CAPITOLO II
«So che state fremendo ma non c’è bisogno di affrettarsi», disse Patros sfoderando il suo miglior sorriso. «Adesso, amici, tornate all’accampamento e recuperate le vostre cose, io resterò qui di vedetta ancora un poco, discenderemo insieme il pendio con le prime luci dell’alba».
Atthia protestò immediatamente:
- scusami fratello, ma chi se ne importa in questo momento della roba che abbiamo lasciato lassù, scendiamo subito a valle e cerchiamo la nostra Dea.
Prima che Patros potesse ribattere alle parole del compagno, intervenne Theodote il quale, dopo aver stretto il polso di Atthia come a dimostrare di voler dare un freno al suo impeto, gli rivolse pacatamente le seguenti parole:
- Atthia, ascolta il saggio Patros, sai benissimo anche tu che se la nostra Dea avesse voluto incontrarci sarebbe già stata qui con noi in questo preciso istante. Immagino che anche tu, come me, stia già iniziando ad avvertire il suo cosmo spargersi per tutta la vallata e per tutte le colline circostanti. E’ indubbiamente vicina a noi e sta bene, porta ancora un briciolo di pazienza, a breve potremmo riabbracciarla.
Non vi fu da parte di Athhia nessuna risposta se non un piccolo quanto spudoratamente contrariato cenno di assenso con le labbra sottili sotto la scura peluria dei baffi che le adornavano. Legandosi i capelli in una coda Patros tagliò corto il discorso:
- su andate, ci ritroviamo qui a breve.
I due si avviano ora a ripercorrere il tragitto che avevano fatto solo poche decine di minuti prima. Atthia, indirizzate le punte dei piedi verso la sommità della montagna ora innanzi al suo viso, iniziava a macinare metri già ai primi passi ma questi gli furono sufficienti per essere subito richiamato dal compagno di viaggio. «Atthia, per Zeus, hai già rimosso dalla tua mente le parole di Patros? Con calma! Siamo letteralmente volati giù da questo monte come dei ladri in fuga un attimo fa, sento ancora il cuore battermi all’impazzata dentro al petto. Per piacere amico, rallenta il passo».
Tirando un sospiro e lanciando gli occhi al cielo, Atthia, sottolineando infine la cosa con un ampio gesto del braccio destro, si voltò verso il compagno alle sue spalle e, con un inchino del capo, ironizzò:
- Avanti mio signore, mi faccia strada, la seguirò ubbidiente sino in capo al mondo senza proferir parola come un fedele scudiero.
«Grazie», fu la risposta di Theodote accompagnata da un altro leggero inchino della testa in segno di riverenza.
Mossi quei pochi passi che servivano al giovane per prima affiancare e poi superare la grande mole del compagno d’arme che tra le rocce e la sterpaglia era come il muro di una fortezza, Theodote non poté fare a meno di sentire ciò che scherzosamente Atthia sussurrò sotto voce:
- smidollato di un ateniese!
Senza rispondere ma con un sorriso ironico dipinto sul volto, Theodote guardò al di sopra di lui la ripida scalata che li attendeva e non poté fare a meno di pensare che se era stata ardua e pericolosa affrontarla in discesa, figuriamoci come sarebbe stato rifarsela tutta in salita. Nonostante ciò, la voglia ed il desiderio di aver la possibilità di rivedere la Dea Athena di lì a breve diedero al giovane greco le forze necessarie per affrontare con tutta serenità e di buon grado il dissestato tragitto; la passione che gli ardeva nel cuore fu senza ombra di dubbio alcuno il carburante necessario a far avanzare le sue gambe senza avvertire poi questa grande fatica.
Infatti il sentiero, nonostante la ripidità di alcuni tratti, gli sembrò durare un tempo addirittura inferiore rispetto al viaggio di andata. Il loro riparo e la loro attrezzatura erano ancora esattamente dove erano stati abbandonati, la sola differenza rispetto a prima era il calore emanato dal braciere improvvisato la sera antecedente che, non costantemente ravvivato, si era lentamente spento lasciando solo dei tizzoni di legno nerastri e ricoperti di cenere con delle punte di rosso vivo.
Theodote si accosciò al suolo per indossare i propri calzari in cuoio, la cintura cui era agganciato il fodero della spada, la tunica di tessuto chiaro ed infine, ridestandosi in piedi, imbracciò sulla spalla la sacca dove teneva le poche attrezzature da campo in suo possesso e a cui era legato il proprio scudo in bronzo tramite un cinturino chiaro in pelle di daino ornato da una fibbia in argento, unico ricordo della sua precedente vita, recante lo stemma del suo casato: un serpente avvinghiato sul bastone centrale di una bilancia.
Theodote infatti era il discendente più giovane di un’antica e ricca famiglia ateniese i cui avi avevano dato lustro al proprio nome e creato il proprio blasone grazie ad una tradizione che si tramandava di padre in figlio nel campo della medicina e nella produzione di medicinali ed unguenti molto apprezzati dall’élite della polis greca. Con il passare delle generazioni la famiglia di Theodote aveva accumulato, grazie comunque alla conoscenza, all’esperienza ed all’impegno nello studio nel campo della medicina e della cura delle malattie, ingenti ricchezze e soprattutto, forse ancor più importante per chi desiderasse stabilirsi all’interno delle caste più in vista di Atene, sviluppato una rete di conoscenze ed amicizie di alto livello che avevano addirittura portato il padre dello stesso Theodote ad essere chiamato a partecipare attivamente alla vita politica della città stato. Achillios, il genitore di Theodote, aveva grandi progetti per il figlio il quale però si era sempre dimostrato sin dalla fanciullezza poco incline ai modi e agli obblighi che il nome del suo casato cercava di imporgli, più che per la scienza e la politica egli pareva più a suo agio nello studio e nella pratica delle arti e della filosofia. Oltre a tutto ciò anche l’atletica e la competizione sportiva erano maggiormente nelle sue corde; in cuor suo sognava di poter partecipare un giorno alle Olimpiadi anche se, più realisticamente parlando, si era praticamente convinto che, dopo la leva militare facoltativa per tutti i giovani ateniesi di buona famiglia una volta compiuti i diciotto anni di età, avrebbe prestato servizio nell’esercito o nella marina greca e poi si sarebbe visto il da farsi.
L’incontro con la Dea Athena, avvenuto in quel giorno d’estate mentre si era recato nei pressi del porto per disegnare su un foglio di papiro le navi da guerra ormeggiate al molo dell’arsenale, fu tanto illuminante quanto sorprendente. Una ragazza giovane e bellissima gli si avvicinò incuriosita dai suoi schizzi mentre alle sue spalle due ragazzi appena più anziani di lui, il primo dai lunghi capelli neri e dai lineamenti gentili, il secondo dal fisico scolpito e con l’aria del perfetto guerriero, lo guardavano da distanza di sicurezza con fare sospettoso.
Dopo poche parole scambiate con quella ragazza aveva sentito dentro al petto nascere e crescere rapidamente una sensazione mai provata prima, una sorta di soffice tepore che, salendogli repentinamente dalla bocca dello stomaco sino in gola, si era trasformato in un bruciante calore. In quel preciso istante Theodote capì, senza ricevere alcuna spiegazione, che quel pomeriggio iniziato come una spensierata giornata d’estate aveva appena cambiato il corso del suo destino. Per lui non si profilava un futuro né da medico, né da politico né tantomeno da sportivo eroe olimpico ma da soldato devoto di una Dea che non avrebbe invisibilmente adorato al tempio ma che avrebbe verosimilmente potuto toccare con le sue mani.
Quel calore avvertito, avrebbe inteso solo più avanti, era stato lo sprigionarsi del suo cosmo di cavaliere che nessuno gli aveva infuso ma con il quale era nato come predestinato.
Compreso quello che sarebbe stato il suo futuro, Theodote non poté fare a meno di sottrarsi a ciò che il fato aveva avuto in serbo per lui anche se il doversi staccare dalla città in cui era nato e cresciuto e dall’affetto della propria famiglia non fu per il giovane un’impresa priva di sofferenza. Il "vecchio" Achillios non digerì benevolmente la decisione del suo ultimo genito di partire, come era suo dire, all’avventura e in compagnia di un non meglio precisato e mal assortito manipolo di aspiranti eroi. La madre, al contrario, non si oppose alla decisione del figlio anche se, in segreto, pianse fiumi di lacrime per il suo piccolo. Fu proprio la donna a rincorrere Theodote e a riuscire ad intercettarlo ormai quasi alle porte della città per consegnargli quella fibbia in argento che tanto gli sarebbe stata cara.
Per Atthia invece lasciare la sua terra e la sua famiglia non fu assolutamente così difficile. Era venuto al mondo ed era cresciuto a Sparta, era nato ed era stato addestrato per essere un formidabile guerriero e niente di più. Il suo destino era stato scritto sin dai tempi del suoi primi vagiti. Atthia, ora appena ventenne, è già un guerriero esperto in qualsiasi arte bellica con una predisposizione naturale nel saper maneggiare la spada. Combattere con lance, scudi, asce o a mani nude è per lui naturale come camminare o respirare, la sua casa è il campo di battaglia, il suo divertimento è trovare un nemico sempre più capace sul quale avere la meglio. Atthia è un combattente preparato, poderoso ed irruento ma non per questa ragione rinuncia ad usare l’intelletto. Infatti, combinatamente con la sua caparbietà fisica durante il duello, la vera forza dello spartano è quella di riuscire a mantenere, anche negli attimi più delicati, una calma ed un autocontrollo impressionanti. Nello stesso momento in cui fende la sua spada contro il nemico, egli lo osserva con un’attenzione quasi geometrica, ne individua i punti deboli e ne trae vantaggio; osserva al contempo anche l’ambiente circostante ed è in grado di modificare il suo stile di combattimento a seconda del territorio, della luce del sole o della luna, delle condizioni ambientali o di qualsiasi anche minimo fattore che possa influenzare la battaglia. Egli fu il primo a essere trovato da Athena scesa in terra, il primo a scoprire il potere del cosmo dentro di sé e a saperlo tanto dominare quanto farlo esplodere al momento giusto.
Che Atthia fosse un guerriero perfetto lo si poteva intuire anche dal modo in cui si preparava.
Theodote lo stava osservando con la coda dell’occhio: anche nel raccogliere ed indossare la sua scarna attrezzatura, Atthia era metodico, preciso, quasi meccanico nei suoi movimenti; indossati i calzari si chinava per stringerli intorno alle caviglie ed agli stinchi allacciandoli più sopra a metà polpaccio, indossava la sua maglia in cotone con le maniche tagliate e lunga sino alla vita che poi fermava con il cinturone in cuoio dal quale dipartivano due fasce a bretella che, correndo sopra il suo petto e le sue spalle si ricongiungevano sullo stesso cinturone a fondo dorso, dopodiché arrivava il turno del copri spalla e dello scudo, del fodero, della spada fermata dentro di esso da un bottone in osso. Infine raccoglieva la bisaccia, che imbracciava sull’altra spalla, e l’elmo che per essere indossato veniva afferrato con entrambe le mani e, tramite un leggero inchino del capo, quasi si volesse usare riverire il complemento metallico da soldato, veniva indossato. In un paio di minuti al massimo innanzi al giovane ateniese era pronto un incrollabile guerriero spartano armato ed altamente efficace.
«Possiamo andare ora?» chiese lo stesso Atthia con impazienza.
Immediata la risposta:
- certo ma…
«Senza fretta, lo so, lo so» ribatté lo spartano impedendo che il compagno terminasse la frase e facendogli intravedere da sotto l’elmo il biancore della sua dentatura a mezzo di un lieve sorriso che, per come Atthia era abituato a non permettere che si potessero intendere i suoi sentimenti, fossero essi di gioia o di dolore, fu per Theodote motivo di soddisfazione ed iniezione di ulteriore fiducia.
Mentre i due si accingevano a ripercorrere per la terza volta il tragitto che li separava da Patros, si poteva, gettando gli occhi verso est, scorgere all’orizzonte le prime luci di una nuova alba. Mano a mano che la notte diveniva meno scura, Theodote osserva le rocce, i fasci d’erba, gli arbusti che, con il calar della luna iniziavano per i suoi occhi ad assumere forme e colori riconoscibili. Nel contempo tra gli alberi del bosco situato sotto la rupe si poteva incominciare ad udire i primi cinguettii degli uccelli. Presto sarebbe sorto il sole, tutto sarebbe tornato ad essere più familiare, avrebbero disceso quel colle roccioso dove, insieme anche a Patros, avevano dovuto attendere per ben tre giorni e quasi tre notti intere il ritorno della Dea Athena.
Patros era ancora là dove lo avevano lasciato avvolto nel suo mantello grigio.
Non appena furono a lui visibili, il compagno di vedetta fece solo un cenno con la mano e, senza lasciar loro il tempo di intrecciare con lui il ben che minimo dibattito, saltò giù dalla roccia da dove non si era mai mosso a partire dalla sera antecedente. Atthia con un poderoso balzo raggiunse la precedente postazione del compagno e con un secondo balzo gli andò dietro scomparendo alla vista di Theodote. Quest’ultimo, tirato l’ennesimo sospiro, probabilmente pensò: «ci risiamo, loro corrono e io dietro ad inseguirli». Anche Theodote comunque compì il salto necessario ad intraprendere la nuova corsa verso la valle. Patros ed Atthia erano già alcune decine di metri più in basso e, senza pausa, si spostavano di roccia in roccia come due stambecchi di montagna non curandosi dell’altezza e del pericolo di un’eventuale caduta. Per il giovane ateniese non restava che affrettarsi per non restare troppo indietro rispetto ai suoi compagni d’avventura.