CAPITOLO XVI
Come ogni notte, Patros lavorava duramente in quell’esiguo spazio ritagliato sul fondo della stalla che il vecchio Akepsimas gli aveva concesso. Grondante di sudore e con la fronte che gli pareva fosse in procinto di incendiarsi, in quella torrida notte di fine estate e complice della sola compagnia della mucca che, ruminando, lo osservava con occhi disinteressati, il cavaliere era quasi al limite delle proprie energie fisiche e mentali. Ciò nonostante vedeva che sotto i colpi dei suoi strumenti da lavoro aveva ormai preso forma la prima delle armature che la Dea Athena pretendeva fossero prodotte entro i sette anni che li separavano dalla sfida ai Santi dell’Olimpo. Dato l’ultimo colpo di martello, Patros si soffermò ad osservare il risultato di poco più di tre mesi di sforzi estenuanti. Reperire i materiali, lavorare alla fattoria durante la giornata e nella sua piccola fucina la notte senza perdere mai d’occhio tanto la Dea quanto la famiglia che li stava ospitando e ai membri della quale si era ormai sinceramente affezionato, era stato un compito non affatto facile. L’esercizio nella tecnica della telecinesi gli aveva consentito quantomeno di spostarsi molto rapidamente da un luogo all’altro facendogli così risparmiare un’enormità di tempo che altrimenti avrebbe dovuto investire in inutili viaggi tra la masseria ed i mercati o le cave in cerca di tutto ciò che gli fosse utile per portare a termine il suo obiettivo. Inoltre la costante vicinanza di Athena ed il pensiero che continuamente volgeva ai suoi compagni sparpagliati per la terra di Grecia gli conferivano quella forza necessaria a superare i propri limiti.
Patros appoggiò il martello sopra all’incudine, si asciugò il sudore sulla fronte con il dorso della mano sporca di nera polvere di ferro e adagiò l’elmo, ultimo pezzo che componeva l’armatura, sopra al manichino di legno che aveva predisposto; fece un passo all’indietro ed osservò l’esito finale del suo operato.
Per la prima armatura aveva preso a modello il proprio fisico provando e riprovando le misure delle varie parti che la componevano sul suo stesso corpo; l’aver deciso di realizzare la sua prima opera per se stesso non lo rendeva particolarmente orgoglioso della scelta operata facendolo più volte sentire un egoista e portandolo, nei momenti più duri, sul punto di rifondere tutto nel fuoco e ricominciare daccapo l’intero lavoro plasmando un armatura per Atthia oppure per Theodote. In tutte queste occasioni non si era però fortunatamente lasciato né prendere dal panico né trasportare dalle emozioni e finiva sempre per dirsi da solo che la sua esperienza come fabbro non gli consentiva di essere in grado di produrre un qualcosa facendo affidamento esclusivamente alla propria memoria o alla propria immaginazione. Così facendo aveva portato a termine la produzione di quella sua armatura che, come quelle che sarebbero venute in seguito, aveva voluto intitolare ad una costellazione celeste.
Ciò che i suoi occhi stavano ammirando era una corazza in bronzo dalle fattezze molto semplici che nulla aveva a che vedere con le sacre armature che, senza che Patros potesse nemmeno lontanamente immaginarlo, le future generazioni di guerrieri avrebbero indossato grazie comunque all’inventiva e agli sforzi compiuti da un uomo vissuto agli albori della storia dei cavalieri votati alla Dea Athena e alla giustizia che ella rappresenta.
I gambali ed i bracciali erano di colore grigio con, laddove il metallo era stato maggiormente tirato a lucido, sfumature violacee, i copri spalle erano arcuati e molto geometrici, per la vita era stato previsto una sorta di gonnellino in lamelle di bronzo mentre il busto era avvolto da una lorica metallica che copriva interamente tanto la schiena quanto i pettorali, l’elmo infine era una sorta di casco che, attraverso la forma ed un unico spuntone situato al centro di esso, andava a richiamare la costellazione cui Patros aveva voluto dedicare la sua prima opera: l’unicorno.
Alle spalle del cavaliere un fruscio attirò la sua attenzione.
Voltandosi di scatto si trovò al cospetto della Dea.
«Athena, cosa fate in piedi a quest’ora della notte? Una stalla non è luogo che si addica alla vostra persona» domandò Patros con un leggero inchino del capo.
La Dea sorrise, poi avvicinandosi al giovane rispose con la consueta calma e gentilezza che la contraddistinguevano:
- Mio nobile cavaliere: ho già trascorso troppe notti a riposare mentre tu eri qui a romperti le mani e la schiena per realizzare parte dell’incarico che ti ho assegnato; ho ritenuto opportuno venire a darti il mio sostegno ed inoltre sapevo che eri quasi giunto al completamento del tuo primo capolavoro e quindi anche la curiosità ha fatto la sua parte nel strapparmi alle braccia di Morfeo.
Athena superò la sagoma di Patros mentre ancora stava parlando mettendo così piede all’interno del piccolo spazio in cui il suo cavaliere aveva appena riposto l’armatura dell’unicorno.
Vedendo il frutto del lavoro di Patros, la Dea sorrise compiaciuta e, accarezzando l’ancora tiepido metallo della corazza, si rivolse nuovamente al suo cavaliere:
- mi congratulo con te Patros, hai fatto davvero un lavoro eccezionale, quest’armatura è meravigliosa e non vedo l’ora di vedertela indossare; ciò nonostante, per quanto robusta e ben costruita possa essere, non potrà reggere nemmeno un solo istante sotto ai colpi ed al potere dei Santi dell’Olimpo poiché essa è ancora un involucro, se pur bellissimo, privo di essenza vitale.
Le parole della Dea risuonarono nelle orecchie e nella mente di Patros come una spietata sentenza che non lasciava dubbi o libertà di interpretazione in merito al suo fallimento. Un’espressione di profonda delusione che non fu minimamente capace di mascherare si dipinse sul volto del giovane.
Accortasi di ciò, Athena ritornò immediatamente sui propri passi andando ad abbracciare Patros il quale avvertì l’umidità nata a causa del calore del fuoco sulla leggiadra pelle della Dea sulla propria, ebbe il desiderio di stringerla a sé ma non osò tanto. Athena gli prese poi il volto tra i palmi della mani e si scusò:
- Perdona le mie parole, nobile cavaliere! Evidentemente mi hai fraintesa, avrei dovuto specificare che attualmente questa armatura è ancora priva di vita ma che presto gliela daremo insieme. Devi sapere che tutte le corazze possono avere una propria esistenza, una propria memoria ed una propria coscienza ma, per far sì che letteralmente esse prendano vita, è necessario che concorrano tre fattori distinti ed irrinunciabili.
Patros ascoltava con attenzione le parole della Dea della giustizia con la convinzione che nulla ormai lo avrebbe più stupito e che nulla era impossibile.
«Quali sono questi tre fattori?» chiese anche per un certo verso con sollievo.
Athena gli fecce cenno con la mano di mettersi comodo e di calmare la sua sete di conoscenza, poi gli svelò il segreto delle sacre armature:
- In primo luogo ogni armatura, come è naturale che sia, trae la propria forza dal cosmo del cavaliere che la indossa. Quanto esso sarà più tenace e determinato, tanto essa sarà capace di assecondarlo e a trasformare il potere che deriva dalle stelle in energia al servizio del guerriero. Su questo io non posso aiutarti ma sono certa che tu, come le persone che sono sicura giungeranno qui a breve insieme ai nostri amici, saprai stupirmi al di là di ogni aspettativa.
In secondo luogo le armature devono essere cosparse con un elemento naturale misterioso e rarissimo che si chiama polvere di stelle. Esso si può trovare esclusivamente in una remota località dell’Asia detta Jamir. Questo luogo è situato nel cuore dell’Himalaya, la catena montuosa più grande di questo pianeta, e tu dovrai raggiungerla cercando e trovando la polvere. E’ anche per questa ragione che ti ho voluto far dono del potere della telecinesi del quale ormai ti sei impadronito.
In ultimo le armature vanno benedette con del sangue divino ed è qui che entro in gioco anche io.
Senza che Patros, che nel frattempo aveva mutato la propria espressione da amareggiata a rincuorata a confusa, potesse impedirlo, Athena afferrò una cesoia e si ferì in profondità il polso sinistro dal quale immediatamente fuoriuscì un copioso rigagnolo di sangue di colore rosso scarlatto.
Il cavaliere, innanzi all’assurdo gesto, si precipitò in soccorso della giovane cercando di tamponare la ferita con dei panni sporchi della stessa polvere nera di cui era in pratica ricoperto e che erano il solo manufatto in tessuto a portata di mano.
Athena, pur accettando l’aiuto del cavaliere, lo esortò con fermezza a raccogliere il proprio plasma all’interno di una bottiglietta in vetro opaco.
Patros in un primo momento non ascoltò nemmeno le parole della sua Dea ma la risolutezza con la quale ella gli ripeté l’ordine lo convinse ad ascoltarla e ad eseguire con solerzia quanto gli veniva chiesto di fare.
Quando il recipiente fu in procinto di tracimare, Patros lo chiuse con un tappo di sughero che spinse con forza all’interno del collo della bottiglia, poi ritornò a dedicarsi alla cura della ferita della sua adorata.
«Perché quest’altro folle gesto?» chiese infine mentre con le mani premeva forte sul panno ora avvolto attorno al polso della Dea nell’intento di arrestare l’emorragia.
Athena, sedendosi per un attimo sul bordo del tavolo in legno che Patros utilizzava come piano di lavoro, rifiatò, poi, riacquistando la serenità, replicò al cavaliere:
- Te l’ho appena spiegato! Per dare vita alle armature serve anche il sangue di una divinità ed io, anche se ora sono conosciuta con il nome di Daphne, sono pur sempre una di esse. Non preoccuparti per me, fortunatamente la mia condizione celeste mi conferisce anche una capacità di recupero e di rimarginazione delle ferite molto più rapida ed efficace del normale. Ciò che deve realmente interessarti è che la tua vera missione inizia ora. Domattina partirai per lo Jamir! Il tuo cosmo ti saprà condurre verso il luogo in cui potrai estrarre la polvere di stelle. Porta con te la corazza che hai appena ultimato e cospargila prima con la polvere e poi con qualche goccia del sangue che ti ho appena esortato a raccogliere. Impiega tutto il tempo necessario al compimento di questo fondamentale incarico, io resterò qui ad attenderti insieme ad Eleni e a Kallistratos. Inventerò io una scusa con Akepsimas e Iphigenia per giustificare la tua improvvisa partenza.
Per nulla preoccupato per il viaggio da intraprendere ma terrorizzato dal dover lasciare sola la propria Dea, Patros intentò una protesta ma la stessa Athena, apponendogli un dito sulle labbra, gli impose il silenzio e sentenziò:
- Questo è un mio preciso ordine! Non sono ammesse repliche! Ora andiamo a riposare, domattina partirai con il sorgere del sole.
Patros socchiuse gli occhi, ebbe ancora il desiderio di baciare quel dito che gli sfiorava la bocca ma si trattenne nuovamente. Infine, prendendole la mano tra le proprie e portandola sulla fronte che, con la testa, si chinò in avanti, il cavaliere accolse la richiesta della Dea della giustizia.
Il mattino successivo l’aria era fresca nonostante fosse l’alba di un giorno di fine agosto.
Uscendo dalla porta della casupola in cui, con la mente aggrovigliata al recente ricordo dei fatti avvenuti la sera precedente, aveva mal riposato, Patros inspirò profondamente e, vedendo che le stelle e la luna non avevano ancora lasciato spazio al sorgere del sole se non per un lieve bagliore all’orizzonte, si compiacque del fatto di essersi alzato dal suo giaciglio ancor prima del solito; del vecchio Akepsimas non v’era ancora traccia ed anche gli animali nella stalla o nel recinto così come gli uccelli tra gli alberi e gli insetti nella campagna circostante parevano ancora addormentati.
Athena apparve ancora una volta alle sue spalle. Non vi furono parole o saluti tra i due, solo un gioco di sguardi complici.
Patros indossava dei sandali robusti ed una tunica pesante di colore grigio scuro tenuta stretta in vita da un cinturone in cuoio al quale aveva saldamente legato la bottiglietta contenente il divino sangue, sulla schiena, alla maniera di uno zaino, portava uno scrigno in legno con all’interno l’armatura.
Il cavaliere, rivolgendo un ultimo sguardo alla masseria, afferrò e poi si avvolse nel suo abituale mantello, portò il dito indice ed il dito medio della mano destra in mezzo alle sopracciglia in corrispondenza di quelle due bruciature, ormai più simili a voglie, che testimoniavano il dono di cui ora poteva usufruire.
Quando i polpastrelli delle dita toccarono la fronte, Patros, scomparve come per magia alla vista di chiunque: il suo corpo ed il suo spirito improvvisamente svaniti nel nulla stavano già viaggiando verso orizzonti e luoghi che la sua fantasia non avrebbe saputo immaginare così lontani e diversi dall’amata patria Grecia.