CAPITOLO III
Con il sorgere del sole, la vallata, che sino a poco tempo prima appariva come un luogo silenziosamente addormentato, aveva repentinamente cambiato i propri colori ed i propri suoni. Il nero della notte aveva ceduto il passo al verde acceso dei fili d’erba e delle foglie degli alberi appena cresciuti al richiamo della primavera, il cielo, passando attraverso tinte di rosso e di fucsia, si era infine tinto di un azzurro intenso e, solo a distanza di alcune leghe marine, si potevano scorgere dei cirri dalla parvenza di ovatta, gli uccelli, prima rintanati nei loro nidi, cantavano tra i rami, le api iniziavano il loro lavoro quotidiano ronzando di fiore in fiore mentre le lucertole riscaldavano il proprio sangue stando immobili sulle rocce; l’aria, prima fresca e pungente, si era trasformata in un tiepido abbraccio, la luna si era definitivamente nascosta dietro al filo dell’orizzonte lasciando spazio al disco solare che, giallo ed abbagliante, splendeva ora sulle teste di Patros, Atthia e Theodote.
Quest’ultimo, camminando dietro ai compagni, osservava lo splendore e la perfezione della natura mentre, superata la fatica della discesa, il pendio della montagna si era fatto più dolce e pianeggiante. In quel punto vi era un piccolo bosco di alberi scuri ai piedi dei quali, data la fittezza del fogliame, sembrava essere sopravvissuto l’ultimo avamposto della notte appena terminata.
Atthia, senza comunque rallentare il ritmo del suo camminare, non mancò di gettare lo sguardo dentro il cuore di quell’oscurità fasulla; cercando la sua Dea, il suo spirito ed il suo occhio attento non avrebbero tralasciato di esaminare nemmeno il più piccolo anfratto dell’ambiente loro circostante.
Patros, al pari dei due amici, avvertiva nitidamente intorno a se il cosmo di Athena anche se, come se esso avesse bagnato uniformemente con la sua lucentezza tutta la vallata, lo avvertiva talmente diffuso da non riuscire a capirne la sorgente. Tra se e se si disse che solamente seguendo il proprio istinto sarebbe potuto arrivare a riabbracciare la sua Dea.
Sul limitare del bosco, dopo aver superato un piccolo avvallamento di terra non coltivata, si iniziavano ad incontrare i primi segni di civiltà; un lungo muretto a secco costruito con pietre di colore grigio chiaro e dai tagli difformi segnalava loro l’inizio di un uliveto. Questi alberi così antichi e nodosi erano cari a tutti i greci e fu quasi un piacere attraversare, passando di terrazzamento in terrazzamento, questa coltura lasciandosi inebriare da quel profumo denso, dolciastro ed allo stesso momento pungente che solo questa magnifica pianta sa regalare alle genti nate e cresciute lungo le coste dello splendido e ricco Mare Mediterraneo. Gli ulivi lasciavano poi il posto ad un frutteto dove i fichi, tra le loro foglie larghe e lattiginose, avevano già iniziato a dare alla luce i frutti che sarebbero stati maturi solamente alcuni mesi più avanti.
I tre si rivolgevano a ritmo più o meno regolare delle occhiate di incoraggiamento ma senza che nessuno di loro osasse proferire una sola parola.
Non riuscendo a tollerare a lungo questi imbarazzanti silenzi, Theodote trovò il coraggio di aprire bocca:
- Atthia, Patros, per piacere fermatevi un istante.
I due si voltarono verso l’amico con aria interlocutoria.
«Che cosa c’è», chiesero praticamente all’unisono.
«Credo che dovremmo fermarci».
«Theodote, stai scherzando? La Dea Athena è qui intorno, tutti avvertiamo chiaramente la presenza del suo cosmo, a noi non resta che trovarla, per quale ragione dovremmo mai fermarci ancora» ribatté in modo assai deciso Atthia allargando le braccia in segno di protesta.
«Non credo manchi molto alla meta» sottolineò Patros.
Theodote, incrociando gli arti inferiori ed appoggiando la schiena sul tronco del fico alle sue spalle, rispose ai due compagni con estrema pacatezza e con un flebile sorriso:
- Patros, sei stato proprio tu, se la memoria non mi fa difetto, a dire non più di un paio d’ore fa che non vi era né fretta né altro e tu stesso non mi hai corretto quando, riprendendo Atthia, gli ho ricordato che se la nostra Dea avesse voluto incontrarci sarebbe già stata qui con noi.
Lo spartano reclinò la testa e socchiuse per un istante gli occhi, sospirò, stava quasi per perdere la pazienza; la sua mente gli diceva esclusivamente:
- Atthia, cammina, corri se necessario, la Dea Athena è a portata di mano.
Patros fece silenzio per alcuni secondi mentre rifletteva sulle parole del più giovane compagno. Rielaborati i pensieri e fatta la propria scelta, iniziò ad esporre la propria tesi:
- Ascolta Theodote…
Ancora avvolto nel suo mantello grigio, non trovò fa forza di terminare la frase appena incominciata. Il sorriso che da un estremo all’altro del volto di Theodote si stava allargando formando sulle guance di lui due fossette simmetriche e la lucentezza sprigionata dallo spalancarsi dei suoi profondi occhi verdi, gli rintuzzarono in gola ogni parola ed ogni pensiero.
Quando Theodote mosse il primo muscolo staccandosi così dal tronco sul quale si era adagiato, fu naturale sia per Atthia che per Patros voltarsi seguendo quel qualcosa alle loro spalle che tanto aveva attirato l’attenzione di Theodote.
La bisaccia scivolò via dalla salda presa della mano di Atthia cadendo al suolo, Patros avvertì il cuore sobbalzargli dentro al petto ed un groppo stringergli la gola, Theodote, per la prima volta da quando avevano lasciato la sommità della rocca, aveva già superato i compagni e, affrettando il passo quasi al limite di una corsa, si stava già dirigendo celermente in direzione di un altro albero di fico distante da loro solo una decina di metri.
Seduta comodamente sotto a quella pianta ed intenta ad annusare l’inebriante profumo di un fiore appena colto, vi era una giovane bellissima. I capelli neri lunghi e lisci erano solo leggermente poco meno lucenti dei suoi occhi azzurri dal taglio vagamente orientale, le ciglia folte e lunghe li adornavano poi di un’eleganza rara, le sopracciglia fini e delicate parevano disegnate sulla sua fronte che, candida come il colore della sua pelle liscissima e priva di impurità, era appena nascosta da un ciuffo della chioma; il naso fine e sofisticato accompagnava lo sguardo di chi lo osservasse verso le labbra carnose e di un rosa sublime, i gentili lineamenti del viso erano poi un tutt’uno con il collo lungo e sottile che nasceva tra le clavicole e le spalle appena più pronunciate della norma e da cui le braccia si diramavano sino a giungere alle mani e alle dita tanto delicate quanto sottili ed eleganti. La linea del busto e delle anche erano un esempio di perfezione assoluta così come i seni non troppo grandi ma perfettamente rotondi dei quali si potevano intuire le forme al di sotto della veste di seta bianca che da essi dipartiva coprendo il ventre e le gambe sino al ginocchio; le sottilissime caviglie erano infine solo il preambolo allo splendore dei suoi piedi che, nudi, erano delicatamente adagiati sul prato sul quale l’ombra proiettata dalla chioma dell’albero garantiva un sicuro riparo dagli ora caldi raggi del sole.
Inspirando l’ultima essenza del profumo emanato dal polline ed iniziando a far roteare lo stelo tra i polpastrelli delle dita stuzzicandosi così le narici con i petali, la Dea Athena levò lo sguardo verso Theodote il quale, quasi inciampando sui suoi stessi passi per l’emozione, si stava precipitando verso di lei.
Sorrise e, posato con grazia il fiore a terra, protese la braccia in direzione del giovane.
Theodote si gettò così sul suo sollo ricevendo il soffice abbraccio della sua amata, il calore della sua pelle fu per lui pura felicità, l’azzurro profondo dei suoi occhi era invece semplice prova di divinità.
Dietro di lui sia Patros che Atthia lo raggiungevano e sono ora inginocchiati e con il capo chino in segno di riverenza.
«Mia Dea sei finalmente giunta» furono le uniche parole pronunciate dal più muscoloso dei due il quale, nonostante la propria mole, ogni qualvolta si trovava al cospetto della Dea si sentiva piccolo ed inerme come un fanciullo innanzi ad un gigante.
Patros, con il volto rivolto verso il basso e con la capigliatura ora nuovamente sciolta che gli copriva parte del viso, nascondeva addirittura una lacrima.
Athena ammorbidendo la stretta intorno alle spalle ed al collo di Theodote li chiamò a se:
- Patros, non nascondere i tuoi sentimenti, spero tanto che quella lacrima che vedo nascere dai tuoi occhi sia una lacrima di gioia, vieni ad abbracciarmi.
Patros, posando le mani sulle spalle della giovane e fissando i suoi occhi, si abbandonò al pianto. L’abbraccio di lei che dolcemente gli accarezzò la nuca fu la liberazione dell’attesa silenziosa ed interminabile che aveva dovuto patire durante gli ultimi giorni.
Infine fu il turno del serioso spartano.
«Atthia, mio primo e fedele cavaliere, non è il momento di sfoderare la spada o di scagliare lance contro i nemici, lascia per un momento il tuo essere così serio e rigido e saluta come si conviene la tua Dea».
Il grande uomo, sempre mantenendo la sua posizione prostrata, abbracciò Athena cingendola completamente con le sue possenti braccia. Appoggiato il mento barbuto sulla spalla di lei e al riparo degli sguardi dei compagni, sul viso del perfetto guerriero spartano di nome Atthia era disegnato il più grande sorriso che si potesse immaginare.