolti dal buio della sera antecedente. Non aveva ancora mosso un muscolo che prima un fruscio proveniente dalla sua sinistra e poi il freddo e pungente contatto di una lama sulla sua gola lo destarono del tutto.

Davanti a lui vi era il locandiere il quale stava osando brandire la sua spada puntandogliela alla gola con aria minacciosa.

«Non un fiato spartano e ascolta attentamente le mie parole! Non ho potuto fare a meno di ammirare la forgia delle tue armi, sinceramente non ho mai visto un acciaio così prezioso. Per questa ragione ti faccio i miei complimenti ma mi duole informarti che ho deciso di tenere tutto per me, mi frutteranno indubbiamente un bel ricavato una volta vendute al mercato di Atene. Tutto ciò però ci pone di fronte ad un dilemma: di sicuro non fai parte né di un esercito né di qualcos’altro, sei solo un povero ramingo che è capitato nel posto sbagliato quindi sappi che non temo da te alcuna eventuale ritorsione. Nella mia infinità magnanimità ti offro la possibilità di lasciare seduta stante la mia proprietà dimenticandoti di essere mai stato qui e lasciandoti alle spalle il ricordo della tua tagliente spada o dei tuoi raffinati complementi. In caso contrario sarà la tua stessa cara arma a privarti della vita».

Il locandiere attendeva tronfio la risposta della sua vittima.

Atthia, ancor prima che l’uomo incominciasse la sua filippica, aveva già previsto come atterrarlo, come strappargli la spada da quella sudicia mano e come colpirlo, se a morte o meno sarebbe stata solo l’ispirazione del momento. Gli sarebbe bastato scalciarlo da terra dietro la coscia per fargli perdere l’equilibrio e poi spingergli via il braccio facendogli perdere completamente la presa sull’arma; in un istante sarebbe balzato in piedi e lo avrebbe colpito sul petto con un pugno. L’aggiunta o meno di un piccolo quantitativo del suo cosmo avrebbe decretato o non l’insorgere di un immediato arresto cardiaco.

Atthia inspirò preparandosi a contrarre i muscoli della gamba che, in un battere di ciglia, avrebbe dato il via a quanto la sua mente aveva già perfettamente pianificato.

Un suono sordo e metallico seguito dall’accasciamento al suolo del locandiere smorzò sul nascere l’intervento del cavaliere. Dietro all’uomo, che ora giaceva svenuto ai piedi dello spartano, si era materializzata la figura di Alexandros il quale, reggendo tra le mani lo scudo di Atthia, aveva colpito con forza sulla testa il suo ex datore di lavoro.

Con il fiatone ed il volto paonazzo, Alexandros, tendendo la mano ad un divertito Atthia, si limitò a dire:

- Andiamo? I tuoi equipaggiamenti sono qui fuori. Considerami pure come tuo nuovo compagno di avventura.

Atthia sorrise, afferrò la mano nel nuovo amico e si lasciò aiutare a mettersi in piedi.

Dopo qualche minuto i due erano già lontani e circondati da una fitta boscaglia.

Camminarono senza sosta per tutta la giornata durante la quale Atthia si dimostrò, anche a sua stessa insaputa, un abile oratore così come Alexandros, mano a mano che il racconto dello spartano prendeva corpo, si rivelò essere sempre più incuriosito ed interessato.

Senza che quasi se ne accorgessero quel giorno dedicato al cammino, ai racconti e alla prima lezione da cavaliere del giovane Alexandros stava volgendo al termine mentre la notte stava nuovamente ed inesorabilmente andando loro incontro. Fortunatamente i due riuscirono ad uscire dalla parte più fitta di quella foresta mentre il sole stava tramontando riuscendo così a ritrovare la strada maestra che, comunque ancora circondata dalle folte chiome degli alberi ma ricoperta da un chiaro pietrisco, risultava nitidamente visibile anche nel buio.

I due ragazzi, seguendo il sentiero, stavano giungendo nei pressi di una radura quando improvvisamente Atthia bloccò di colpo il proprio passo; una sensazione di nausea lo aveva inaspettatamente assalito ed il suo livello di guardia era repentinamente salito al massimo livello. Avvertita nitidamente la presenza di un cosmo malvagio ed estremamente aggressivo intorno a loro.

Alexandros andando quasi a sbattere contro al compagno chiese stupito:

- Che succede?

«Alexandros, stai in guardia. Non siamo più soli!» rispose con tono preoccupato Atthia.

«Cosa intendi dire?» ribatté sotto voce un preoccupato Alexandros

«Intendo dire ciò che ho detto, tieniti pronto a reagire ma per il momento continua a camminare come se niente fosse» lo incoraggiò il compagno più esperto.

Atthia riavviò così il passo e, come gli era stato insegnato sin dalla più tenera età, iniziò ad osservare meccanicamente e minuziosamente l’ambiente circostante in cerca di un minimo segnale che gli conferisse la posizione di quel nemico il cui nero cosmo si faceva sempre più vicino. La radura era interamente circondata dagli alberi che, nel buio della notte, diventavano una fitta ed impenetrabile agli occhi barriera di foglie, la strada maestra era la sola via di ingresso e di uscita di quel luogo, il cielo fortunatamente era limpido e tempestato di stelle, la luna, quasi piena, brillava sulle loro teste e la sua luce si rifletteva sul biancore dei ciottoli del sentiero. Da destra e da sinistra non sarebbero potuti essere attaccati in quanto la distanza tra la loro posizione al centro della radura e la prima fila di alberi sarebbe stata sufficiente a rendere possibile la difesa, lo stesso discorso valeva tanto davanti quanto dietro dato che, come detto, solo la strada che stavano percorrendo pareva essere la sola via per entrare ed uscire dallo spiazzo, nulla arrivava dal cielo e allora dove si stava nascondendo il nemico?

Atthia impugnava già il manico della spada, la tensione stava salendo anche se si sforzava di mantenere il respiro regolare, occhi ben aperti e orecchio teso. Una goccia di sudore gli stava scendendo lungo la tempia.

All’improvviso avvertì una vibrazione sotto ai suoi piedi. L’attacco stava arrivando da sotto terra. «Come aveva fatto ad escludere questa opportunità» pensò tra sé e sé. Atthia non ebbe nemmeno il tempo di fare un passo all’indietro che quella vibrazione si trasformò in un’esplosione di sabbia e fango: dal terreno uscirono repentinamente una serie di freddi e lunghi tentacoli metallici che, come delle serpi, avvolsero il cavaliere immobilizzandogli polsi e caviglie. Un ultimo tentacolo gli si avvinghiò alla gola smorzandogli il fiato nei polmoni.

Alexandros cadde a terra a qualche metro da Atthia riparandosi gli occhi dalla montagna di terra che gli si era riversata contro.

Atthia, tanto sorpreso quanto inerme, non poté che restare ad osservare con orrore ciò che stava ora emergendo dal sottosuolo e da cui si diramavano quei bracci che lo tenevano bloccato e che gli si stringevano intorno sempre di più ad ogni tentativo di resistenza.

Una massa scura e lucente simile ad un grosso scarafaggio era uscito dalla terra smossa. In breve tempo però fu chiaro che quell’essere non era un mostruoso insetto ma un essere umano, gli occhi grandi ed il sorriso beffardo accompagnato da una risata agghiacciante erano ora, dato il pallore della carnagione, chiaramente visibili tra la massa scura dell’armatura dai riflessi marroni e violacei con cui era vestito.

«Atthia il grande guerriero spartano, Atthia il cavaliere di Athena, Atthia l’invincibile: è bastato tenderti un piccolo agguato per soggiogarti» disse quell’orrida figura alzandosi sulle gambe ed assumendo così una postura quantomeno più umana.

«Chi sei maledetto codardo» urlò Atthia digrignando i denti.

«Il mio nome è Raimi della stella della terra nascosta ovvero colui che ti priverà della vita! Non temere però cavaliere e cerca di godere di quel poco che di resta da trascorrere in questo mondo, prima di iniziare a divertirmi con te devo occuparmi del tuo giovane amico».

Atthia strinse i pugni e tirò a sé i tentacoli che uscivano dallo schienale dell’armatura di Raimi ma notò che essi gli strinsero ancor di più i polsi.

Il nemico iniziò a camminare in direzione di Alexandros lasciando Atthia immobilizzato alle sue spalle intento nel dimenarsi senza sosta.

Il ragazzo ancora seduto sul freddo suolo era completamente in preda al panico mentre quella scura figura gli si avvicinava.

Atthia, con il poco fiato che gli restava, urlò:

- Alexandros, concentrati, trova il cosmo dentro di te!

Il ragazzo, vedendo Raimi incombere su di lui con il braccio alzato e pronto a colpirlo a morte, riacquistò, anche se per pochi attimi, la totale calma e la piena padronanza di se stesso. Dal centro del suo petto avvertì una sensazione mai provata prima: una sorta calore che saliva imperiosamente dentro di lui si stava diffondendo a partire dal cuore attraverso tutto il resto del corpo. Alexandros riuscì in modo quasi naturale a concentrare tutto questo potere nel suo braccio destro e, chiudendo gli occhi per lo sforzo e con tutta la forza che riuscì a trovare dentro se stesso, fece il gesto di colpire con il pugno l’avversario. La sua mano non toccò il nemico ma da essa si sprigionò un lampo di luce potentissimo che, andando ad infrangersi contro il petto di Raimi, lo attraversò da parte a parte.

Uno schizzo di sangue bagnò il volto di Alexandros il quale, non appena riaprì gli occhi, vide il viso stupito di Atthia attraverso lo squarcio quasi circolare che aveva aperto sullo sterno di Raimi il quale, incredulo ed esalando l’ultimo respiro, osservava basito il suo corpo sanguinante.

Quest’ultimo, dopo un istante, cadde a terra privo di vita in una pozza del suo stesso plasma; contemporaneamente i tentacoli che avevano fermato Atthia sino a quel momento caddero a terra come rami recisi liberando il cavaliere dalla loro stretta morsa.

Lo spartano ora libero corse incontro all’incredulo Alexandros che stava osservando la sua mano chiedendosi come era stato possibile che dal suo pugno di carne ed ossa fosse potuta scaturire quell’esplosione di energia. Chinatosi per soccorrere l’amico gli rivolse uno sguardo soddisfatto e lo rincuorò appoggiandoli gentilmente una mano sulla spalla.

«Hai trovato il cosmo dentro di te e l’hai saputo domare e concentrare in un unico colpo. Congratulazioni ragazzo, hai appena intrapreso la difficile e lunga strada per divenire un cavaliere della Dea Athena» disse Atthia con entusiasmo.

Alexandros, che si sentiva straordinariamente spossato, non trovò le parole giuste per rispondere e preferì tacere mentre alle loro spalle il cadavere di Raimi, così come la sua scura e strana armatura, si dissolse in una nuvola di gas nero ancor prima che i due potessero osservarlo con maggiore attenzione.