CAPITOLO XIX

Alle porte dell’inverno il gruppo costituito da Atthia, Alexandros, Gordias e dai due piccoli Hermos ed Ofiuco era giunto sino nel cuore della Grecia. Qui le pianure dell’Epiro si erano innalzate di quota sino a divenire alte montagne dalle cime imbiancate mentre gli esili rami degli ulivi delle zone costiere si erano tramutati nei robusti ed alti tronchi degli abeti e delle querce.

La prossima meta che lo spartano aveva stabilito di raggiungere era la piccola città di Karpenisi che, arroccata ai piedi di una catena montuosa, rappresentava una delle ultime tappe ed un luogo sicuro dove riposare prima di riprendere la marcia che avrebbe ricondotto il gruppo di cavalieri sino in Attica.

Atthia si faceva largo tra gli arbusti del sottobosco della fitta foresta a colpi di spada cercando di orientarsi seguendo la flebile luce del sole che, per lo più celato da delle basse nubi che conferivano al cielo un colorito plumbeo ed uniforme, filtrava a malapena tra il fogliamo dei sempreverdi. Alexandros lo seguiva come un’ombra mentre Gordias era rimasto attardato di qualche passo essendosi fatto carico di portare in spalla a turno Hermos ed Ofiuco i quali, se pur con grande coraggio e resistenza, erano ormai allo stremo delle forze.

Tutt’intorno a loro regnava un silenzio quasi irreale tipico di quei minuti antecedenti a quando il cielo deciderà di far cadere dei bianchi e gelidi fiocchi di neve sulla terra.

«Temo che tra non molto tempo nevicherà. Dobbiamo assolutamente sbrigarci a trovare un riparo; inoltre, come puoi vedere, i bambini sono al limite ed anche Gordias ed io iniziamo a sentirci davvero provati» esclamò Alexandros mentre con lo sguardo cercava al di sopra delle chiome degli alberi indizi a conferma di quanto aveva appena pronosticato.

Atthia si voltò per un istante ad osservare le condizioni dei suoi compagni di viaggio, poi rispose all’amico:

- Tenete duro ancora un po’, sono certo che Karpenisi sia ormai vicinissima.

Fu Gordias, sentendo cedergli le gambe ed avvertendo il primo gelido cristallo posarsi sulla sua fronte, ad insistere:

- Atthia, amico, non voglio mettere in dubbio le tue capacità ma orientarsi in questa foresta non è semplice nemmeno per te e tra pochi minuti sarà molto peggio: la neve ci disorienterà rendendo l’ambiente troppo uniforme, il cielo non potrà più farci da giuda e il gelo della sera completerà questo quadro non di certo idilliaco. Continuare ostinatamente a marciare non è cosa saggia.

Udendo le parole del toro di Creta, lo spartano arrestò il passo, sospirò profondamente ed osservò il fumo che, a causa del freddo, uscì dalla sua bocca e salì verso l’alto come una piccola nuvoletta di vapore.

«E sia! Sbrighiamoci a trovare un riparo per la notte, Karpenisi sarà là dov’è anche domani».

Quasi un’ora dopo il gruppo non aveva però ancora trovato un luogo sufficientemente riparato od asciutto dove sostare mentre una copiosa pioggia di fiocchi bianchi stava ricoprendo la foresta di una tanto morbida quanto gelida coltre di neve. Gordias tentava di riscaldare con il proprio corpo i due gemelli tendendoli contemporaneamente e saldamente stretti tra le proprie possenti braccia; nel frattempo però le ginocchia nude e le dita dei piedi che, oltre ai sandali, avevano come protezione solamente dei lembi di stoffa fradicia arrotolati alla bell’e meglio sino all’altezza dei polpacci, iniziavano a segnalargli l’arrivo dei primi sintomi del congelamento. Alexandros si era avvolto da capo a piedi con un mantello di stoffa scura che aveva recuperato strada facendo e procedeva leggermente incurvato e con lo sguardo basso e vuoto seguendo le impronte che Atthia lasciava camminandogli pochi metri più avanti. Quest’ultimo, anche se a fatica, non smetteva nemmeno per un solo secondo di spianare la strada al gruppo. In cuor suo iniziava però ad avvertire, anche se non tanto per se stesso ma piuttosto per i propri amici, un sentimento che raramente aveva provato durante l’arco della sua intera vita: la paura.

L’irreale silenzio che, come una coperta, si era posato sull’intera foresta fu improvvisamente rotto da un suono di legna spezzata alle loro spalle.

Istintivamente Gordias posò Hermos ed Ofiuco al suolo facendo loro scudo con il corpo; Atthia invece tese l’orecchio e non esitò ad intimare:

- Chi va là? Fatevi immediatamente riconoscere.

Una coppia di voci riecheggiò tra gli alberi mentre la loro eco che rimbalzò tra un tronco e un ramo non diede ai cavalieri ulteriori informazioni sull’origine di quel suono:

- Non temete, siamo cacciatori, non vogliamo farvi alcun male.

Nonostante la frase rassicurante, Atthia strinse con fermezza il manico della propria spada e scambiò uno sguardo d’intesa con Alexandros il quale si preparò a sua volta ad un eventuale scontro.

Di lì a poco due giovani dal fare tutt’altro che minaccioso li raggiunsero.

Erano entrambi ben coperti ed attrezzati sia per la caccia che per il maltempo.

Il primo era un ragazzo dai capelli corti e di color biondo cenere, la barba incolta, un bel sorriso e due profondi occhi verdi che brillavano sotto al cappuccio che, come il resto del suo abbigliamento, era stato cucito con della pelle di daino; sulla spalla destra imbracciava un grande arco di legno e la faretra contenente una serie di frecce piumate. All’altezza della cintura era fissato un cordino cui erano legate per le zampe posteriori due lepri selvatiche, frutto dell’evidente, recente e fortunata battuta di caccia. Si presentò con il nome di Heliodoros offrendo a tutti una sincera stretta di mano.

Il secondo individuo, al contrario, rimase un poco in disparte anche se, estraendo dalla sacca in cuoio che portava sulla schiena ed offrendo ai gemelli un paio di coperte di lana, dimostrò comunque le sue buone intenzioni.

Angeliaforos, questo era il suo nome, aveva occhi e folti capelli scuri imbiancati dalla neve, profilo greco e labbra sottili. Era completamente coperto da una pelliccia che, nonostante l’abbondanza, lasciava intuire la sua corporatura alta e snella.

«Cosa vi porta tra questi boschi e in questa stagione? Non mi sembrate cacciatori e nemmeno gente che vive da queste parti» domandò curioso Heliodoros.

Alexandros prese la parola:

- siamo viandanti e la nostra meta finale è la regione dell’Attica anche se, nel frattempo, abbiamo intenzione di fare tappa a Karpenisi. Purtroppo questa nevicata ci ha sorpresi all’improvviso e ci ha obbligati a dover cercare in tutta fretta un riparo di fortuna per la notte. Come potete vedere con i vostri occhi non siamo molto ben equipaggiati per fronteggiare questo clima e con noi viaggiano anche due bambini.

«Karpenisi?» Ribatté Heliodoros strabuzzando gli occhi.

«Siete finiti completamente fuori strada però è stata proprio la neve a salvarvi in un certo qual modo. Infatti se il sottobosco non si fosse imbiancato, non avremmo potuto vedere e seguire le impronte che avete lasciato. Sinceramente io volevo lasciar perdere ma il qui presente mio taciturno compare ha insistito perché vi rintracciassimo».

«Grazie Angeliaforos allora, però ora urge veramente trovare un riparo» si spicciò a dire Gordias.

Heliodoros sorrise, poi con un balzo prese la testa del gruppo:

- seguitemi tutti, conosco questi boschi come le mie tasche, poco distante da qui vi è una caverna che ci darà asilo per tutta la notte. Domani invece raggiungeremo insieme Karpenisi dove, tra l’altro, si trova anche la mia casa.

Con un rapido cenno degli occhi, Atthia diede il suo benestare ad Alexandros e a Gordias di seguire l’arciere. La necessità di riscaldarsi e di riposare era troppo impellente ed inoltre avvertiva nei confronti di quel giovane un’ardente se pur debole traccia di cosmo. Che forse il destino gli avesse permesso di incontrare nel momento più impensato un altro candidato a divenire un cavaliere di Athena?

Al contrario il silenzioso Angeliaforos gli risultava alquanto sospetto: anche proveniente da quest’ultimo avvertiva qualcosa di somigliante alla eco di un cosmo. Essa era però talmente forse volutamente celata da poter esser tanto un’ennesima scoperta quanto una minaccia.

La caverna era profonda, buia ma stranamente asciutta. Evidentemente delle uscite secondarie avevano creato un sistema di ventilazione naturale che impediva all’umidità di depositarsi sulle pareti rocciose e sul terriccio di cui era ricoperta al suolo. Heliodoros si dimostrò molto rapido e capace nel saper accendere un fuoco grazie a della legna secca che trovò dentro alla spelonca e per mezzo di una pietra focaia che portava sempre con sé. In breve tempo il calore scaturito dalla brace e dalle fiamme riscaldò i corpi e gli animi dell’interno gruppo. Una delle lepri catturate nel pomeriggio ebbe infine il merito di mettere a tacere anche i brontolii degli stomaci che, non appena furono rinfrancati dall’aumento di temperatura, presero a rumoreggiare senza sosta.

Più tardi, quando la maggior parte del gruppo ebbe preso sonno, il solo Atthia stazionava al di fuori dell’ingresso dell’anfratto. Aveva smesso di nevicare ed una fresca brezza aveva spazzato via il grigiore delle nubi lasciando spazio ad uno spettacolare cielo stellato. La luna era alta e piena. I pensieri del cavaliere erano rivolti, come in occasione di ogni momento libero, alla Dea Athena ed ai suoi compagni sparpagliati per la terra di Grecia.

Un fruscio alle sue spalle gli segnalò l’avvicinarsi di qualcuno: era Heliodoros.

«Non riesci a dormire?» domandò quest’ultimo.

Atthia si limitò a scrollare le spalle e a ribattere:

- Ci sono molte cose che si annidano nella mia mente, ho un’importantissima missione da portare a termine e non avrò pace sino a quando non raggiungerò il mio scopo. Verrà forse anche il giorno in cui potrò riposare serenamente ma, di certo, non è questa la notte per farlo.

I due chiacchierarono a lungo tra loro. Atthia accennò in modo alquanto ambiguo ai misteriosi incarichi che gli erano stati assegnati, gli raccontò le storie dei suoi compagni Theodote e Patros e di come si fosse imbattuto prima in Alexandros e Gordias e poi nei due piccoli gemelli; Heliodoros invece parlò essenzialmente di se stesso, della sua vita che sino ad allora non aveva avuto nulla di così interessante da essere narrato e di come, durante questa sua ultima battuta di caccia, si fosse imbattuto appena fuori da Karpenisi in questo forestiero di nome Angeliaforos che tanto gentilmente quanto insistentemente lo aveva infine persuaso ad accompagnarlo nella foresta.

Mentre Atthia era intento a riflettere sulle parole che l’arciere aveva appena pronunciato e che avevano appena aumentato i suoi sospetti sulla seconda figura incontrata quasi per miracolo in quel giorno di novembre, tre stelle cadenti di colore verdognolo balenarono nella volta celeste dando l’idea di essere potute precipitare al suolo come meteoriti non eccessivamente lontano dal punto in cui i due giovani le avevano appena osservate.

Contrariamente ad Heliodoros che sorrise per quello strano fenomeno naturale, lo spartano si irrigidì e corse verso l’interno della caverna gridando i nomi di Alexandros e Gordias.

Questi ultimi, udendo la voce del loro maestro, furono riportati di soprassalto dai rispettivi sogni alla dura realtà ma, ancor prima che Atthia potesse ricongiungersi con loro, gli si fece incontro Angeliaforos il quale, correndo in senso opposto a quello del cavaliere, pareva aver premura di voler raggiungere l’uscita il più presto possibile.

I due si guardarono reciprocamente ma non si dissero una sola parola.

Atthia trovò sul fondo della caverna i due compagni ai quali impartì senza mezzi termini gli ordini da eseguire:

- Gordias: resta qui e non muoverti, proteggi ad ogni costo Hermos ed Ofiuco.

- Alexandros: preparati a combattere, un nuovo nemico sarà presto sulle nostre tracce. Lo affronteremo nella foresta in modo da tentare di allontanare il più possibile la sua attenzione da Gordias e dai gemelli.

«Ma…» accennò Alexandros che venne istantaneamente ripreso dallo spartano:

- Nessun "ma", sei ormai pronto alla lotta, non devi temere alcunché. Io stesso oggi ho avuto paura per la nostra sorte ma apprendi questa mia ennesima lezione: la paura è una malattia e, come tale, essa indebolisce sul campo di battaglia il guerriero che ne è affetto. Nello scontro non bisogna temere né l’avversario né la morte. Il primo va rispettato ed onorato attraverso un combattimento leale e svolto al meglio delle nostre capacità perché, anche se egli è schierato nell’esercito opposto al nostro, come noi anch’egli mette a repentaglio la propria vita nel tentativo di privarci della nostra mentre la seconda, se anche dovesse sopraggiungere, verrà per raccogliere le spoglie di un valoroso che è caduto in conseguenza del fatto che il suo avversario è stato più forte ed abile di lui e non perché si è piegato alla paura di incontrare la morte stessa.

Alexandros si sentì caricato ed illuminato dalle parole del suo maestro, si limitò ad annuire e poi scattò rapidamente verso l’esterno.

Una volta fuori, Atthia si rivolse ad Heliodoros che, fiancheggiato da Angeliaforos, ancora non aveva compreso ciò che stava accadendo:

- Heliodoros, non ho ancora avuto il tempo ed il modo di svelarti qualcosa che per te sarà probabilmente sconvolgente ma tu sei un cavaliere, in te arde un cosmo. Non ho ora la possibilità di darti maggiori spiegazioni ma sappi che a minuti saremo sotto attacco. Ho bisogno della tua conoscenza di questi boschi per mandare il nemico fuori strada e tenerlo lontano dai bambini e da Gordias che ho lasciato a loro protezione.

L’arciere, pur non avendo inteso il vero significato delle affermazioni dello spartano, rispose con un cenno affermativo del capo e, senza perdersi in inutili domande, indicò con la mano una direzione precisa tra gli alberi innevati:

- Di là!

Angeliaforos si intromise nella questione:

- Se tu me lo permetti, nobile Atthia, anche io vorrei dare il mio contributo.

Il cavaliere rifletté per alcuni attimi, poi, guardando fisso gli occhi scuri di Angeliaforos che nella notte sembravano brillare di una luce simile a quella dei felini, gli rispose:

- Non ho ancora compreso quale sia la tua natura ma non avverto in te nulla di malvagio. Se vuoi unirti a noi sei il benvenuto. Andiamo ora, abbiamo parlato sin troppo.

Il gruppo di quattro valorosi con Heliodoros alla guida si mosse tanto silenziosamente quanto rapidamente tra gli alberi ed i cespugli e nel giro di una decina di minuti la caverna fu già lontana.

Nell’immobilità della notte la foresta sembrava pietrificata, non vi era traccia né di un suono né di un movimento. In questo incanto quasi irreale la sola cosa a dare infine un segno di vita fu una farfalla coloratissima che, leggera come una piuma, si posò delicatamente sulla spalla di Atthia. Il primo a notarla fu Alexandros che indicandola con il dito attirò l’attenzione di Heliodoros il quale, incredulo, si lasciò sfuggire:

- Una farfalla? In questa stagione? Ma non è possibile.

Angeliaforos scattò d’istinto scostando vigorosamente con la mano l’insetto dal dorso dello spartano per poi schiacciarlo al suolo con la suola del sandalo che, nella fattispecie, era molto particolare. Era un calzare di cuoio pregiato impreziosito da una minuscola decorazione in argento simile ad un’ala d’uccello.

«Siamo stati individuati, tanto vale uscire allo scoperto» sentenziò Angeliaforos.

Di lì a poco infatti una seconda farfalla prese a volteggiare sopra alle loro teste, poi una terza, una quarta ed una quinta. In pochi minuti si ritrovarono circondati da uno sciame di insetti che, anche se innocuamente, parevano proprio puntare la loro attenzione sul gruppo capeggiato da Atthia.

Mentre tutti se stavano con il naso all’insù per tentare di comprendere l’origine di quel prodigio, una voce suadente richiamò i loro sguardi nuovamente verso il basso.

A circa quindici metri da loro si era manifestato il nemico: il guerriero indossava una particolarissima armatura di color arancio risplendente come il carapace di uno scarabeo. Le farfalle, come in una danza, si disposero intorno al loro creatore e signore. Costui spalancò a sua volta un paio di ali simili a quelle delle sue piccole e fedeli spie. Esse erano colorate con tinte che variavano dal viola al verde ed al giallo ed emettevano una luce biancastra e spettrale che illuminò tanto la sua figura quanto l’ambiente immediatamente circostante. Solo allora i cavalieri, l’arciere ed il misterioso Angeliaforos si poterono rendere conto che gli occhi del demonio che gli si era parato innanzi non erano umani ma, rigonfi e di colore quasi nero, erano simili a quelli di una falena.

«Mi di Papillon della stella della terra misteriosa» si presentò.

Alexandros stava quasi per ribattere quando una seconda voce, questa volta più rauca, graffiante e proveniente dai rami della chioma di un alto pino, gli soffocò le parole in gola.

«Ed io sono Whinber del pipistrello, spettro della stella della terra guidatrice».

A questo secondo convenevole fece seguito un volteggio attraverso il quale il nuovo nemico, armato di una corazza interamente nera e dotata anch’essa di ali che facevano indubbiamente riferimento al nome del volatile notturno da lui portato, atterrò al suolo frapponendosi a metà strada tra i quattro e Mi.

«Le farfalle vi hanno individuato, il grande pipistrello vampiro si bagnerà del vostro sangue impuro privandovi lentamente del dono della vita» sentenziò Whinber che, sogghignando e pallidamente illuminato dal chiarore della luna, digrignò i denti scoprendo un paio di canini lunghi ed aguzzi che nulla avevano conservato di quella che doveva essere stata la sua umanità in un tempo ormai remoto.

Alexandros fece per proporsi in avanti ma Atthia lo fermò mettendogli una mano sulla spalla:

- Ho in serbo un’altra lezione per te: ora vedrai come realmente combatte un efficiente guerriero nato, cresciuto ed educato all’arte della guerra nella grande città di Sparta. Presta attenzione a ciò che sto per compiere e, al mio segnale, indirizza il tuo miglior colpo verso lo sciame di farfalle.

Detto ciò Atthia estrasse la spada dal fodero e prese a correre come una furia in direzione del sedicente pipistrello.

La prima cosa che Alexandros osservò fu che il suo maestro, contrariamente all’abitudine, impugnava la propria lama con la mano sinistra anziché con la destra.

Atthia, giunto a pochi passi dall’avversario, caricò un fendente diretto alla gola che Whinber schivò semplicemente reclinando il collo all’indietro. Concludendo però il movimento rotatorio che aveva incominciato preparando il colpo, Atthia diede seguito all’attacco colpendo con il pugno destro il viso del nemico il cui impatto gli fece sputare uno di quei due aguzzi canini; la rotazione continuò: girando su se stesso a trecentosessanta gradi il cavaliere mollò la presa della mano sinistra dalla propria spada che rimase per una battito di ciglia sospesa a mezz’aria per essere prontamente recuperata con la destra. Concluso il giro su se stesso e con l’acciaio spartano ora saldamente in pugno, Atthia colpì Whinber nel solo punto del corpo che aveva individuato non essere protetto dall’armatura. Reclinando leggermente le ginocchia e schivando con la testa l’inutile tentativo di difesa del vampiro, Atthia conficcò sotto l’ascella destra del nemico la sua affilatissima lama che, come un coltello caldo in un pane di burro, scivolò nelle sue carni sino a fuoriuscirne all’altezza della spalla sinistra. Un copioso spruzzo di sangue inondò il viso del cavaliere. Quest’ultimo si girò verso Alexandros: stava sorridendo. Il giovane capì che quello era il segnale. Corse in avanti e, compiendo un balzo per avere una linea di tiro libera, esplose il proprio colpo migliore. Una rete di fasci luminosi si scatenò nell’etere creando una sorta di rete di fulmini che non diede scampo allo sciame di farfalle schierato a protezione di Mi.

Quest’ultimo stava per attaccare a sua volta Alexandros quando si vide balzare contro Whinber.

Com’era possibile che il suo compagno d’arme appena ferito a morte lo stesse attaccando? Così infatti non era. Atthia aveva utilizzato il cadavere del pipistrello per farsi scudo dal probabile attacco di Mi ed evitare di essere eventualmente investito dal colpo del suo giovane ed ancora insicuro allievo. Quando lo spettro farfalla intuì ciò che stava realmente accadendo, lo spartano gli era già scivolato alle spalle tenendogli saldamente le radici delle ali tra le dita.

Il dolore che Mi provò quando Atthia gliele strappò a mani nude fu al contempo liberazione e certezza di essere stato sconfitto in un lasso di tempo talmente limitato da non avergli causato né particolare sofferenza né particolare disonore.

Lo spartano strinse a sé il nemico ed esortò Alexandros a sferrare il colpo di grazia.

Quest’ultimo, partendo da ciò che era stato capace di fare in modo naturale quella notte di alcuni mesi prima nei confronti di Raimi e passando attraverso il perfezionamento delle proprie capacità che il duro ed incessante addestramento aveva prodotto, concentrò tutto l’ardore del suo cosmo in uno solo pugno che, ruggendo, investì in pieno petto il nemico.

Ancor prima che l’ultima falena dalle ali bruciacchiate toccasse il suolo innevato, il soffio della vita aveva già abbandonato il corpo di Mi che, come l’esperienza passata aveva già insegnato, si dissolse in un mucchio di polvere nera.

«Due avversari abbattuti in un lampo» applaudì Angeliaforos.

«Non credo ai miei occhi» commentò Heliodoros che dovette sedersi a terra a causa del tremore che gli attraversò le ginocchia.

Anche Alexandros stava per complimentarsi con Atthia che finalmente aveva dato sfoggio delle sue reali capacità di guerriero, quando la eco di un grido risuonò tra gli alberi della foresta.

«Ofiuco» esclamarono quasi all’unisono i due cavalieri.

Poco prima infatti un terzo nemico si era separato da Mi e Whinber ed aveva seguito sino alla loro sorgente le tracce impresse sul manto nevoso che inevitabilmente i quattro avevano lasciato al loro passaggio.

Una volta entrato all’interno della caverna si era presentato come Valentino di Harper della stella del cielo della violenza. La sua armatura era interamente di color nero opaco e realizzata con forme che, soprattutto nei copri spalle, nell’elmo e nelle ali metalliche che da dietro le scapole si diramavano in due voluttuose iperboli, ricordavano la figura mitologica dell’arpia. Nonostante l’evidente giovane età, l’uomo che indossava questa spettrale corazza aveva i capelli grigi ed un colorito molto pallido; le labbra ed il naso erano fini e sottili mentre gli occhi, al contrario, erano grandi e spiritati.

Gordias si pose immediatamente a protezione dei due gemelli. Da un lato non poteva tollerare che si usasse violenza contro dei bambini e da un altro temeva che Hermos, per difendere la sorella, scatenasse nuovamente quell’immenso ed ancora incontrollabile potere che aveva dimostrato di possedere a Ioannina durante lo scontro con Zelos.

Valentino si dimostrò però sin da subito tanto determinato a portare a termine la sua missione quanto spietato. Non risparmiando le energie derivanti dal suo potente cosmo nero, prese a offendere la sua vittima predestinata con una pioggia di colpi che, come gli artigli di un feroce rapace, ferivano in profondità la pelle del povero Gordias che nobilmente fece scudo con il proprio corpo in difesa dei due piccoli.

Il cretese schizzava sangue ad ogni ripetizione dell’attacco di Valentino il quale pareva quasi non voler affondare i propri artigli più di tanto quasi a voler giocare con la sua vittima per prolungare il proprio divertimento il più lungamente possibile.

La schiena e le spalle di Gordias erano madide del suo stesso sangue ed il cavaliere sentiva ormai le forze abbandonarlo; ciò nonostante non smetteva di offrire il dorso agli attacchi dello spettro e di tenere al contempo stretti tra le braccia Hermos ed Ofiuco.

Quando sentì di essere giunto al limite, finalmente udì le voci amiche di Atthia e Theodote chiamare il suo nome a gran voce.

Valentino smise di attaccarlo riuscendo a nascondersi nell’ombra giusto un istante prima che Atthia varcasse la soglia della caverna.

Il nemico vide sfrecciargli davanti i due cavalieri e fu abilissimo a colpirli alle spalle con il massimo della forza. Sia Alexandros che lo spartano, essendo stati colti di sorpresa, non poterono minimamente parare l’attacco di Valentino finendo così per rovinare al suolo a loro volta sanguinanti e storditi al limite della perdita dei sensi.

La distrazione dello spettro però diede a Gordias l’opportunità di liberare dal proprio abbraccio i due gemelli e di tentare di colpire l’avversario. Spalancando le braccia, il toro di Creta diede fondo a tutte le sue energie che vennero concentrate in un unico e poderoso affondo. Valentino ne fu investito completamente finendo per schiantarsi con fragore contro una delle pareti di dura roccia della caverna.

L’impatto di notevole portata fece sì che parte della sua armatura andasse in pezzi ma evidentemente le ferite riportate da Gordias lo avevano indebolito al punto da non consentirgli di eliminare definitivamente il nemico.

Valentino scoppiò in una risata e beffardamente decretò la sentenza di morte per tutti i presenti:

- Maledetti, come avete osato levare la vostra mano su di me. E’ finito il tempo di giocare con voi. Preparatevi a morire, infliggerò un colpo mortale a testa iniziando da quei due insulsi e piagnucolosi infanti.

Hermos si pose davanti alla sorella indietreggiando di qualche passo mentre Valentino procedeva inesorabilmente verso di loro. Gordias, disteso a terra in una pozza di sangue, lo afferrò per una caviglia nel disperato tentativo di impedirgli di raggiungere i gemelli; ciò che rimediò fu soltanto un calcio sulla mandibola e un "con te ci vediamo tra un attimo".

Valentino stava quasi per alzare la mano su Hermos quando una freccia, anche se non produsse alcun danno ed addirittura rimbalzò sul metallo, lo colpì sull’armatura.

«Chi osa» disse sotto voce ruotando il capo in direzione dell’ingresso della caverna e con uno sguardo tracimante d’odio.

Là vi erano altri due ragazzi di cui il più giovane teneva in mano un arco in legno pronto a scoccare una seconda freccia.

Non curandosi più di tanto di questi nuovi venuti, Valentino esplose un colpo poderoso nei loro confronti.

Angeliaforos afferrò per un braccio Heliodoros spostandolo con una velocità inaudita dal fascio luminoso prodottosi dall’attacco dell’avversario.

Quest’ultimo, sicuro che il proprio affondo fosse giunto a destinazione, girò nuovamente il capo riportando la propria attenzione sui gemelli.

Il quel breve lasso di tempo Angeliaforos porse una freccia dorata a Heliodoros.

«Trova il cosmo dentro di te e colpisci il nemico con questa» lo esortò.

Il pensiero di dove Angeliaforos avesse trovato quell’arma dorata, di dove l’avesse tenuta nascosta sin ora e di cosa intendesse dicendogli di trovare questo cosmo di cui anche Atthia gli aveva fatto cenno, gli sfiorò la mente solo per un breve istante; compiere l’estremo tentativo di salvare i bambini ed il resto del gruppo era ora la sua priorità.

Heliodoros afferrò l’oggetto, lo incoccò sull’arco e ne tese la corda; in quel preciso momento avvertì un calore sbocciargli nel petto che, in un solo attimo, gli attraversò la spalla, il braccio e la mano con cui stava tendendo l’arco. Intuì che questo sconosciuto potere camminò lungo il metallo giallo della freccia sino a giungere sulla punta di essa. Come ogni arciere, Heliodoros inspirò profondamente e, una volta messo a fuoco l’obbiettivo, lasciò la presa sulla corda tesa e librò il colpo mortale in direzione del nemico.

La freccia dorata sibilò nell’aria seguita al suo passaggio da una sorta di scia luminosa; la rapidità con la quale giunse a destinazione non lasciò a Valentino nemmeno il tempo di concludere un respiro dato che lo spettro fu prima trafitto esattamente al centro della schiena e poi attraversandolo da parte a parte.

Hermos ed Ofiuco sentirono il sibilo del dardo passare non troppo al di sopra delle loro teste e, una frazione di secondo dopo, il suono dello stesso che si conficcava nella roccia.

Valentino stramazzò ai loro piedi privo di vita.

Heliodoros si precipitò in loro direzione per sincerarsi che stessero bene, dopodiché si preoccupò di Gordias. In quel momento anche Atthia ed Alexandros si ridestarono ed accorsero a loro volta in soccorso del compagno ferito.

Il toro di Creta, anche se mal concio, sorrideva.

Scherzando con Atthia, seppur in una smorfia di dolore, non perse né il suo buonumore né quello spirito protettivo che nutriva nei confronti dei due piccoli:

- Pare che ne abbiamo trovato un altro, che ne pensi spartano? I bambini, stanno bene?

Atthia annuì sorridendogli, poi fece cenno ad Alexandros di portargli tutto quanto poteva essere loro utile per medicare il compagno.

Heliodoros infine cercò con lo sguardo il solo che ancora non era giunto al capezzale di Gordias ma Angeliaforos pareva essere scomparso in modo misterioso così come misteriosamente era entrato a far parte di quest’avventura.