CAPITOLO XX

Se il viaggio verso Mitilene era stato per l’Athena privo di difficoltà, quello di rientro verso il continente non fu di certo così agevole.

I naturali tempi tecnici per i rifornimenti così come il confronto tra le storie che Theodote, Demetrios, Chrysante e Costa bramavano di raccontare l’uno all’altro avevano prolungato la permanenza dei cavalieri sull’isola di Lesbo. Quando la nave salpò da Corinto infatti era ormai pieno autunno ed il mare ed il vento, così tranquilli e benevoli nei mesi precedenti, non lesinarono di testimoniare all’intero equipaggio come l’avvicinarsi dell’inverno incombesse sui loro destini.

Prevedendo che il tempo e le correnti potessero giocare loro brutti scherzi, Demetrios preferì optare per una rotta più lunga ma al contempo più sicura: l’Athena veleggiò verso sud tenendo costantemente terra a portata di vista a babordo. Così facendo giunse sino alla grande isola di Chios e passò attraverso lo stretto braccio di mare dove l’isola stessa guarda il continente asiatico nelle vicinanze della città di Cesme; solo allora la prua della nave si rivolse verso ovest tenendo questa volta come riferimento terrestre i lidi di Samo prima e Ikaria dopo. A questo punto però, prima di poter avvistare nuovamente qualcosa che non fosse acqua e dunque prima di raggiungere le Cicladi orientali, l’Athena, dispersa nel cuore dell’Egeo, si sarebbe trovava completamente ed esclusivamente circondata dal grande blu.

Le alte onde scure e schiumose si abbattevano senza pietà contro lo scafo della nave mentre l’incessante soffio di un gelido vento spirante da nord minacciava di spezzarne l’albero maestro e di strapparne le vele ad ogni affondo. Demetrios, così come i compagni, temette a più riprese che l’intensa violenza con la quale la natura si stava accanendo su di loro non avrebbe dato scampo al fasciame dello scafo dell’imbarcazione, progettata e nata per ben altri scopi e per ben altre condizioni atmosferiche. Come per prendersi gioco di questi semplici quattro mortali, l’apice delle difficoltà si ebbe quando, dopo settimane di fradice giornate passate a tirare cime, aprire e chiudere vele e a lottare contro il timone impazzito e di nottate insonni che parevano non terminare mai, gli azzurri tetti di Mykonos apparvero alla vista dei cavalieri.

In quel momento infatti la burrasca era talmente di proporzioni epiche che a Demetrios sembrò per assurdo più sicuro restare in mare aperto che tentare un approdo con relativa elevatissima percentuale di schianto sugli scogli.

Chrysante, che da ore pareva turbato, suggerì di proseguire lungo la rotta in direzione di Delo. Demetrios acconsentì di buon grado dato che, in effetti, riuscire nell’impresa di domare le onde ancora per un poco superando la punta nord dell’isola, li avrebbe condotti sino al canale, indubbiamente più riparato dalle intemperie, compreso tra Rineia e Delo stesso.

La scelta fatta ripagò il gruppo di cavalieri che, dopo ancora qualche ora di patimento, superarono di slancio il promontorio che segnava l’ingresso nel braccio di mare dove, nonostante la scarsa altura dei dolci pendi di Delo, i venti che sin ora avevano martoriato le vele dell’Athena non avrebbero potuto imperversare con il medesimo impeto. Le acque si calmarono e, contemporaneamente, il fasciame di cui era costituito lo scafo smise di scricchiolare in maniera preoccupante come aveva fatto sino a poco prima; il capitano della nave ed il suo stremato equipaggio riuscirono così finalmente ad attraccare in totale sicurezza al molo del piccolo villaggio situato al centro del litorale ovest.

L’isola di Delo era letteralmente presa d’assedio in occasione delle festività religiose soprattutto dedicate al Dio Apollo ed era per tanto ricca di templi e luoghi dove, in occasione di questi eventi, i fedeli pellegrini si ritrovavano per omaggiare le divinità olimpiche. Durante il resto dell’anno però l’isola era praticamente deserta; vi dimoravano solamente alcuni sacerdoti ed uno sporadico gruppo di abitanti che viveva essenzialmente di ciò che l’agricoltura e la pesca forniva loro per il sostentamento personale.

Non appena furono sbarcati, alcuni di questi indigeni gli si fece incontro offrendo ghiotte occasioni di alloggio e di ristoro a buon mercato; era evidente come l’inaspettata visita di questi forestieri avrebbe potuto loro fruttare qualche dracma di norma non prevista e certamente gradita. Mentre Demetrios e Costa si occuparono di legare saldamente la nave alle bitte murate nella pietra del porticciolo, Theodote si mise a contrattare con alcuni di essi chiudendo però la trattativa con un nulla di fatto; i villici infatti finirono per litigare tra loro su chi avesse fatto all’ateniese l’offerta migliore, su chi avesse avvistato l’imbarcazione arrivare in porto per primo o su chi potesse garantire a quegli stranieri l’alloggio più appropriato. Dato che la lieve baruffa che ne seguì non dava l’idea di terminare con qualcosa di concretamente interessante, il cavaliere, dopo tutto ciò che aveva appena passato, si fece da parte in attesa che i contendenti si mettessero d’accordo tra loro. Ciò di cui necessitava in effetti non era molto di più che un tetto sulla testa, un tozzo di pane e sapere che, sani e salvi, lui ed i suoi compagni erano sempre più vicini alla meta.

Chrysante era il solo a non tradire alcuna emozione. Se nelle ore antecedenti si sarebbe potuto supporre che il suo turbamento dipendesse dalla non certezza di sopravvivere alla tempesta, ora che aveva i piedi ben saldi sul terreno, non si intuiva la ragione del suo essere così preoccupato e scuro in viso.

L’albino pareva scrutare un punto indefinito dell’orizzonte. C’era qualcosa al di fuori del piccolo villaggio che attirava la sua attenzione.

Improvvisamente mosse il passo e, contrariamente a quanto non aveva mai fatto, si liberò del mantello grigio con il quale era solito avvolgersi completamente.

Theodote lo notò:

- Chrysante dove vai?

L’uomo voluto dalla Dea Athena in persona non rispose se non con un breve cenno della mano che indicava una collina abbastanza distate dalla banchina del molo di Delo.

Theodote richiamò l’attenzione degli altri due compagni ancora impegnati sull’Athena con un fischio. Demetrios e Costa alzarono il capo e gettarono il loro sguardo al di fuori del perimetro della nave: il loro amico gli stava indicando la sagoma di Chrysante che in solitaria se ne stava andando verso una piccola strada che evidentemente conduceva fuori dal villaggio.

I due balzarono a terra accostandosi all’amico che, con fare pensieroso, si limitò a commentare:

- Quando fa così è bene seguirlo ed anche iniziare a preoccuparsi, c’è qualcosa che non va.

Nonostante le proteste degli abitanti del villaggio che, smettendo finalmente di litigare vedendo scivolarsi di mano i loro possibili portatori di dracme, tentarono di trattenere il gruppo, i tre cavalieri raggiunsero Chrysante appena fuori dal paese ed insieme a lui imboccarono quella piccola strada che, dopo alcune decine di minuti di marcia, li condusse allo spettacolare sito detto Via dei Leoni ovvero un bellissimo tracciato circondato dai bianchi colonnati dei templi dove, a far compagnia al pellegrino, vi erano una serie di statue feline che, come guardiani dai denti e gli artigli aguzzi, parevano vigliare sulla sacralità del luogo.

Non vi fu però molto tempo per ammirare l’architettura e l’artistica bellezza del luogo perché, mentre dei lunghi e minacciosi cirri venivano sospinti dal vento, un altro suono oltre al sibilare delle correnti d’aria che si insinuavano tra i fusti delle colonne e le statue leonine investì il gruppo di cavalieri come un pugnale conficcato nello stomaco. Una sorta di grido straziante ed al contempo diabolico giunse alle loro orecchie così come la nitida percezione di un cosmo torvo ed ostile.

Nel trascorrere di brevi attimi quel grido sembrò pervadere le loro membra sino a scorrergli nelle vene e a straziargli i nervi. Theodote, Demetrios e Costa non poterono esimersi dal contorcersi per il dolore provato, cadere al suolo tra gli spasmi e perdere conoscenza. Solo Chrysante fu in grado di evitare quello che evidentemente era un attacco nemico chiudendosi all’interno della bolla energetica della quale aveva già dato sfoggio in occasione dello scontro con Niobe.

Dal fondo della strada fece la sua comparsa un guerriero ricoperto da un’armatura scura che, procedendo con passo deciso in direzione dell’albino, gli rivolse le seguenti parole:

- Fedor della Mandragola della Stella del Cielo Ferito; questo è il mio nome e noto con stupore che, contrariamente ai tuoi amici, non sei rimasto vittima del grido del demone che abita la mia armatura.

Essa era una corazza di colore nero dotata di due grandi copri spalle simili alle zampe di un grande ragno e di un elmo dal quale spuntava un grigio ciuffo piumato; oltre alla benda sull’occhio destro ed al ghigno maligno dipinto sul volto del nemico, Chrysante non poté non notare l’emblema mostruoso che era impresso sul pettorale sinistro. Osservando bene questo marchio si sarebbe potuta distinguere nitidamente la figura di una sorta di piccolo essere avvinghiato su se stesso e dalla cui sommità della testa spuntavano una serie di ramoscelli irti e spinosi.

«Vedo che l’hai notata! Questa è per l’appunto la mandragola che dà il nome alla mia costellazione demoniaca e questo è il suo grido letale» ribadì Fedor indicandosi il petto con il dito.

Al suo ordine, il metallo del quale era costituita quell’orrida figura iniziò a mutare forma come se esso fosse malleabile. La mandragola parve destarsi dalla sua posizione originale che la faceva sembrare quasi addormentata; girandosi su stessa mostrò prima un paio di occhi sbarrati e furiosi e poi, spalancando la bocca, una dentatura aguzza e contorta. Dalla profondità della sua gola provenne un altro agghiacciante grido simile a quello che aveva investito i cavalieri poco prima ma, se possibile, ancora più potente e perforante.

«Khan» si protesse appena in tempo Chrysante: una nuova bolla lo avvolse salvandolo nuovamente dall’attacco del nemico.

«Come vedi sono in possesso della giusta contromossa al tuo trucco e, prima che tu commetta lo stesso errore del tuo sfortunato compagno giunto sino a Meteora per assassinarmi, ti avverto che anche da qui dentro posso muovere nei tuoi confronti una controffensiva che sarà per te mortale» lo redarguì il cavaliere.

Il monito del cavaliere non fu però preso troppo in considerazione dal nemico che al contrario proseguì nel schernirlo:

- Al di là che il fatto che tu possa sconfiggermi è ancora tutto da dimostrare, giusto per essere certo del mio trionfo ho portato con me alcuni amici. Pensi dunque, o cavaliere di Athena, di poter riuscire ad avere la meglio anche in uno scontro uno contro quattro?

Da dietro alcune delle statue che costituivano la Via de Leoni fecero infatti la loro comparsa altri tre guerrieri in armatura:

- Gordon del Minotauro della Stella del Cielo Prigioniero, Flegias del Licaone della Stella del Cielo del Crimine, Violate di Behemoth della Stella del Cielo della Solitudine.

Questi ultimi, seguendo le indicazioni di Fedor, circondarono Chrysante ed iniziarono a scagliare i loro colpi su di lui. Cascate di fasci luminosi che sembravano avere le forme di zanne, artigli o fiamme demoniache si abbatterono senza pietà sull’albino il quale, sotto questo incessante intercedere, avvertì che anche la sua sin ora insuperabile arma di difesa stava iniziando a mostrare i propri limiti. Inoltre, dovendo concentrare tutto il potere del proprio cosmo nel tentativo di mantenere intatta la barriera, non poteva concedersi l’ardire di improvvisare un attacco contro uno dei quattro dato che così facendo, anche se il colpo fosse andato a buon fine, lo sforzo promosso nell’intento di offendere avrebbe del tutto abbassato la già ormai esigua resistenza del Khan offrendo il fianco ai colpi mortali dei restanti tre.

Chrysante non vedeva una soluzione al come uscire vivo da quella difficilissima situazione mentre sopra alla sua testa le nubi si erano fatte sempre più scure ed avevano iniziato a far cadere al suolo le loro copiose lacrime.

Ormai sulle ginocchia l’albino era quasi sul punto di cedere quando un grido di dolore proveniente da uno dei suoi quattro carnefici richiamò la sua attenzione. Gordon del Minotauro aveva improvvisamente smesso di abbattere i suoi colpi contro di lui e si stava ora tenendo il viso tra i palmi delle mani gemendo per quanto glie era inaspettatamente occorso.

Alle spalle di quest’ultimo Demetrios era nuovamente in piedi e, complice la pioggia scrosciante, era stato capace di trasformare le gocce d’acqua in proiettili ustionanti che poi aveva convogliato con vigore contro il volto del nemico dall’elmo cornuto.

Sorpreso almeno tanto quanto Chrysante, Flegias del Licaone si scagliò con impeto in direzione del ridestato cavaliere ma dopo soli alcuni passi sentì che qualcosa gli impediva di procedere. Con suo sommo orrore credette di essere vittima di un’allucinazione dato che, aggrappato alle sue caviglie, vi era un manipolo di fantasmi ossuti e cadaverici intenti nel disperato atto di trascinarlo al loro pari. Gli strati di spirito di Costa che, da dietro Demetrios, puntava il dito verso il nemico, lo avevano investito in pieno ed ora, avvolgendolo all’interno di una fiamma di colore azzurro pallido, gli stavano consumando le carni.

Vedendo scomparire in cenere Flegias e con Gordon praticamente acciecato in pochi drammatici istanti, Fedor prese le distanze dal gruppo con l’intento di scatenare nuovamente il diabolico urlo della sua mandragola. Per sua sfortuna però anche il temerario Theodote, seppur sanguinante dalle orecchie, gli si parò improvvisamente davanti e lo colpì in pieno petto con un pugno di forza talmente inaudita da frantumare quel diabolico essere annidato nel metallo della sua nera armatura. Disarmato, Fedor tentò un inutile disperato attacco ma Theodote, evitandolo con un semplice movimento del bacino, si preparò ad investirlo con il proprio miglior attacco. Chinandosi sulle ginocchia, il maestro che molti mesi prima era partito dall’Attica ancora non perfettamente conscio dei propri mezzi, esplose un pugno devastante dal quale dipartì la figura di un magnifico e maestoso drago che andò a colpire il nemico il quale, dopo un rovinoso volo turbinante, ricadde al suolo una decina di metri più lontano privo di vita.

Violate, ora unico superstite ed in grado di lottare di quel quartetto che sino a pochi minuti prima pareva destinato ad un facile successo, indietreggiò prendendo le distanze dai quattro cavalieri.

Theodote e Demetrios, dopo un rapido cenno d’intesa, scagliarono i rispettivi attacchi verso il praticamente impotente nemico; quest’ultimo riuscì però con un gesto tanto disperato quanto spregevole a farsi scudo con il corpo di Gordon che, dopo aver perso l’uso dei propri occhi, dovette rinunciare anche alla vita a causa del vergognoso gesto del suo compagno d’arme.

«Vigliacco!» esclamarono all’unisono i cavalieri mentre il Minotauro esalava l’ultimo respiro.

Rendendo merito all’appellativo appena ricevuto, Violate corse via dal campo di battaglia attraverso la Via dei Leoni dandosi così alla fuga.

Mentre le statue facevano da testimoni alla sua codardia, si voltò ad osservare i cavalieri che, inaspettatamente, non lo avevano inseguito. Per pochi attimi Violate credette di potersi mettere in salvo. Curiosamente la pioggia non aveva smesso neanche per un solo istante di abbattersi al suolo ma il tocco delle gocce, che fino ad allora aveva avvertito cadere incessanti sulla pelle, non veniva più percepito dal suo corpo. Poco dopo anche il suono dello scrosciare scomparve, poi l’inconfondibile odore che il temporale lascia sulla nuda terra perse per Violate ogni significato; quando la vista iniziò ad annebbiarsi sino a scomparire del tutto ed il palato non gli diede più alcuna sensazione, lo spettro intese finalmente che, privo dei cinque sensi, non gli restava che arrendersi all’oblio.

L’abbandono dell’Oriente con il quale Chrysante lo aveva condannato senza che nemmeno se ne fosse accorto aveva appena fatto il suo corso.