CAPITOLO XXII

Quell’anno l’inverno fu molto più lungo ed incredibilmente più rigido del consueto in tutto il bacino del Mediterraneo.

Se da un lato il Dio Poseidone non fu benevolo nel voler offrire al gruppo imbarcato sull’Athena delle condizioni climatiche accettabili che consentissero loro di salpare dal porto di Delo costringendoli così ad attendere nella piccola isola delle Cicladi, dall’altro, tanto le ferite riportate da Gordias durante lo scontro nella caverna e la conseguente convalescenza, quanto le abbondanti e costanti nevicate che non diedero tregua alla regione di Karpenisi, obbligarono i due gruppi di cavalieri ad attendere la fine della stagione fredda con le mani in mano.

Soltanto intorno alla prima decade del mese di febbraio Demetrios poté dare l’ordine di spiegare nuovamente le vele fissando la rotta della sua nave in direzione di Atene; sul lato opposto della Grecia invece Atthia e compagni si rimisero in cammino discendendo, grazie anche all’aiuto di Heliodoros che ormai poteva dirsi ufficialmente aggregato alla spedizione, i pendi che dalle alture di Karpenisi li avrebbero portati a ripercorrere parte delle strade e dei sentieri che già una volta Alexandros e lo spartano avevano battuto.

Una volta giunti sulla costa del Locride, Atthia decise che era giunta l’ora di fare una pausa e dar notizia al gruppo in merito ai suoi recenti pensieri.

Sedutosi su una grossa pietra, prese uno stecco di legno e abbozzò sul terreno sabbioso, sotto gli occhi curiosi di Hermos ed Ofiuco, un disegno della regione meridionale della Grecia; dopodiché richiamò gli altri tre membri della spedizione e si rivolse ad Alexandros con un fare tranquillo e ragionato che, notoriamente, non gli era proprio:

- Alexandros, amici cavalieri: ormai non conto più quanta strada abbiamo percorso e non so quanti pericoli abbiamo affrontato insieme mettendo più volte a rischio le nostre vite ma ritengo che tutto ciò abbia cementato la nostra amicizia, abbia consolidato la nostra fede nella missione che ci apprestiamo ad affrontare e mi sembra palese come l’avventura che abbiamo vissuto abbia incredibilmente accresciuto le nostre doti di cavalieri. Per tutto quanto ho detto sin ora io posso solo ringraziarvi e fare un plauso al vostro coraggio e alla vostra determinazione. Inoltre ritengo di poter tranquillamente affermare che la prima parte del vostro addestramento si possa dire conclusa e che siate in grado di proseguire il cammino verso il ritorno in Attica senza di me.

Alexandros, visibilmente contrariato, tentò di interrompere il monologo dello spartano ma quest’ultimo frenò il suo intento con un gesto della spada atto ad intimargli il silenzio; poi proseguì con la stessa pacatezza:

- Lasciarvi da soli deve essere visto da voi come un gesto di stima e di fiducia che il vostro comandante vi offre. Inoltre il tempo stringe ed io desidero esplorare quanto più mi sarà possibile del Peloponneso.

Atthia si rivolse poi a ciascuno dei suoi amici:

- Hermos ed Ofiuco: siete ancora piccoli e, per quanto volenterosi, il vostro passo non è rapido come quello di noi adulti. Crescerete, diverrete grandi e forti ma ora è giusto che possiate godere ancora un poco della vostra fanciullezza.

- Gordias: sei un temibile guerriero ma non ti sei ancora completamente rimesso in sesto dopo lo scontro di Karpenisi ed io non intendo rischiare ancora la tua pellaccia. Questo naturalmente sarà valido sino a quando le tue ferite non si saranno completamente rimarginate. Come tu stesso mi ricordi quasi ogni giorno ti devo una rivincita e non voglio certo lottare contro un avversario menomato.

- Heliodoros: sei solo l’ultimo cavaliere che si è unito al gruppo ma hai già dimostrato di essere tanto un coraggioso combattente quanto un abile esploratore. A te affido il compito di giungere il prima possibile a destinazione.

- Alexandros: tu sei il mio primo allievo e quindi a te affido il comando. Hai in pratica già percorso con me in senso contrario la strada che vi condurrà sino al frutteto dove la Dea Athena attende tutti noi. Memorizza il disegno che ti ho fatto con questo pezzo di legno sulla sabbia e segui la costa sino ad Atene; prosegui percorrendo la strada principale che volge a sud e cerca di individuare una vallata ai piedi di un irto nucleo di colline rocciose. Una volta là vai in cerca di un uomo di nome Patros: è il mio miglior amico, raccontategli tutto ciò che abbiamo vissuto. A scanso di equivoci posso infine dire a tutti voi che con ogni probabilità saranno le stelle che ci ardono dentro a condurvi nel giusto luogo così come l’immenso cosmo della Dea della giustizia che, per quel che ricordo, pervade quell’intera valle con la sua aurea di pace e amore.

Il gruppo tacque. Nessuno dei cavalieri era entusiasta all’idea di separarsi da colui che sinora era stato la loro guida ed il loro punto di riferimento in quasi ogni situazione ma, al contempo, nessuno poteva oggettivamente contestare quella che a lato pratico era l’ennesima saggia decisione presa dallo spartano.

Quest’ultimo fissò tutti i presenti uno a uno negli occhi, poi tese il braccio destro e richiamò a se i palmi delle mani degli amici.

«In Attica! Ci vedremo là molto presto! Questa è la mia promessa!» li incitò Atthia.

Heliodoros gli strinse il pugno per primo, gli fecero seguito Gordias, Hermos, Ofiuco e, solo in ultimo, un ancora contrariato Alexandros.

Seguirono ancora strette di mano, abbracci e raccomandazioni, poi Atthia imboccò quel sentiero che già una volta lo aveva condotto sino alla spiaggia dove un vecchio pescatore di nome Panagiotes lo aveva traghettato sino a Patrasso.

Le alte mura fortificate del Pireo richiamarono alla mente di Theodote memorie della sua fanciullezza quando la madre lo portava con i fratelli maggiori a passeggiare per le strade affollate dei mercati e dei rimessaggi retrostanti al più grande porto della Grecia. Essere innanzi alla sua città gli riempiva il cuore di una delicata leggerezza di spirito pari solo alla consapevolezza che il tempo che separava lui ed i suoi nuovi compagni dall’abbracciare ancora la sua Dea ed i suoi vecchi amici era sempre più esiguo.

L’Athena trovò ormeggio tra due immense navi da cargo che, data la mole, la facevano sembrare al loro confronto non più che una scialuppa di salvataggio legata tramite una cima alquanto lisa al lato ovest del bacino artificiale del porto dove le Lunghe mura, lambite dal corso del Cefiso e dell’Illisso, rivolgevano lo sguardo in direzione di Salamina.

Mentre l’equipaggio agli ordini di capitan Demetrios si diede da fare per svolgere tutte quelle operazioni successive all’approdo e che ormai erano divenute di routine anche per Chrysante e Costa, Theodote mise nuovamente piede su suolo ateniese dopo anni. La trattativa con il delegato della società dei portuali ed ormeggiatori ateniesi non durò a lungo dopo che il figlio del ricco e famoso Achillios gli esibì la fibbia d’argento recante lo stemma del proprio casato.

«Cos’hai concordato?» domandò alcuni minuti dopo Demetrios costantemente preoccupato per le sorti della propria nave.

«Amico, qui siamo a casa mia! Non devi temere per la salute dell’Athena. Anche se ormai credo di essere inviso al buon nome della mia famiglia, il mio rango mi offre ancora qualche vantaggio: nessun dazio da saldare ed un occhio di riguardo costante sul tuo scafo di qui a l’eternità» tagliò corto Theodote mettendo le mani sulle spalle dell’amico nell’intento di volerlo rassicurare.

«Ciò nonostante credo che sia opportuno che io trovi, con tutte le conseguenze del caso, il tempo di marcare visita alla casa dei miei genitori. Voi tre potete visitare la città, godere delle sue bellezze e ristorarvi in qualche taverna. Aspettatemi alla porta sud del Falero al tramonto. Ci vediamo lì, poi ripartiremo con i favori della sera cosicché anche Chrysante possa muoversi più rapidamente» constatò il ritrovato cittadino ateniese proseguendo e chiudendo il discorso riguardante il programma da seguire durante la giornata.

Sparta!

La città fortezza era banale ed al contempo maestosa così come Atthia precisamente la ricordava.

Arrivando dalle alture che da nord, est e ovest le facevano da riparo naturale, si poteva osservarla in tutta la sua ortogonalità dettata dall’andamento delle strade principali, si potevano apprezzare le sue abitazioni basse, piatte e squadrate che nella loro semplicità volumetrica davano ancor più risalto all’acropoli, ai templi, all’accademia militare, ai colonnati ed alle arene dove, praticamente in ogni quartiere, i giovani spartani si esercitavano sin dalla prima infanzia all’arte del combattimento e della guerra.

Atthia, dopo essersi separato dai compagni, era transitato senza fermarsi per Patrasso ed aveva peregrinato senza sosta per le regioni dell’Acaia, dell’Elide e dell’Arcadia sino a giungere in Laconia spinto dalla ferma convinzione che le stelle non potevano non aver scelto per il suo stesso destino qualche altro nobile e valoroso guerriero spartano.

Il cavaliere si trattenne a contemplare la sua città natale tra le colline ricche di ulivi ed i campi coltivati per circa una settimana prima di decidersi a entrare nella polis.

I soldati di guardia alla porta principale non accennarono nessuna resistenza né chiesero ad Atthia di qualificarsi dato che la spada, lo scudo e l’elmo di visibile effige spartana così come lo sguardo fiero dell’uomo non lasciavano dubbi in merito all’assoluta autenticità delle sue origini.

Atthia passeggiò attraverso le vie e le piazze a lui familiari sino a giungere nella strada in cui era nato; là vi era ancora la casa di proprietà della sua famiglia alla quale si accedeva attraverso una semplice porta in legno rinforzata con staffe in ferro borchiato.

Il cavaliere indugiò più di una volta in quanto sapeva che dietro a quell’uscio abitava la sola persona che ancora riusciva a domarlo e a metterlo in soggezione.

In uno degli andirivieni che la sua indecisione lo portò a compiere, Atthia fu fermato da una vecchia e gradita conoscenza.

Ulysses era l’armaiolo del suo quartiere, un artigiano esperto e capace che, praticamente da quando Atthia aveva memoria, non era mai uscito dalla propria bottega dove senza sosta costruiva le migliori armi di cui un esercito potesse disporre; la sua specialità era la forgiatura di splendide spade di un acciaio tanto duro quanto leggero. Anche la stessa lama dalla quale il cavaliere non si separava mai era stata infatti un suo dono per il diploma all’accademia militare del giovane Atthia. Ricordava ancora con precisione le parole con le quali Ulysses accompagnò quel dono:

«Prendi questa spada e fanne buon uso, che sia per te una fedele compagna ed un’inseparabile amica. Non separatene mai a meno che ciò non serva a salvarti la vita o a raggiungere un nobile scopo».

Ulysses era un uomo di quasi sessant’anni alto e muscoloso, completamente calvo, dallo sguardo sincero e sempre di buon umore; per lui al mondo avevano importanza solo tre cose: le spade, Sparta e le donne. Ai suoi tempi infatti era noto in città per essere un vero amatore e, forse, era proprio per questa ragione che non aveva mai né preso moglie né avuto figli: una sola femmina era evidentemente troppo poco per lui mentre invece, in quanto ad avere una discendenza, considerava ogni arma uscita dal suo laboratorio come un figlio che in mano ad altri avrebbe visto il mondo ed onorato il suo nome. Nonostante tutto ciò, dopo la caduta in battaglia del padre di Atthia, del quale era stato sia amico che compagno d’arme in gioventù, ed ancor più dopo la morte prematura della madre a causa di una grave malattia, Ulysses aveva preso a cuore le sorti dei figli rimasti orfani dell’amico: Atthia e la sorella maggiore Aulampia.

I due uomini parlarono a lungo anche se, nonostante fosse il più giovane ad avere senza dubbio più aneddoti da raccontare rispetto al più anziano dei due, fu Ulysses a tenere banco come sua abitudine e tradizione rivangando le solite vecchie ed arcinote storie sulle battaglie che aveva combattuto e sulle donne che aveva posseduto quando ancora erano i tempi in cui la forza del corpo e dello spirito gli conferivano un’energia tale da farlo sentire il Re del mondo. La lunga chiacchierata fu duplicemente e reciprocamente più che piacevole anche se infine i due si dovettero salutare senza scambiarsi per l’ennesima volta quelle parole che per buona parte del corso della loro esistenza si sarebbero voluti dire.

Con una certa malinconia nel cuore Atthia lasciò la bottega di Ulysses; solo quando udì il battere del suo martello sull’incudine si lasciò scappare un affettuoso sorriso immaginando il vecchio armaiolo intento a forgiare l’ennesima opera d’arte.

Il cavaliere si fece coraggio e rimise i piedi in direzione della porta di casa sua ma un altro incontro rimandò ancora l’appuntamento ormai anche troppo rinviato.

«Atthia il guerriero, Atthia il valoroso, Atthia l’implacabile! Atthia il disperso!» lo apostrofò con sarcasmo un uomo barbuto e dai folti capelli neri, dagli occhi di un azzurro grigio e con un braccio solo.

Costui era Erastos ovvero il compagno ed amico inseparabile sin dalla prima infanzia di Atthia. Purtroppo per lui, durante una delle prime volte in cui i due furono aggregati all’esercito di Sparta, fu gravemente ferito al braccio destro che, per evitargli un’infezione mortale gli fu successivamente amputato. Nella fattispecie Erastos si era gettato in difesa proprio di Atthia che, ancora inesperto, aveva lasciato il fianco scoperto ad un tanto facile quanto mortale attacco. Dopo questo fatto non fu, come era ovvio, più possibile per il giovane continuare la carriera militare; inizialmente questo fu davvero un duro colpo per Erastos che, come praticamente ogni spartano, era nato, cresciuto ed era stato addestrato per divenire un formidabile soldato che ambiva esclusivamente alla gloria bellica e che non temeva certo la morte sul campo di battaglia. In quei disperati momenti gli sembrò che la sua vita gli scivolasse tra le dita delle mani ed anche Atthia, che non abbandonò per quattro giorni e tre notti il capezzale dell’amico menomato, soffrì profondamente per quanto il fato aveva tragicamente deciso per Erastos. Atthia non aveva tanto paura che anche a lui potesse toccare la stessa sorte ma piuttosto soffriva nel vedere una persona con la quale aveva condiviso da sempre ogni cosa ridotta ad un soldato incapace di combattere al suo fianco in battaglia, un ragazzo con cui guardarsi le spalle a vicenda e soprattutto un amico i cui sogni erano andati in frantumi nel breve attimo di un fendente ben assestato. Il giorno in cui Atthia fu costretto dagli ordini dei superiori ad abbandonare l’infermeria, il futuro cavaliere di Athena giurò a se stesso che sarebbe divenuto il miglior guerriero che la memoria del nobile esercito di Sparta potesse ricordare. Erastos non se la passò bene per un po’ ed Atthia fu richiamato alle armi ma quest’ultimo, non troppo tempo prima del suo primo incontro con la Dea della giustizia, seppe che il suo vecchio compagno aveva intrapreso una promettente carriera politica.

«Erastos, sono secoli che non ci incontriamo e non per colpa tua. Hai ragione a definirmi disperso» gli rispose prontamente il cavaliere che avrebbe voluto dirgli molto di più ma che provava un certo imbarazzo nell’essersi ritrovato davanti l’uomo che ogni probabilità aveva sacrificato il proprio braccio destro ed i propri sogni per salvargli la vita.

Superati primi momenti d’indecisione i due si abbracciarono senza dirsi molte parole e, nel giro di poco, si ritrovarono a bere insieme.

Erastos raccontò della propria sfavillante ascesa politica che lo aveva portato ad entrare addirittura nel Consiglio Reale mentre Atthia, dopo aver girato a lungo intorno all’argomento, superò ogni indugio e gli svelò, incurante o meno che l’amico potesse non credere alle sue parole o prenderlo per pazzo, cosa era stato della sua vita dopo l’incontro con Athena.

Il pomeriggio scivolò via veloce così come il tempo scorre quando lo si vive allegramente ed alla fine i due uomini si salutarono con rispetto e sincera amicizia. Erastos non chiese in merito alla storia udita a proposito dei cavalieri di Athena nulla di più di quanto Atthia non gli avesse rivelato. Per quest’ultimo questo fu l’ennesimo gesto di stima e prova di amicizia che il caro Erastos dimostrò nei suoi confronti.

Adesso però non poteva più indugiare: doveva andare a bussare a quella porta.

La sera stava calando su Sparta quando Atthia, timidamente e con nemmeno troppa convinzione, fece risuonare con le nocche della mano lo spesso legno della soglia davanti alla quale era più volte passato e ripassato per tutto il corso della giornata.

Udì dall’interno della casa il rumore di passi in avvicinamento. Il cavaliere inspirò profondamente ed diresse lo sguardo verso il basso dove osservò i propri calzari che, così come i piedi, erano sporchi ed impolverati.

Ad aprire la porta fu una donna di circa dieci anni più anziana di lui che portava i capelli, neri e ricci, legati in una treccia ed aveva gli stessi occhi scuri, profondi e fieri di Atthia.

«Salute Aulampia» disse quest’ultimo dopo aver dato un colpo di tosse per schiarirsi la voce.

La donna non rispose e lo fissò con uno sguardo duro che il cavaliere, pur perseverando a fissare i propri piedi, riusciva perfettamente ad immaginare e a sentire posato su di sé come un macigno.

Aulampia sospirò, poi gli rifilò un energico ceffone in pieno volto.

Atthia, tastandosi la mandibola, sollevò finalmente gli occhi da terra e con un tono evidentemente troppo sarcastico proseguì:

- Sorella, che bello vederti!

La conseguenza del suo ardire fu un secondo schiaffo altrettanto ben assestato con cura ma sull’altro lato del viso. Dopodiché la donna si gettò in lacrime al collo del fratello ricoprendolo di abbracci e baci.

Atthia, su invito della sorella maggiore, entrò dopo anni in quella che era stata anche la sua casa ovvero una semplice abitazione in pietra che, nonostante il tempo trascorso, non era cambiata di molto.

«Fermo lì! Non andare oltre con quei sandali sudici! Levateli e dammeli, te li rimetto a nuovo e poi vatti a lavare e strofina bene! Puzzi come un maiale! Per quel che riguarda quei quattro stracci che hai indosso lasciali nel cesto di vimini sul portico posteriore, le armi in camera da letto! Nel frattempo ti preparo la cena» ordinò Aulampia.

Atthia ubbidì senza discutere.

Circa un’ora dopo fratello e sorella stavano consumando un pasto composto da una zuppa di fagioli neri tipica della cucina spartana, pane fatto in casa, un pollo arrostito e del formaggio accompagnato da miele comodamente seduti sotto al pergolato che, aggrappato alla facciata posteriore della casa, si affacciava su un piccolo ma ben curato giardino; Atthia divorò tutto come se non ci fosse un domani, Aulampia si limitò ad assaggiare un po’ di tutto. Ne seguì un interrogatorio durante il quale Atthia fu costretto a dare giustificazione sul dove avesse passato gli ultimi quattro anni senza dare sue notizie; lo spartano narrò le imprese compiute con novizia di dettaglio così come sapeva piacere alla sua adorata sorella anche se, contrariamente a quanto si era sentito di confessare ad Erastos, omise di inserire nel suo racconto questioni riguardanti Dei, cavalieri, nemici che parevano arrivare da un altro mondo e quant’altro. Concluse affermando che comunque non si sarebbe potuto trattenere a lungo a Sparta dato che gli era stato assegnato un incarico d’importanza vitale per le sorti dell’intera umanità.

Aulampia si fece bastare quanto il fratello gli aveva detto; quell’inaspettata visita era stata per lei un dono degli Dei dato che ormai si era rassegnata da tempo al fatto che ciò che restava della sua famiglia fosse morto chissà dove su chissà quale campo di battaglia. La donna si crogiolò della presenza del fratello il più a lungo possibile mentre quest’ultimo, disteso finalmente su un vero letto, si addormentò con il capo appoggiato sulle ginocchia della sorella intenta ad accarezzargli i capelli.

Ad Atene Theodote dovette far buon viso a cattivo gioco nei confronti delle solite critiche che il padre Achillios gli rivolse come consuetudine ritrovandosi di punto in bianco il figlio degenere in casa che, nello specifico, sarebbe stata meglio definire palazzo.

«Guarda chi si rivede, il mio figlio vagabondo! Se tua madre ed io fossimo stati informati prima della tua visita, avremmo potuto organizzare un’accoglienza più adeguata e magari avremmo potuto anche fare in modo che i tuoi fratelli fossero qui con noi per festeggiare la tua venuta come si conviene. Purtroppo tuo fratello maggiore Plauto è sempre molto impegnato dato che ormai è un medico affermato ad Atene nonché stimato membro del Consiglio cittadino, è sposato e ci ha già regalato un bel nipotino che tu ancora non hai conosciuto; non diciamolo troppo in giro ma pare che nel giro di non troppo tempo potrebbe addirittura entrare a far parte del Senato. Invece Philippos, che ha solo due anni più di te, è un brillante studente ed un eccellente sportivo. Quale altro primato ha fissato la settimana scorsa?» chiese sarcasticamente Achillios alla moglie la quale aveva ascoltato la metà delle parole del marito essendosi beata nella contemplazione di quel suo figlio ritrovato.

«Lancio del disco, o forse era una gara di corsa, non ne sono sicura» rispose la donna disinvoltamente e facendo alterare ancora di più il marito.

Theodote se ne stava in silenzio comodamente seduto su una lettiga della grande sala situata al pian terreno del palazzo sapendo che, dopo la sfuriata iniziale, le acque si sarebbero calmate e magari sarebbe riuscito ad ottenere dell’acqua fresca e l’attenzione dei genitori per spiegare loro una volta per tutte quella che, anche non del tutto per sua volontà, era la direzione che la sua vita aveva preso.

Achillios proseguì nel suo sfogo ancora per qualche minuto; nel frattempo la madre si assentò per prendere qualcosa da bere e dei vestiti puliti per Theodote.

Quest’ultimo, dopo che finalmente il padre, esausto, si distese a sua volta su dei cuscini, si dissetò e prese la parola:

- Caro papà, cara mamma: mi rendo perfettamente conto che lo stile di vita che ho adottato non sia ai vostri occhi ciò che desideravate per me e mi rende immensamente felice sapere che i miei fratelli, al contrario, vi rendano orgogliosi ma, mio malgrado, ho scoperto che né io né voi potevamo opporci a ciò che le stelle ed il fato avevano scelto per la me. Diversamente da ciò che si ritiene gli Dei non sono così interessati ai destini di noi esseri mortali ed anzi alcuni di essi non ci amano affatto.

«Gli Dei non ci amano? Theodote, stai bestemmiando! E poi cos’è questa storia delle stelle e del destino? Figlio mio sei forse ubriaco e stai vaneggiando?» lo interruppe bruscamente Achillios rialzandosi il piedi e battendo il pugno su una colonna.

«Padre, calmati. Anche se le mie parole ti potranno suonare come assurde o come i deliri di un folle, ti prego di portare pazienza e di lasciarmi finire» rispose risolutamente Theodote.

Sotto un’occhiata inquisitoria della moglie, il vecchio Achillios riprese posto sui cuscini sbuffando; il cavaliere proseguì:

- Come stavo dicendo pocanzi su tutti noi incombe un grande pericolo derivante dagli umori, dalle invidie o dalle brame degli Dei ma, tra tutti gli olimpici, vi è solamente una creatura celeste che per il momento ha scelto, sfidando addirittura le divinità sue pari, di schierarsi dalla parte degli uomini e di farsi personalmente carico delle nostre sorti. Il nome di costei è Athena, la Dea della giustizia. Alcuni anni fa lei è scesa in terra facendosi passare per una comune ragazza e ha cercato per tutta la Grecia alcuni uomini con dei poteri sovrannaturali che, donati dalle stelle, consentono loro di compiere imprese inimmaginabili. Io sono uno di questi predestinati! E’ circa da un anno che sono impegnato nel viaggiare per buona parte della nostra patria in cerca di altre persone come me dato che la Dea, dopo aver raccolto la sfida di Zeus in persona, sta tentando di costituire un suo piccolo esercito personale con il fine ultimo di farsi ufficialmente carico della protezione e della salvaguardia del genere umano. Nel mio futuro ora c’è questa missione da compiere che, con ogni probabilità, non mi porterà né fama né gloria dato che l’intero genere umano non verrà quasi sicuramente mai a conoscenza di questo manipolo di eroi che rischierà la propria vita lottando contro i guerrieri al servizio degli esseri che dimorano in Olimpo pur di salvaguardare il presente ed il futuro dell’umanità.

«Per Era e per Demetra, ora ho le prove: nostro figlio ha del tutto perso il senno» esclamò Achillios rivolgendosi sconsolato alla moglie.

Mentre quest’ultima tentava vanamente di dare al proprio sposo alcune farneticanti giustificazioni, Theodote abbassò le palpebre e parve cadere in una sorta di silenziosa meditazione.

Da tutt’intorno al suo corpo iniziò a spigionarsi una dapprima pallida, poi abbagliante luce che causò l’immediata interruzione del vociare dei genitori. Theodote fece scorrere questo potere dentro al suo corpo e, come ormai era maestro nel fare, lo convogliò all’interno del palmo della mano; da essa ebbe origine una sfera di energia che dava l’impressione di poter esplodere da un momento all’altro e contenete una moltitudine di draghi volteggianti ed avvinghiati gli uni sugli altri.

Achillios ebbe l’istinto di allontanarsi finendo per rotolare giù dagli ampi cuscini sui quali si era adagiato, la madre di Theodote invece non si sentì capace di muovere un solo muscolo.

Quando Theodote riaprì gli occhi e strinse il pugno, quell’incredibile conformazione luminosa parve riassorbirsi ancor più rapidamente di quanto si fosse creata finendo per spegnersi tra le sue dita; il cavaliere sorrise esibendo sotto l’ormai barba incolta quelle fossette sulle guance che da sempre lo avevano contraddistinto.

«Mi credete ora?» domandò con tono sereno.

Dopo un tempo che gli sembrò della durata di qualche secolo, Atthia stava riposando serenamente nel suo letto quando si sentì toccare la spalla: era Aulampia che lo stava svegliando.

Il cavaliere aprì le palpebre a metà e, guardando fuori dalla finestra, vide che Sparta, ancora non baciata dalla luce del sole, era ancora addormentata.

«Che succede?» domandò schiarendosi la voce e constatando di avere la gola secca.

«Ieri sera hai parlato per ore dell’importanza vitale della missione che stai affrontando e quindi ho pensato di tirarti giù dal letto prima dell’alba in modo da consentirti di poter riprendere da dove avevi lasciato con solerzia» gli rispose con voce suadente la sorella porgendogli una scodella di latte di capra appena munto.

Atthia si sarebbe prestato volentieri ancora qualche giorno alle amorevoli cure di Aulampia e sapeva perfettamente che anche quest’ultima avrebbe dato qualsiasi cosa per non doversi nuovamente separare da lui ma era cosciente anche del fatto che lei, da risoluta donna spartana qual’era, stava mettendo da parte inutili sentimentalismi personali per dare seguito alla missione sulla quale egli stesso aveva posto l’accento.

Il cavaliere bevve il latte ed in breve tempo si vestì e si riarmò con la consueta attenzione maniacale che sempre riponeva in questo genere di procedure.

Nella via davanti a casa trovò Ulysses ad attenderlo; l’armaiolo, che teneva strette nel pugno le redini di uno splendido cavallo dal manto bianco ed il crine argentato, lo guardò con sguardo fiero:

- Tua sorella non ha chiuso occhio questa notte e non lo ha fatto chiudere neanche a me! Mi ha detto che hai un importante incarico da portare a termine e quindi io nel mio piccolo ti faccio dono di questo splendido animale sperando che ti possa essere utile per raggiungere il tuo scopo più velocemente.

Atthia avvertì un groppo alla gola per la commozione e non seppe cosa dire ad entrambi se non un sentito "grazie". Raggiunse l’uscio dell’edificio e baciò Aulampia sulla fronte, poi, dopo aver saldamente legato lo scudo alla sella, montò a cavallo con un balzo e strinse con vigore la mano di Ulysses. Finalmente i due uomini si dissero ciò che da praticamente una vita avrebbero voluto dirsi ovvero una frase o un saluto tanto semplice quanto sincero:

- Arrivederci padre! A Presto figlio!

Poche decine di minuti dopo Atthia aveva varcato per la seconda volta nel giro di neanche ventiquattro ore la porta di Sparta e, attraverso i campi che la circondavano, osservò il sorgere del sole dietro le colline a est con ancora nella mente e nel petto la sensazione del calore con il quale l’amore di Aulampia e Ulysses gli avevano scaldato il cuore.

Galoppando in contro al disco solare, il cavaliere non si fermò praticamente mai per tre giorni e tre notti se non per far riposare il cavallo; mancava poco meno di un mese all’appuntamento finale in Attica e, contro ogni sua previsione, il viaggio in solitaria sino alla sua città natale non aveva prodotto i risultati sperati.

Quasi giunti all’imbrunire del quarto giorno lo spartano si era già lasciato alle spalle la Laconia e l’Argolide ed era ormai praticamente giunto nei pressi di Corinto.

Quando all’orizzonte si potevano già scorgere le inconfondibili sagome dei colonnati del tempio di Apollo che dall’acropoli dominava la città, Atthia notò che poco più avanti e sulla sua stessa strada vi era un calesse seguito da un nutrito gruppo di persone.

Avvicinandosi ad esso al trotto scoprì con suo disgusto che si trattava di un cigolante carro in legno consumato trainato da due ronzini vecchi e magri e condotto da un uomo grassoccio e dalla pelle di colore rosa chiaro, dai capelli grigi e unti e vestito con un chitone verde alquanto sporco e rammendato. Sul lato posteriore del calesse si dipartiva una lunga catena che di polso in polso teneva unita la triste processione che ciondolante seguiva l’incedere dei due ronzini.

Era chiaramente questi un mercante di schiavi con il suo carico.

A titolo personale Atthia non riusciva, anche se purtroppo era prassi in quasi tutta la Grecia, a concepire la schiavitù forse perché, da spartano, era stato educato al motto "Sparta non fa prigionieri" e quindi nemmeno schiavi.

Il cavaliere affiancò la carovana umana contando dodici ragazze tra i sedici ed i venticinque anni, di varie etnie differenti, tutte scalze, seminude, sporche di polvere e fango, non certo in buone condizioni di salute e con lo sguardo mestamente rivolto a terra.

Passandole in rassegna con la vista solo una di esse, a differenza di tutte le altre, teneva il capo sollevato fissandolo con occhi di un verde talmente limpido, intenso e brillante da risaltare in mezzo al quel quadro deprimente come due smeraldi spiccherebbero se mischiati al contenuto di una scatola di chiodi arrugginiti.

Atthia non poté fare a meno di esserne magneticamente attirato anche se non fu solo la bellezza e la fierezza con cui quegli occhi si erano posati su di lui ad imporgli di tirare le redini del suo cavallo. Lo spartano avvertì nitidamente il ripetersi di quella stessa sensazione che aveva provato incontrando, oramai molti mesi orsono, Alexandros: un sibilo simile ad una fugace ma intensa scarica elettrica gli attraversò la testa dandogli conferma del fatto che dietro a quegli occhi di smeraldo e all’interno di quella schiava si celava un cosmo affine al proprio.

Aveva cocciutamente cercato a Sparta e per buona parte del Peloponneso qualcuno da arruolare alla propria causa convinto che nella sua città natale, o al limite non troppo distante da essa, dovesse per forza essere nato un altro predestinato a divenire Santo ed invece, per l’ennesima volta, il fato gli aveva dimostrato che solo il caso, la fortuna o forse il destino stesso potevano decidere per le sue sorti.

Atthia trottò sino ad affiancare il conducente del calesse facendo sì che il proprio cavallo bloccasse la strada a quelli del mercante:

- Sei un mercante di schiavi?

L’uomo tirò le redini arrestando così il passo dei due ronzini, del carro e del suo seguito umano.

«Sei perspicace ragazzo!» affermò sarcasticamente l’uomo, proseguendo poi col presentarsi:

- Il mio nome è Vitos e, ebbene sì, commercio in schiavi come hai potuto notare da te. Al momento sono diretto al mercato di Corinto e sono abbastanza di fretta. Domattina dovrò cercare di vendere queste dodici cagne che mi porto dietro nella speranza che qualcuna non mi muoia durante la notte; quindi, a meno che tu non sia interessato a qualche articolo, ti pregherei di levarti dai piedi e di lasciarmi continuare.

Atthia ebbe l’immediato istinto di scendere da cavallo e di prendere a calci quel lurido e vile personaggio ma si trattenne.

«In effetti c’è una delle ragazze che sarebbe di mio interesse» si limitò a dire attirando l’attenzione del mercante che finalmente si dimostrò interessato e non infastidito da quell’incontro fortuito:

- Ah bene, allora così è tutta un’altra faccenda. Quale sarebbe?

Atthia smontò da cavallo e gliela indicò.

Vitos sgranò gli occhi, scese a sua volta dal carretto per sincerarsi di aver ben compreso le mire del suo interlocutore e poi scoppiò in una risata:

- Quella? Proprio quella? Tra tante che ce ne sono, ti piace proprio quella?

Lo spartano rimase immobile come se fosse fatto di pietra mentre il mercante, continuando a schernire la ragazza e l’eventuale acquirente, si prodigò nel mostrargli il resto della mercanzia:

- Guarda questa che braccia robuste che ha, se hai intenzione di farle fare dei lavori pesanti sarebbe l’ideale, guarda quest’altra com’è giovane e fresca, non posso garantirtelo ma c’è anche una buona possibilità che sia ancora vergine, e che dire di quest’altra, osserva che seni grossi come melograni che ha; questa qui che vuoi tu non si sa nemmeno da dove venga, forse viene da oriente, forse dall’Africa, non saprei dire, non parla nemmeno se la prendi a bastonate; me l’ha venduta un mercate di Creta dicendomi che avrei fatto un affare d’oro ed invece, da quando è con me, mi ha dato solo problemi: non ubbidisce agli ordini, si ribella di continuo, ha tentato più volte la fuga e secondo me è finita in schiavitù perché non è altro che una ladra o una prostituta. Infine se la guardi bene, con quei capelli ispidi e corti, non è nemmeno tanto bella. Dai retta a uno che se ne intende, scegline un’altra!

Atthia lo fissò duramente con disprezzo:

- Ho detto quella!!!

Vitos sbuffò allargando le braccia in segno di rassegnazione:

- Va bene! Non voglio insistere più di tanto, sono sempre più in ritardo e, in ogni caso, mi liberi da un peso; ricordati però che io ti avevo avvertito: se scappa o ti crea dei guai, io indietro non la riprendo. Considerando tutto ciò, i faccio un prezzo davvero speciale: cento dracme sull’unghia e te la porti via.

Atthia non tentò di contrattare il prezzo anche perché non aveva con sé nemmeno una delle cento monete che il mercante gli aveva appena chiesto. Sguainò la spada dal fodero e la puntò in direzione del collo di Vitos.

Quest’ultimo impallidì facendo così sì che quell’odioso colorito roseo svanisse dal suo viso. Atthia, al contrario, sorrise:

- Non ho denaro con me ma posso offrirti la mia lama. Come forse avrai notato si tratta di un perfetto acciaio spartano, per me ha un valore affettivo particolare ma immagino che per te questo non abbia molta importanza; in ogni caso ho ragione di credere che valga ben più del prezzo che mi hai appena chiesto per la ragazza.

Vitos si leccò le labbra osservando attentamente la fattura di quella spada che, contrariamente a quanto aveva temuto pochi istanti prima, non era ora più una minaccia ma un affare da non lasciarsi sfuggire di mano.

«Beh, in effetti non mi sembra male, certo non può valere tanto quanto dici tu ma per quella bestia, in via del tutto esclusiva, potrebbe anche andar bene» disse il mercante porgendo le mani in avanti con l’intento di arraffare l’oggetto prima che chi glielo aveva appena offerto potesse cambiare idea.

Atthia si ritrasse e, con un rapido movimento del braccio, fece in modo che la punta della contesa spada finisse proprio sulla gola di Vitos.

«C’è un’ultima clausola che pretendo di aggiungere prima di concludere definitivamente la transazione» disse lo spartano con tono che non ammetteva repliche.

«Sentiamo» rispose deglutendo Vitos.

«Come ti ho appena detto sono molto legato a quest’arma e quindi, prima di separarmi da lei per sempre, vorrei avere l’opportunità di usarla un’ultima volta! E’ inutile dire che hai la mia parola d’onore che non la utilizzerò per farti fuori».

Vitos, dopo aver riflettuto qualche secondo sulla strana proposta, annuì arricciando le labbra e, indicando alcuni ulivi secchi situati sul ciglio della strada, invitò lo spartano "ad accomodarsi".

Quest’ultimo roteò la spada in aria e poi con un fendente ben assestato colpì in pieno l’anello in ferro del carretto da cui si dipartiva la catena che teneva legato il gruppo di schiave. L’acciaio plasmato da Ulysses tagliò il ferro come se fosse burro, la catena scivolò a terra producendo un acuto suono metallico.

«Siete libere» disse Atthia a gran voce mentre, con un secondo volteggio, andò a conficcare la punta dell’arma nel terreno.

Il gruppo di donne, dopo un primo istante di esitazione, non si lasciò ripetere l’invito una seconda volta e si affrettò a far scorrere ciò che restava della catena attraverso i bracciali che tutte avevano ai polsi. Vitos, basito, tentò un vano tentativo di recupero ma la mole e lo sguardo fermo e minaccioso di Atthia lo fecero desistere. In pochi minuti delle proprietà del mercante di schiavi non restava nulla se non un vecchio calesse, due ronzini vecchi e magri e la consolazione di non aver almeno perso anche la vita.

La ragazza appena acquistata dal cavaliere non era fuggita insieme alle altre; era restata là dov’era sempre stata e perseverava a fissare quell’uomo arrivato da nulla con quei suoi due meravigliosi occhi.

«Andiamo» le ordinò quest’ultimo.

La schiava si avvicinò allo spartano che finalmente poté osservarla da vicino.

Era una ragazza mulatta dalla pelle color nocciola, minuta ma dalle proporzioni perfette, le braccia e le gambe erano ben definite nelle forme, la vita sottile metteva in mostra la rotondità del ventre, al cui centro vi era simmetricamente posto l’ombelico, e del seno non troppo grande ma alto e sodo; la forma delle anche, così come quella delle clavicole, erano ben visibili a causa della magrezza, le dita delle mani e dei piedi erano lunghe e sottili così come il delicatissimo collo. I lineamenti del viso erano un magnifico esempio di come il mischiarsi delle razze potesse produrre un’opera notevole: la durezza e la spigolosità delle linee della mandibola e degli zigomi si fondevano il maniera quasi poetica con la dolcezza di quelle del naso, piccolo e leggermente all’insù, e delle labbra carnose e lievemente sporgenti. I capelli erano praticamente rasati a zero ma ciò riusciva comunque a mettere in risalto la tondeggiante struttura del cranio e delle piccole orecchie; a proposito degli occhi, Atthia, aveva già notato tutto ciò che c’era da notare. Lo Spartano si ripeté nella mente ancora una volta le parole che Ulysses gli aveva detto il giorno in cui gli aveva regalato la spada e, ponendosi da solo la domanda riguardante se avesse fatto bene o meno a cederla a Vitos, si rispose che quella ragazza era senz’altro un più che valido motivo per farlo.

Quando lei fu al suo fianco, Atthia si levò il mantello e glielo offrì per coprirsi dato che, oltre ad un cencio sgualcito legato intorno alla vita che gli copriva a mala pena l’inguine, la ragazza non indossava nessun altro indumento.

Lei lo prese tra le mani incredula e con esso si avvolse interamente, poi fece conoscere ad Atthia la propria voce:

- Qual è il nome del mio nuovo padrone?

«Nessun nome! Non hai ascoltato le mie parole di poco fa? Sei libera per quel che mi riguarda. Se invece vuoi conoscere il nome di chi ha dato la propria arma pur di liberarti dal giogo di quell’ignobile uomo, allora io mi chiamo Atthia» affermò il cavaliere in tono perentorio ed invitando la giovane a montare a cavallo.

La ragazza prese posto sulla sella mentre Atthia restò a terra stringendo le briglie dell’equino che, al suo semplice schioccare delle labbra, riprese a trottare.

«Io invece mi chiamo Clio e, se davvero sono di nuovo libera, non hai paura che tenti la fuga?» lo provocò la ormai non più schiava.

Atthia sorrise e diede una risposta tanto ironica quanto falsamente disinteressata:

- Se vuoi fuggire fuggi pure! Però, data la mia gentilezza, potresti farmi compagnia ancora per un po’ durante il mio peregrinare ed ascoltare la storia che vorrei narrarti. Se poi tutto ciò ancora non ti fosse sufficiente, puoi aprire la bisaccia posta sul lato sinistro della sella ed assaggiare le focacce che mia sorella Aulampia mi ha dato per il viaggio.

Clio non tradì emozioni ma in cuor suo avrebbe voluto piangere per la gioia:

- E va bene, se proprio insisti ne assaggerò una ed ascolterò ciò che hai da raccontare ma per il futuro non posso garantirti nulla.

«Sei proprio un’insolente ma hai carattere e questo mi piace» concluse Atthia mentre, voltando il capo all’indietro, salutò con gli occhi la sua amata spada che, nella fattispecie, Vitos non era ancora riuscito ad estrarre dal suolo.

Giungendo dalla strada che dal centro della città portava fuori dal perimetro di Atene, Theodote intravide le sagome dei suoi compagni che, come da accordi, lo attendevano appena fuori dalla porta del Falero.

Demetrios, riconosciuto l’amico, iniziò a sbracciarsi facendogli chiaramente intendergli prima a gesti e poi a parole che era in ritardo:

- Ti sembra l’ora di arrivare? Avevi detto al tramonto ma, come puoi ben notare da te, si è fatta sera, fa piuttosto fresco e soprattutto questi due sono uno in catalessi e l’altro ubriaco.

In effetti la luna era già alta e, osservando Chrysante e Costa, anche Theodote dovette constatare come l’albino fosse, nella sua tipica posizione a gambe incrociate, sprofondato in una delle sue abituali pause di meditazione e come l’uomo che riusciva a parlare con gli spiriti questa volta avesse discusso anche troppo con la bottiglia; Costa infatti se la stava russando della grossa con ancora stretta tra le mani l’ultima di una lunga lista di fiasche di vino che si doveva essere scolato durante il pomeriggio di vita ateniese.

Nonostante tutto ciò e nel giro di circa una mezz’ora i quattro avevano comunque ripreso la loro marcia verso la destinazione finale.

Quando le sagome delle case della periferia della polis greca non erano più visibili già da un po’, fu chiaro a tutti come non troppo distante dal punto in cui si trovavano vi fosse la nitida presenza di uno o più cosmi. Il primo istinto del gruppo fu quello di prepararsi ad un’ennesima imprevista battaglia ma, dopo alcuni minuti di riflessione, Chrysante parve rilassarsi esortando i tre compagni a procedere comunque con cautela ma senza essere aggressivi.

Accelerarono il passo andando incontro al richiamo di quel cosmo.

Un lampo squarciò il nero della notte andando ad abbattersi praticamente ai piedi di Demetrios.

«Chi siete? Fatevi riconoscere?» tuonò una voce proveniente dalla boscaglia che circondava la strada maestra.

«Il mio nome è Theodote di Atene e questi sono i miei compagni d’arme Demetrios, Chrysante e Costa e se tieni alla tua vita non osare rivolgere verso di noi i tuoi attacchi un’altra volta».

Dall’oscurità fece capolino un giovane dai capelli lunghi e la barba incolta:

- Tu sei Theodote? Theodote il cavaliere di Athena?

Quest’ultimo rispose con fierezza:

- In persona! E tu chi saresti?

«Io sono Alexandros e con me ci sono anche Gordias, Heliodoros ed i piccoli Hermos ed Ofiuco. Ho sentito svariate volte parlare tanto di te come di Patros. I miei amici ed io siamo coloro che il grande Atthia si Sparta ha reclutato per tutta la terra di Grecia e che, immagino come voi, siamo in procinto di raggiungere l’Attica per incontrare la Dea Athena» rispose con tranquillità il giovane facendo cenno al resto del suo gruppo di uscire allo scoperto.

Theodote strabuzzò gli occhi per la sorpresa ed avvertì nitidamente il cuore irrorarsi di una felicità che purtroppo durò il tempo di un attimo. Era evidente come quel gruppo di ragazzi fosse il frutto della ricerca dello spartano ma quale poteva essere stata la sorte di costui se al momento non era con i suoi discepoli?

«Dov’è Atthia? Che cosa ne è stato di lui?» domandò agitato Theodote prendendo per le spalle Alexandros e scuotendolo con vigore.

Quest’ultimo scrollò il capo senza saper dare una risposta precisa.

«Che intendi dire? Spiegati meglio! Atthia non sarà forse…» perseverò l’ateniese.

«…morto? Non ne posso essere assolutamente certo ma io credo proprio che ciò non sia possibile. Atthia ha deciso alcune settimane fa di separarsi da noi per proseguire la ricerca e la missione in solitaria. Intendeva esplorare il Peloponneso e fare ritorno nella propria città natale. Abbi fede o Theodote: rivedremo il nostro amico comune tra non molto tempo» disse con ferma autoconvinzione Alexandros.

Theodote sospirò e volse lo sguardo alle stelle: le parole di quel ragazzo avevano pienamente senso; ciò che il suo vecchio amico aveva fatto era tipico di un uomo e di un guerriero del suo valore. Fece cenno a Demetrios, Chrysante e Costa di raggiungerlo e chiese di conoscere le persone che, a distanza di sicurezza, avevano ascoltato in silenzio il breve dibattito tra i due nuovi compagni.

Dopo non molto un nutrito plotone di futuri cavalieri fedeli alla Dea della giustizia stava procedendo coeso in direzione di quel luogo dove gli alberi di fico, come ogni anno, avrebbero di lì a poco lasciato sbocciare i propri fiori.