CAPITOLO XVIII
Il viaggio verso Vòlo fu molto più lungo in termini di tempo rispetto a quello dell’andata. La condizione fisica di Chrysante infatti impediva al gruppo di pellegrini di muoversi liberamente quando il sole era alto nel cielo. Theodote e Demetrios furono quindi costretti a mettersi in marcia solo all’imbrunire e durante il corso della notte. Nonostante tutto, quando finalmente giunsero al porto, l’Athena era ancora ben ormeggiata alla banchina così come l’avevano lasciata ben quattro mesi prima.
«Hai visto che i nodi erano fatti a regola d’arte?» esordì Theodote prendendosi gioco dell’amico.
«Sì certo, come vuoi tu, ma a mio avviso è stata solo una questione di fortuna» ribatté Demetrios il quale, in cuor suo, tirò un profondo sospiro di sollievo del vedere la sua imbarcazione sana e salva. Durante tutto il tempo passato a Meteora infatti il suo pensiero era volato in più di un’occasione alla sua nave per la quale aveva costruito scenari a dir poco catastrofici; alcune volte l’aveva immaginata alla deriva in alto mare preda dei flutti e delle intemperie, altre volte invece l’aveva vista vittima di furti o di atti di vandalici ad opera di predoni o pirati, altre volte infine aveva avuto osceni incubi in cui misteriosi cavalieri neri le avevano appiccato il fuoco e lasciata, tra lo scoppiettare del fasciame ed i fumi delle vele, crollare su se stessa. Fortunatamente l’Athena era in perfetta salute ed il suo capitano provò nel rivederla quella stretta alla gola che un soldato di ritorno dalla guerra prova nel riabbracciare dopo lungo tempo la propria amata.
Mentre Theodote si fece carico di andare a far provviste, Demetrios si occupò d’ispezionare ogni angolo della nave per sincerarsi che effettivamente tutto fosse in perfetto ordine. Il viaggio sino alla meta indicata da Chrysante, che, dato il sorgere del sole, si ritirò nella stiva, era lungo, impegnativo e privo di tappe intermedie. Per tanto la nave doveva essere in condizione di reggere il mare per lungo tempo e di condurre i tre cavalieri sino a Mitilene senza intoppi.
Una volta che i viveri furono ben stivati all’interno della pancia della nave e che il capitano diede il segnale al suo mozzo di spiegare le vele, l’Athena prese il largo in una giornata di inizio settembre dove il mare era calmo, il cielo era tinto di un azzurro intenso ed il vento soffiava da poppa facendo scivolare leggero tra i flutti lo scafo dell’Athena.
Nello stesso momento e in un luogo dove il vento era caldo e pervaso dall’odore della morte ed il cielo non era cielo ma una volta di fiamme e sofferenza, i tre giudici infernali attendevano proni l’arrivo del loro signore.
Nella sala del trono del palazzo di Hades, una scala in marmo grigio racchiusa tra due immense sculture di mostri alati e dalle bocche fameliche conduceva sino al seggio reale costruito in osso, oro e velluto purpureo dove, a breve, sarebbe giunto a prendervi posto il Dio degli inferi in persona.
Rhadamanthys, Aiacos e Minos conoscevano perfettamente la ragione per la quale erano stati chiamati a rapporto dal loro padrone e per tanto solo un reciproco gioco di sguardi era sufficiente a far loro intendere quanto grande fosse il timore della ripercussione su loro stessi dei fallimenti dei loro sottoposti.
L’attesa non durò a lungo: Hades fece il suo ingresso nella grande sala da dietro un tendaggio dello stesso colore del tessuto che foderava la seduta e lo schienale del trono. Con passo deciso il Dio raggiunse il centro del pulpito ma, contrariamente alla consuetudine, non appoggiò le proprie membra sulla reale scranna. Hades, vestito con un chitone nero adornato da un drappo viola, era evidentemente scuro in viso. Le labbra serrate, contratte e nascoste tra la peluria dell’ispida barba corvina così come gli occhi iniettati di sangue non lasciavano presagire nulla di buono per le tre più alte cariche delle sue schiere infernali.
Solo Rhadamanthys osò leggermente levare lo sguardo da terra ma un’occhiata dura e mortificante lo obbligarono a ripercorrere all’indietro i movimenti del suo ardito gesto.
Hades posava a turno con fare intimidatoria la vista sopra uno dei tre giudici, non proferiva parola alcuna e, nel silenzio glaciale della sala, il solo suono a riecheggiare era quello del suo respiro ammantato dall’ira.
Era proprio quel silenzio che, come un masso ed una colpa insostenibile, gravava sulle spalle dei tre inginocchiati e pesava sulle loro coscienze al punto da farli temere per le loro stesse vite.
Dopo attimi che sembrarono millenni, finalmente Hades spezzò quell’insopportabile attesa:
- Incapaci! Siete un branco di incapaci! Voi tre dovreste essere il meglio del mio esercito, mi sono affidato alle vostre capacità per risolvere rapidamente e con la minor eco possibile questa spinosa questione ma siete stati solo in grado di mandare sulla Terra un manipolo di pusillanimi che non solo sono stati spazzati via dai dei principianti, ma che senza dubbio saranno riusciti nell’ardua impresa di attirare gli occhi dell’Olimpo sugli uomini di Athena che per tanto perseverano ad attraversare la Grecia reclutando di volta in volta altri vermi della loro risma.
«Mio signore, perché allora non invii uno di noi tre ad uccidere questi maiali? Un solo giudice infernale sarebbe sufficiente per macellare ogni cavaliere o aspirante tale che ancora ha l’ardire di posare il piede sul suolo greco» lo interruppe Rhadamanthys che ricevette uno sguardo da parte di Minos che non pareva dire null’altro se non «chiudi quella dannata bocca».
Hades discese la scalinata con una rapidità tale da far quasi immaginare che si fosse staccato di un palmo dal marmo grigio dei gradini di essa, raggiunse il giudice che aveva osato veramente troppo, si chinò sopra di lui e, afferrandolo con la mano alla gola, lo sollevò da terra come se, nonostante la statura, la corpulenza e il peso stesso dell’armatura che indossava, fosse un fuscello d’ulivo.
Ringhiando, il Dio degli inferi sembrò penetrare con uno sguardo fiammeggiante l’anima stessa dell’inerme Rhadamanthys:
- Allora oltre che un incapace sei anche uno stupido? Credi che se Zeus non avesse imposto il divieto assoluto di interferire nelle questioni della sua adorata figlia attraverso i Santi, non ci sarebbe già stata qualche divinità olimpica che non avrebbe resistito alla tentazione di metterle i bastoni tra le ruote? Devo inoltre rammentarti come l’intero Olimpo e Zeus stesso non siano a conoscenza del fatto che, nascosto tra le fiamme dell’inferno, io abbia messo in piedi un vero e proprio esercito al mio servizio? I fallimenti dei vari spettri che voi avete scelto con evidente lassismo per affrontare anzitempo i cavalieri di Athena prima o poi arriveranno all’orecchio delle più alte schiere olimpiche ed allora le insinuazioni mosse nei miei confronti dalla Dea della giustizia in occasione della riunione durante la quale tutto ciò è iniziato avranno senza dubbio alcuno un altro peso specifico. Se a causa della vostra inettitudine Zeus e Poseidone dovessero porsi una domanda di troppo e trovare la voglia di voler indagare più approfonditamente sugli affari del regno degli inferi dei quali normalmente si disinteressano completamente, stiate certi che prima che cada la mia per aver agito alle spalle dei miei fratelli, le prime teste a rotolare saranno proprio le vostre.
Detto ciò Hades trasmise una scarica elettrica degna di Zeus in persona sul malcapitato giudice che, con la mano del suo Dio stretta al collo, aveva appena ricevuto il rimprovero.
Rhadamanthys ed il suo orgoglio tentarono vanamente di non urlare per il dolore ma, dopo solo un paio di istanti di punizione divina, non poterono resistere al quella scossa che, con una potenza ed una determinazione inimmaginabile, gli stava pervadendo in profondità tanto il corpo quanto l’anima.
Il giudice infernale pareva scosso da una forza tale da bruciargli la carne dall’interno e giunse quasi al punto di perdere i sensi. A quel punto Hades allentò leggermente la presa dal collo della sua vittima, la osservò con sdegno ed infine la lanciò a qualche metro di distanza come si potrebbe fare con cencio liso e sporco di cui non si ha più bisogno.
Quando lo sguardo infuocato del Dio si posò sui due giudici restanti, Aiacos e Minos furono certi che il triste destino appena occorso al compagno si sarebbe inesorabilmente abbattuto con la medesima irruenza anche su di loro di lì a pochi attimi. Un brivido gelido passeggiò sulle loro schiene.
Con grande stupore e sollievo però Hades non li colpì ma si limitò a pronunciare con tono perentorio la seguente sentenza:
Una possibilità! Vi voglio concedere ancora una sola ed unica possibilità! Scegliete i migliori soldati a vostra disposizione e stroncate una volta per tutte l’assurda idea di Athena di potersi presentare al cospetto degli Dei dell’Olimpo con il suo manipolo di cavalieri. Che i vostri incaricati siano rapidi e silenziosi: voglio ricevere solo l’informazione del buon andamento della missione che vi sto affidando standomene comodamente seduto sul mio trono. Badate bene a ciò che fate e a chi assegnerete l’incarico perché se anche questi ultimi falliranno non resterà che attendere che Athena ed i suoi cavalieri si presentino all’appuntamento con la sfida tra poco meno di sette anni. Nel frattempo non vi priverò della vita perché quantomeno sarò io stesso obbligato a presentare uno di voi tre in vece di mio Santo ma siate certi che, nell’attesa, i patimenti a cui vi sottoporrò saranno tanto per me un piacere quanto per voi qualcosa che vi farà supplicare di porre definitivamente fine alle vostre sofferenze nel minor tempo possibile.
In una terra sconosciuta ed inimmaginabile, Patros stava contemplando lo splendore di quelle montagne così alte e maestose da non poter essere sfiorate nemmeno lontanamente dalla fantasia e dal pensiero di un semplice uomo greco quale lui era. La tunica ed i sandali erano stati rimpiazzati da delle pesanti vesti di lana e a degli stivali di cuoio imbottiti del pelo di quegli strani bovini che gli abitanti del luogo chiamavano yak. Solo il mantello era rimasto lo stesso ma ora veniva utilizzato più che per darsi un tono o per ripararsi dalle rare piogge cui era abituato, per proteggere il capo e la gola da quel vento instancabile che, tra le rocce scoscese ed i crepacci nascosti dai ghiacci eterni, spirava senza sosta.
Era già qualche settimana che il cavaliere si aggirava tra quei luoghi tanto magnifici quanto impervi, aveva passato alcune notti in un paio di piccoli villaggi abitati da genti semplici ed ospitali e che, nate tra le braccia di quelle cime, conoscevano ogni singolo sasso di quei luoghi. Nonostante le difficoltà a capire la loro lingua, Patros riuscì a comprendere con sua somma delusione che nessuna delle persone incontrate lo avrebbe potuto aiutare o quantomeno ben indirizzare verso il compimento della sua missione.
Il solo strumento in possesso del cavaliere restava il proprio cosmo che in effetti, sin dal primo istante successivo al suo arrivo nello Jamir, aveva preso a pizzicare come a voler richiamare la sua attenzione verso un luogo che nessuno vedeva, che nessuno conosceva ma che egli era chiamato a scovare per volontà della Dea Athena.
La traversata del Mar Egeo fu abbastanza semplice: Chrysante passava le ore diurne al riparo dell’ombra nella stiva dell’Athena mentre Theodote migliorava le proprie conoscenze marinaresche sotto l’abile guida di Demetrios, il vento spirava forte gonfiando la vela della nave che, leggera come una foglia, navigava veloce tra i flutti dell’immenso blu. Nonostante le perfette condizione del clima, tra la partenza da Meteora e l’arrivo al porto di Mitilene passarono ben due mesi.
L’Athena approdò una sera di fine ottobre.
Quando il trio di cavalieri mise piede sul suolo dell’isola di Lesbo, parve chiaro sia a Theodote che a Demetrios come Chrysante sembrasse sicuro e determinato in merito al da farsi.
L’albino infatti non indugiò sulla banchina nemmeno per un solo istante e diresse il proprio passo verso l’interno della città. Tra una via ed una piazza uscì poi dal centro cittadino andando ad imboccare una strada di ciottoli bianchi che, accompagnata da filari di alti e scuri cipressi, conduceva verso la sommità della montagna che faceva da sfondo alla città di Mitilene. Solo quando raggiunse l’ingresso di un vecchio cimitero, Chrysante diede l’impressione di aver trovato finalmente un attimo di tranquillità dopo l’instancabile ed incessante scalata che, seguito dai due compagni come se fossero le sue personali guardie del corpo, lo aveva condotto sino in quel luogo così cupo quanto ammirabile per la spettacolarità della vista che dalla sua altura offriva al visitatore.
Una voce provenne dall’oscurità scuotendo i loro spiriti:
- Amici o nemici?
Theodote si mise immediatamente sulla difensiva ma Chrysante gli fece segno con la mano tesa di abbassare la guardia.
«Sei Chrysante?» chiese la voce nel buio.
L’albino avanzò di qualche passo, poi rispose:
- Sì, questo è il mio nome e la eco del tuo cosmo mi racconta che i nostri spiriti si sono già incontrati in precedenza.
Da dietro una lapide fece capolino un uomo magro e dai capelli corti che sorridendo tese la mano prima all’albino e poi ai suoi compagni. Nella sua andatura vagamente ciondolante dava l’impressione di essere intento ad ascoltare la voce o di fissare qualcuno che agli occhi dei cavalieri risultava completamente invisibile.
«Benvenuti stranieri, vogliate perdonarmi se vi accolgo in questo luogo non particolarmente felice ma in città non sono ben visto. La gente di Mitilene dice che sono un po’ pazzo poiché parlo con gli spiriti; questo non dovrebbe però spaventarvi, dico bene? Se siete giunti sin qui per incontrarmi significa che anche voi non siete proprio dei tipi comuni e soprattutto che qualcosa di molto più sinistro di me incombe su tutti noi. Credo che avremo modo di conoscerci meglio nei giorni che verranno ed immagino che a breve saremo chiamati a rischiare la nostra stessa vita per fare in modo che questa minaccia non si abbatta sui destini dell’intera umanità. Nel frattempo sarò ben lieto di avere da voi qualche spiegazione in più dato che sin ora gli unici a sussurrarmi qualcosa in merito sono stati solo gli spiriti dei morti.
Detto ciò, questo curioso personaggio parve distrarsi e tendere nuovamente l’orecchio verso il suo invisibile interlocutore.
«Come dite? Non mi sono ancora presentato? Avete ragione, sono il solito distratto ma rimedio immediatamente».
L’uomo riposò lo sguardo sui tre cavalieri, dopodiché sorrise loro e, con un piccolo inchino, disse:
- Costa di Mitilene, l’uomo che parla con i morti, si mette al vostro servizio.
Appena al di fuori della bocca degli inferi, Aiacos era ancora molto scosso per le dure accuse subite da parte del suo Dio. Non poteva tollerare che gli fosse stato mosso un rimprovero del genere per colpe che non erano a lui direttamente imputabili ed ancor meno non poteva sopportare che l’ombra del fallimento si fosse posata sulla sua reputazione. Aiacos era indubbiamente tra i tre Giudici infernali il più orgoglioso ed allo stesso tempo egoista: per lui il successo e la gloria personale avevano un peso ed un valore forse addirittura superiori alla fede riposta in Hades stesso. Inoltre l’alta considerazione che aveva di sé lo facevano sentire ben al di sopra di qualsiasi altro elemento dell’armata infernale e, forse per questa ragione, mal tollerava anche gli altri due giudici suoi pari. Rhadamanthys era per lui un eccellente guerriero ma era al medesimo tempo considerato uno sciocco capace solo di dimostrare le proprie capacità sul campo di battaglia, parlare di tattica o di politica con Rhadamanthys era completamente tempo perso; Minos invece, se paragonato al primo, era senz’altro un compagno scaltro ma l’assoluta e servile fedeltà sempre platealmente palesata nei confronti del Dio lo facevano apparire come un viscido lacchè o come il cagnolino da passeggio che sempre e comunque seguirà il padrone senza osare levare lo sguardo da terra.
Aiacos, che era un uomo molto alto e dai lunghissimi capelli neri e lisci, aveva appena dismesso la propria armatura ed era intento a legare la chioma che di norma gli ricadeva sul viso coprendo quegli occhi così verdi e spiritati che, al centro di un viso fine e dalla carnagione candida, spiccavano come due fuochi accesi nella nebbia, quando vide in lontananza una figura incappucciata in avvicinamento.
«Chi oserebbe mai passeggiare nei pressi dell’ingresso dell’inferno?» domandò a sé stesso.
Il giudice decise di appoggiare al suolo lo scrigno contenente l’armatura e di attendere seduto su di esso il sopraggiungere di quell’insolito visitatore.
Quando costui fu più vicino, Aiacos intuì dalle forme, anche se ben celate dal mantello e dal copricapo, e dalla statura che doveva trattarsi di una donna.
Quest’ultima, a pochi passi di distanza dal servo di Hades, non abbassò il cappuccio ma l’esibire il suo volto obbligò Aiacos ad inginocchiarsi repentinamente ai suoi piedi.
«Mia signora, perdonate la mia insolenza, non vi avevo riconosciuta» disse il giudice con tono sommesso e con lo sguardo rivolto al suolo.
«E così deve essere! La mia presenza in questi luoghi deve restare celata e per tanto alzati immediatamente e fingi di parlare con una persona qualunque» lo incalzò la donna accompagnando la propria esortazione con un veloce cenno del braccio.
Aiacos riacquistò la posizione eretta ma non trovava né il coraggio né la forza di reggere lo sguardo di quel tanto inaspettato quanto inconsueto incontro.
All’ombra proiettata dal cappuccio gli occhi neri e vivaci di una donna matura ma dai lineamenti ancora eleganti e giovanili se pur rigati da qualche ruga ai lati della bocca e sul limitar delle palpebre lo stavano squadrando da capo a piedi. Un ricciolo scuro macchiato dalla presenza di qualche capello bianco che fuoriusciva dallo scollo del mantello era la sola testimonianza di una chioma folta e finemente acconciata. In linea generale, anche se Era, la Regina degli Dei, dimostrava con il suo aspetto la propria maturità, la sua beltà, il suo portamento e la sua eleganza non avevano nulla da invidiare alla giovane e fresca bellezza della stessa Afrodite.
Era prese la parola e, senza indugiare più del necessario, spiegò ad Aiacos la ragione che l’aveva spinta sino alla bocca dell’Ade:
- Come avrai intuito, la mia presenza qui non è casuale. Se sono segretamente discesa dalla cima dell’Olimpo vi è una motivazione ben precisa che dovrebbe fare preoccupare te ed il tuo signore. Ebbene devi sapere, o giudice infernale, che i recenti avvenimenti sono il frutto di un mio ambizioso disegno nato dal saper cogliere un’occasione che mi si è propiziata. Se Zeus in persona si compiace del suo potere e del suo ruolo di Re degli Dei oziando e non curandosi di ciò che gli accade intorno poiché la sua arroganza e la sua saccenza non gli consentono nemmeno di immaginare quanti e quali cose sfuggano al suo controllo ed al suo fulmine, prendi atto che al contrario la Regina degli Dei ha occhi e orecchie dappertutto. Credi forse che io non sia venuta a conoscenza del fatto che Hades abbia segretamente messo in piedi un suo personale esercito che esula abbondantemente di numero da Rhadamanthys, Minos e te? Se il Dio degli inferi ha creduto ciò, sappi che stai servendo uno stolto. Ciò nonostante ho taciuto a Zeus il mio sapere attendendo di sfruttare eventualmente a mio vantaggio questo peccatuccio di suo fratello. Sai quando l’utilità del segreto di Hades si è magicamente materializzata? Quando quella stupida di Athena ci ha convocati in Olimpo e, oltre alle sue assurde richieste, ha tirato in ballo il tuo signore pizzicandogli un nervo scoperto. Se ben ricordi infatti Hades non ha fin da subito preso con leggerezza le affermazioni della Dea della giustizia e le si è schierato contro con accesa fermezza. E’ stato allora che ho saputo essere così scaltra da suggerire all’orecchio di mio marito l’idea di sottoporre i cavalieri di Athena a questa prova. Sapevo che Hades, per proteggere il suo segreto, avrebbe lasciato intervenire il suo esercito. Facevo conto però sulla certezza che i suoi uomini avrebbero spazzato via quegli stupidi mortali mettendo così in ridicolo Athena e, nella migliore delle ipotesi, portandola a rinunciare ai suoi propositi, di scegliere di vivere sulla terra definitivamente come una semplice mortale e dunque di liberare l’Olimpo dalla sua odiosa presenza.
Il problema è che le schiere di Hades si sono dimostrate un manipolo di incapaci mentre gli adepti di Athena si stanno incensando di gloria e diventando realmente delle possibili minacce. Per tanto ho deciso di scendere in campo personalmente dandovi un aiuto che metterà fine a questa insulsa storia.
Dicendo ciò, Era estrasse dalla manica una piccola scatolina di legno nero e la consegnò alle mani di Aiacos, poi proseguì:
- Ascoltami con attenzione: questo minuscolo scrigno contiene una trappola nella quale ho infuso buona parte del mio potere. Affidalo ad un tuo sottoposto ed invialo laddove si nasconde la stessa Athena. Solo allora egli dovrà liberare l’insetto celato all’interno della scatola che, attratto dal cosmo divino, si dirigerà da quella insolente. Il veleno della puntura non la ucciderà poiché comunque ella resta una Dea ma la farà sprofondare in un sonno lungo decenni.
Eliminata la loro guida, i cavalieri non avranno più ragione di esistere così come i loro stupidi ideali e la loro assurda missione.
Ti è tutto chiaro, giudice?
Aiacos annuì.
«Molto bene, vedi di non deludermi e sappi che se farai parola del nostro incontro con chiunque, anche con Hades stesso, farò in modo che l’ira dell’intero Olimpo si abbatta su di te» sentenziò infine Era.
Mentre la Dea stava per ripercorrere i suoi stessi passi, Aiacos ebbe l’ardire e la curiosità di chiedere:
- Mia Regina, non discuto i vostri ordini e condivido le vostre intenzioni ma permettetemi di chiedervi il motivo che vi spinge ad odiare così profondamente la Dea Athena.
Era schioccò le labbra in segno di evidente dissenso, poi si degnò di rispondere al giudice:
- Non ti è chiaro? Odio Athena per una ragione che detesto ammettere è molto più umana che divina: la gelosia! Ares ed Efesto sono i miei figli e li amo come ogni madre dovrebbe amare la propria prole ma Apollo, Artemide, Dioniso, Afrodite, Hermes e, per l’appunto Athena, sono tutti la tanto vergognosa quanto evidente dimostrazione dei tradimenti di Zeus nei miei confronti. Apollo, Artemide e Afrodite, nonostante non discendano direttamente dal mio ventre, mi sono molto affini e, anche se non esiterei un istante ad eliminarli con le mie stesse mani se minacciassero la mia diretta discendenza, li tengo in una certa considerazione, Dioniso è solo un ubriacone buono a nulla, Hermes mi è indifferente anche se ultimamente il suo atteggiamento protettivo nei confronti della Dea della giustizia mi sta notevolmente infastidendo ma Athena è completamente diversa da tutti gli altri. Caratterialmente è il ritratto di Zeus: fiera e determinata ma al contempo è anche saggia e generosa. Forse è per queste ragioni che suo padre la ama sopra ogni altra creatura ed io questo non lo posso tollerare. Athena è una minaccia e va eliminata! L’occasione è una di quelle da non lasciarsi sfuggire. Ti ripeto, Aiacos, usa a dovere il contenuto di quella piccola scatola e mantieni il totale riserbo in merito a questo nostro incontro. Non ci rivedremo mai più.
Dopo settimane di incessante ricerca e di pericolose scalate tra rocce acuminate e ghiacci eterni, Patros iniziava a patire la stanchezza, la solitudine e l’amarezza per non essere ancora riuscito a raggiungere l’agognato obiettivo che si era preposto. In una limpida mattina però avvertì nitidamente il proprio cosmo indicargli la strada da seguire: sotto un sole bruciante un sentiero largo meno di uomo adulto si inerpicava lungo il fianco della montagna. Mano a mano che il percorso andava salendo di quota, buona parte delle rocce su cui Patros poteva appoggiare i piedi era ricoperta dalla neve e dal ghiaccio, sulla sua destra la roccia era viscida e priva di appigli, sulla sua sinistra una profonda gola completamente rivestita da una lunga lingua di ghiaccio azzurro, andava terminando dentro un crepaccio del quale non si riusciva a vedere il fondo. L’aria rarefatta tagliava il fiato al cavaliere ed il sole a quella quota pareva bruciargli la pelle ad ogni passo. Il richiamo di un’aquila attirò la sua attenzione facendogli volgere lo sguardo verso il cielo. Patros fu abbagliato dall’eccezionale forza della luce solare e per un attimo perse la presa dal masso al quale si era appoggiato; mettendo un piede sulla neve dura perse l’equilibrio e, nel fugace tempo di un attimo, scivolò su quell’immenso costolone ghiacciato. Quando si rese conto di ciò che gli stava accadendo ormai era troppo tardi: dopo essere precipitato lungo il fianco scosceso della gola, il buio del crepaccio stava già accompagnando la sua caduta verso la fine.
Alcune ore dopo Patros riprese i sensi, avvertiva le gambe e le braccia intorpidite ed un dolore acuto alla testa. Si toccò il capo con la mano che si sporcò del suo stesso sangue. Lo scrigno in legno che conteneva l’armatura dell’unicorno era fortunatamente rimasto intatto così come la preziosissima bottiglietta contenente il sangue della Dea. Il cavaliere abituò gli occhi all’oscurità; si trovava dentro ad una caverna buia, calda e umida e, in un primo momento, si convinse di essere morto e di trovarsi in qualche remoto angolo dell’Ade. Volgendo lo sguardo verso l’alto nel tentativo di esplorare almeno con la vista quel tetro anfratto riconobbe però uno scorcio di quell’azzurro del cielo sopra la montagna, sopra la lingua di ghiaccio, sopra al crepaccio e ben al di sopra del luogo oscuro in cui era precipitato.
Per quanto la situazione gli paresse complicata, il cavaliere si rasserenò per il fatto di non aver quantomeno abbandonato le sue spoglie mortali.
Raggiungere l’imbocco del crepaccio e tentare la risalita del ghiacciaio era impresa impossibile ed anche la telecinesi non sembrava misteriosamente sortire effetto, quindi la sola soluzione praticabile era quella di addentrarsi ancora di più nelle profondità di quella caverna in cerca di una seconda uscita; se ciò non fosse accaduto la morte che lo aveva risparmiato durante la caduta sarebbe venuta a fargli visita di lì a qualche giorno.
Mano a mano che Patros si addentrava in profondità, la temperatura andava aumentando; prese a sudare copiosamente nonostante si fosse liberato anzitempo del pesante abbigliamento che lo aveva riparato dal freddo delle montagne.
Patros di domandò più volte se non avesse effettivamente scovato uno degli ingressi degli inferi dato che camminava a tentoni senza sosta nelle profondità della terra avvertendo il calore aumentare ad ogni passo in avanti che faceva ed uno strano bagliore che, da un punto ancora lontano, gli forniva almeno quel poco di luce utile a non procedere completamente alla cieca.
Non senza sforzi raggiunse infine la fonte di quella fonte luminosa.
Con suo sommo stupore ciò che produceva la luce che lo aveva guidato sin lì era la roccia stessa che, all’interno di un anfratto molto più ampio del cunicolo appena percorso, pareva imbevuta dell’essenza dell’universo stesso. Nonostante si trovasse nelle profondità della terra, sopra la sua testa pareva vi fosse una volta celeste completamente ricoperta di minuscoli punti luminosi simili a stelle.
«Che forse io abbia miracolosamente raggiunto la mia meta?» si domandò l’incredulo cavaliere che in quel preciso momento avvertì tutto il potere del suo cosmo bruciargli nel petto.
C’era una sola cosa fare, disse a se stesso.
Patros estrasse i pezzi della sua armatura dallo scrigno e li dispose con ordine al suolo, poi grattò parte di una roccia della parete con la piccozza della quale si era servito nelle settimane precedenti. La pietra si sgretolò agilmente sotto ai suoi colpi trasformandosi in una polvere nera ricca di quelle molecole minerali così brillanti. Ne raccolse una manciata tra i palmi delle mani e la spalmò con cura sopra all’intera superficie dell’armatura, dopodiché estrasse la bottiglietta contenente il santo sangue di Athena e ne versò poche gocce in corrispondenza di quelli che, se disegnati sulla bronzea area dell’armatura, sarebbero idealmente stati i punti corrispondenti alle dieci stelle principali della costellazione. Infine, utilizzando una seconda volta la piccozza, ribatté con vigore quegli stessi punti. Ciò che accadde pochi istanti dopo l’ultimo rintocco del suo strumento fu qualcosa di talmente incredibile e magico che Patros e tutte le eventuali future generazioni di cavalieri non avrebbero mai potuto o dovuto dimenticare.
Quello che sino a pochi attimi prima era del semplice metallo prese a brillare e a bruciare come se un’anima umana si fosse impossessato dei suoi immobili atomi. Patros avvertì il proprio cosmo elevarsi ad un livello mai raggiunto prima ed entrare in totale armonia con l’armatura stessa che ora dava l’impressione a tutti gli effetti di avere assunto una propria vitalità.
Quest’ultima infine, in un bagliore quasi accecante, si alzò autonomamente da terra andando a comporre a mezz’aria quella che sembrava essere la forma di un vero unicorno, le dieci stelle si illuminarono come fuochi, poi l’armatura si ridivise nei suoi diversi componenti che, con la rapidità di un fascio di luce, andarono a posarsi al corpo di Patros.
Il cavaliere sentiva ora il suo cosmo scorrere nel bronzo della sua corazza e lo spirito della stessa fondersi con il suo essere.
Finalmente Patros comprese il significato e la veridicità delle parole che la sua Dea gli aveva sussurrato la notte prima della partenza per lo Jamir. Il potere della costellazione dell’unicorno batteva ora nel suo petto e questa stessa energia era oltremodo alimentata dal suo cosmo. Un connubio perfetto ed indissolubile era appena nato: Patros era il primo essere umano ad aver assaggiato a tutti gli effetti la vera essenza dell’essere un cavaliere della Dea della giustizia.