CAPITOLO XIV
Dopo quasi tre mesi dal momento della partenza da Patrasso, quando ormai l’estate era alle spalle e le foglie degli alberi cadevano al suolo croccanti e variopinte di colori che andavano dal giallo al rosso attraverso innumerevoli sfumature di arancio, Atthia, Alexandros e Gordias raggiunsero una delle località più estreme della Grecia.
Situata nel cuore della regione dell’impervio Epiro e affacciata sul lago Pamvotida, la città di Ioannina era uno crocevia molto importante per gli snodi commerciali dell’intera nazione; era una tappa quasi obbligatoria per tutti i viandanti e commercianti che, volendo attraversare il paese via terra da est a ovest o da nord a sud, erano costretti a concedersi qui una sosta lungo il loro pellegrinare.
Ioannina era per tanto una città molto vivace e dinamica dove era probabile riuscire a concludere qualche ottima trattativa ma, allo stesso tempo, era anche estremamente pericolosa e pervasa sino nelle sue fondamenta di ladri e uomini di malaffare che ivi trovavano un facile ricettacolo di ghiotte occasioni per delinquere. Chiunque si avventurasse per le vie di Ioannina per vendere o comprare delle merci sapeva perfettamente quali e quanti benefici economici avrebbe potuto trarne ma allo stesso modo doveva mettere in conto i rischi che avrebbe potuto correre in dette operazioni.
Tutto ciò non interessava di certo ai tre cavalieri che a Ioannina non andavano cercando ricchezze e, sicuramente, non temevano qualche bandito o qualche ladruncolo di strada. La sola cosa che pesava sulle loro spalle era il lungo ed infruttuoso viaggio che li aveva portati sino in Epiro dopo aver battuto per mare e per terra tutta la regione occidentale della Grecia a partire da Patrasso sino a giungere al porto di Igoumenitsa toccando nel frattempo, tra gli altri, i lidi delle isole di Samo, Zacinto e Kerkira nonché svariati luoghi dell’Acarnania e dell’Ambracia.
Questa troppo lunga fase di stallo nell’ottenimento di risultati concreti, rendeva Atthia sempre più nervoso e scontroso con il passare dei giorni. Dello stato d’animo dello spartano ne facevano loro malgrado le spese anche i suoi compagni di viaggio i quali quotidianamente venivano sottoposti ad allenamenti sempre più duri ed impegnativi. Spesso la sera Alexandros e Gordias si ritrovavano a parlare dei rispettivi dolori ed acciacchi anche se infine concludevano sempre per congratularsi reciprocamente per i notevoli progressi che le faticosissime prove cui Atthia li sottoponeva li avevano portati a raggiungere: Alexandros stava tanto abilmente quanto rapidamente imparando a controllare il proprio cosmo mentre il toro di Creta iniziava a comprendere quanto la sua incredibile forza fisica fosse inutile se non canalizzata nel fluire del suo potere interiore. Il guerriero spartano talvolta, facendo finta di dormire, origliava i dialoghi dei due amici, non li disturbava, non interveniva ed il giorno successivo non dava mai loro dimostrazione di aver prestato orecchio al loro discutere; in cuor suo era felice che, nonostante non fosse riuscito ad incontrare altre reclute sul proprio cammino, almeno quei due spiriti affini in cui si era imbattuto sin ora stessero dimostrando di avere tutte le carte in regola per divenire un giorno degni di affrontare al suo fianco il difficile ed incerto destino che li attendeva. Con questo pensiero, Atthia si addormentava sereno e con un sorriso dipinto sulle labbra.
Ioannina si presentava come un agglomerato di case per lo più di legno che confusamente si annidavano lungo il litorale del lago Pamvotida al centro del quale, posata sull’acqua come una ninfea in fiore, vi era l’isola che portava lo stesso nome della città. Il dedalo di vicoli più o meno stretti che, come arterie, pervadevano il manto urbano di Ioannina, era un susseguirsi di sudice botteghe, umide cantine invase dal pungente profumo del mosto di vino e locande frequentate da ubriaconi e prostitute. L’odore che dominava tra queste vie era per lo più quello del legno umido e spesso coperto da un sottile muschio di colore verde scuro con cui erano state edificate le case che dalla periferia giungevano sino alle rive del lago. Qui vi erano poi un numero non meglio precisato di porticcioli traballanti e di pali marcescenti conficcati nel fango del fondale ai quali erano legate tramite delle cime ricoperte di molluschi una serie di imbarcazioni di vario genere e dimensione. Le strade infine erano ammantate da un sottile strato di fango che la gente portava in giro sotto le suole dei propri calzari così come i maleodoranti contenuti dei pitali che i più gettavano in strada spesso noncuranti dei passanti. A fare da contrasto a questo ambiente logoro e degradato vi era l’isola Ioannina il cui profilo elegante e adorno di rododendri ancora in fiore appariva come il giardino dell’Eden posto al centro delle torbide acque del fiume Acheronte.
Atthia percorreva le strade pensando a cosa avrebbe mai potuto pensare di quel luogo il suo amico Theodote nato e cresciuto nell’ordinata e splendente Atene, Gordias rischiava di attaccar briga ad ogni passo dato che incessantemente qualcuno gli sbatteva contro o lo spingeva sgomitando per farsi largo tra la folla, Alexandros essenzialmente si faceva scudo della mole dei due compagni di viaggio e, timidamente e con un certo imbarazzo, teneva lo sguardo basso per evitare le invitanti ed ammiccanti occhiate di qualche donna professionista nel ramo del sesso a pagamento che gli venivano costantemente rivolte.
L’attenzione di quest’ultimo fu attirata dalle urla di un venditore di carne il quale, come gli altri asserragliati in ogni cantuccio a disposizione, cercava di attirare l’attenzione degli avventori al suo prodotto piuttosto che a quello del vicino.
Il ragazzo avvertì i morsi della fame fargli contorcere lo stomaco; contemporaneamente si ricordò che in effetti era passato quasi un intero giorno da quando aveva messo qualcosa sotto i denti per l’ultima volta.
Attirato dalla merce esposta e quasi come se le sue gambe fossero comandate da un magico flauto, si staccò dai compagni recandosi al banco del venditore per acquistare un po’ di quella carne secca che tanto lo aveva ingolosito.
Informatosi dei costi e scelto ciò che gli pareva maggiormente appetitoso, era in procinto di concludere l’affare e pagare il commerciante quando, all’altezza delle ginocchia, percepì un movimento tanto rapido quanto sospetto. Istintivamente portò la mano alla cintura dove teneva saldamente legata la sacchetta contenente le poche dracme risparmiate dalla compagnia. Con suo orrore afferrò solo l’aria. La sola cosa che il suo occhio fu capace di cogliere fu la chioma scura di un furfantello che come un’anguilla si insinuava tra la gente dandosela a gambe con i suoi scarsi averi.
«Al ladro, fermate quel bambino» fu il grido che Alexandros rivolse alla folla che rispose, o meglio non rispose affatto, con un totale disinteresse alla questione che, per chi non era un forestiero al primo giorno di esperienza in quella città di confine, risultava essere un avvenimento totalmente all’ordine del giorno.
Il piccolo ladro era alquanto sicuro del fatto suo: continuava nella propria fuga verso il suo nascondiglio proseguendo nel correre tra le ressa e voltandosi solo di tanto in tanto per sincerarsi che la sua vittima odierna non fosse in grado né di raggiungerlo né tantomeno di acchiapparlo.
Quando la sagoma di Alexandros fu scomparsa alla sua vista si disse al sicuro, girò il capo ripassando mentalmente l’elenco dei luoghi in cui sarebbe potuto andare a esaminare in tutta tranquillità l’effettivo ricavato del bottino. Un sorriso malizioso si stava per disegnare sul suo volto quando improvvisamente gli sembrò di aver sbattuto contro il muro di una fortezza inespugnabile. Rimbalzò all’indietro cadendo al suolo incredulo e con la fronte dolorante. Reggendosi quest’ultima con le mani, dopo qualche istante in cui il capo gli parve girasse come una trottola, guardò attraverso le fessure tra le dita per vedere cosa accidenti si fosse frapposto tra lui e la riuscita del suo piano perfetto.
Due gambe lunghe e muscolose lo stavano sovrastando. Sopra di esse il resto del corpo di un uomo dalla barba nera e l’aspetto minaccioso lo stava osservando con sguardo inquisitorio.
«Guarda dove vai scimmione» ebbe il coraggio di dire il piccolo.
Atthia sgranò ancor di più gli occhi facendolo sobbalzare; ciò nonostante il ladruncolo stava quasi per continuare ad apostrofare il gigante che gli stava davanti con qualche altro epiteto ingiurioso quando, da dietro, si sentì afferrare per il colletto della maglia e sollevare ad una quota da terra tale che un senso di vertigine lo pervase da cima a fondo. Un altro energumeno, senza sopracciglia, senza capelli eccezion fatta per una lunga coda di cavallo che gli dipartiva dalla sommità del capo ed ancora più grosso del precedente lo aveva preso con sole due dita e lo stava guardando con la stessa espressione che un leone affamato avrebbe potuto avere nei confronti di una pecorella dal pelo candido.
Il bimbo deglutì, sorrise ironicamente al primo, poi al secondo gigante che pareva avere in mano la sua vita come a voler dire «io che c’entro, sono solo un bambino, non lo vedete?». Poi, dato che la situazione non pareva cambiare di una virgola e che nessuno dei due adulti dava segnali di alcun genere, prese il coraggio a due mani ed iniziò a tirare pugni e calci all’aria al grido di «lasciami andare brutto cavernicolo o sarà peggio per te. Io sono Hermos e sono un grande guerriero, mettimi subito giù o sarà peggio per te, hai capito?».
Mentre Gordias perseverava a tenere sollevato lo scalciante e rumoroso infante, Atthia scoppiò in una sonora risata mentre Alexandros, furente per la rabbia, li raggiunse accusando il piccoletto di avergli sottratto con l’inganno i risparmi della compagnia.
«Grande guerriero, dici? A me sembri solo un ladruncolo da quattro soldi!» sentenziò lo spartano.
Hermos si morse le labbra per la rabbia, dopodiché, non soddisfatto ed ormai certo di non riuscire a cavarsela, ebbe ancora il coraggio di proseguire:
- Ecco, hai detto bene scimmia con la spada: quattro soldi, non di più! Dal peso di questo sacchetto non direi che dentro ci siano più di tre o quattro dracme. Siete anche dei poveracci, stupido io che vado a derubare uno con una faccia da barbagianni come questo qui.
Alexandros si sentì chiamato in causa e fece il gesto di volerlo strangolare ma Gordias lo sbandierò un po’ più in là sottraendolo alla presa dell’amico.
Atthia proseguì a ridere ancora più sonoramente:
- Che ardire, mi piace questo ragazzo! Che dici Gordias, gli tiriamo il collo come ad una gallina seduta stante o aspettiamo ancora un po’?
Il toro di Creta, che aveva chiaramente intuito il tono scherzoso dello spartano, sbatacchiò ancora un po’ il malcapitato, poi fissando Hermos, che per un istante credette che quel gigante lo avrebbe divorato in un sol boccone, sentenziò:
- Io direi che intanto dovrebbe restituirci ciò che ci ha impudentemente sottratto, dopodiché ci indicherà una taverna non troppo schifosa dove rifocillarci, sul cosa fare di lui si vedrà. Sicuramente a pancia piena potremmo essere più magnanimi nei suoi confronti.
Alexandros fece per intentare una protesta ma Atthia lo bloccò rimproverandolo:
- Tu taci! Ti abbiamo perso di vista mezzo minuto e ti sei fatto fregare da sotto il naso i nostri già esigui averi. Usami almeno la cortesia di non voler abusare della nostra pazienza!
Una decina di minuti dopo, il quartetto era seduto sulle panche di una locanda il cui balcone si affacciava direttamente sulla riva del lago. Avevano ordinato della selvaggina arrostita, del pane di semola e del formaggio.
Alexandros, intento a rosicchiare un ossicino di un non meglio identificato volatile, stava ancora guardando di sbieco il piccolo Hermos il quale, ascoltato con attenzione sia da Atthia che da Gordias, non risparmiò energie tanto nell’abbuffarsi che nel, come sarebbe consuetudine dire, vuotare il sacco.
Hermos era un bambino di dieci anni, piuttosto magro e denutrito anche se la sua forza vitale non pareva averne risentito particolarmente. Aveva una folta chioma di capelli neri ed arruffati mentre, al contrario, gli occhi erano di un azzurro limpido e brillante; era abbigliato con una maglietta ed un paio di calzoni in cotone rammendati in più punti, scalzo e ricoperto su gambe e braccia di lividi frutto della vita di strada, si sarebbe detto comunque un bel bimbo nonostante la sporcizia che, come la terra sulla buccia di un tubero, lo ricopriva da capo a piedi.
Si era già capito che era un ragazzino molto sveglio anche se in lui si leggeva chiaramente una vena di tristezza.
A fine pasto una lacrima, che prontamente e con orgoglio asciugò dal viso, gli scese lungo la guancia quando prese a raccontare la triste storia di lui e della sorella gemella Ofiuco. Disse di non sapere nulla in merito ai loro genitori dato che, ancora in fasce, erano stati ritrovati davanti all’ingresso di un tempio dedicato a Zeus non lontano dalla stessa Ioannina. I monaci del tempio li raccolsero e si presero cura di loro anche se non dimostrarono mai nei confronti dei gemelli quell’affetto di cui ogni bambino avrebbe bisogno. Quando poi all’età di otto anni si rifiutò di intraprendere il cammino che lo avrebbe a sua volta portato a divenire un monaco, fu cacciato insieme alla sorella dal tempio. Si ritrovarono così a vagare per le strade senza avere di che mangiare o di che ripararsi dal freddo. In quei giorni furono avvicinati e reclutati da un gruppo di bambini poco più grandi di loro che facevano parte di una banda il cui capo corrispondeva al nome di Zelos.
Costui era tanto un delinquente quanto un codardo nato. Si serviva di bambini abbandonati o orfani per rubare tra le vie di Ioannina e dintorni; i maschi venivano instradati al furto e allo scippo mentre le femmine erano costrette ad elemosinare in giro e ad occuparsi della pulizia e della cucina del loro covo probabilmente in attesa che crescessero a sufficienza per potergli rendere in altro modo.
Zelos pretendeva dai suoi ragazzi un bottino quotidiano. In caso di un "raccolto" non soddisfacente sarebbero stati picchiati e poi privati del tetto o del pasto che erano le uniche ragioni a spingere e a tenere la banda di piccoli delinquenti aggrappata alle non certo amorevoli braccia di Zelos.
Infine, scoppiando in lacrime, il povero Hermos disse che se non fosse tornato al rifugio entro sera il suo padrone se la sarebbe presa con la sorella picchiandola o peggio.
Improvvisamente Gordias, dimostrando una sensibilità della quale né Atthia né Alexandros avevano mai avuto sentore, batté con forza il pugno sul tavolo facendolo quasi ribaltare:
- Queste cose mi fanno andare il sangue al cervello! Credo che dovremo proprio fare una visita a questo famigerato Zelos!
Atthia ed Alexandros annuirono in segno di assenso, poi il più giovane dei due chiese ad Hermos:
- Ragazzino, anche se hai tentato di derubarmi non possiamo tollerare che avvengano questo genere di cose, rivelaci immediatamente dove si trova il covo della tua banda.
Alcuni minuti dopo i tre uomini ed il bambino erano già a bordo di una piccola barca a remi la cui prua, sotto le energiche pagaiate di Gordias, puntava decisa verso l’isola Ioannina.
Appena misero piede sul lido, i tre cavalieri si resero conto di quanto differente fosse l’ambiente intorno a loro. L’isola, se paragonata a tutto il maleodorante circondario che si trovava sulla riva opposta, appariva come un’oasi fiorita, profumata, ordinata e pulita. Tra sé e sé Alexandros pensò «quale migliore rifugio per una banda di delinquenti che il luogo meno ovvio della regione».
Mentre il sole stava iniziando a calare, Hermos guidò i suoi nuovi amici attraverso giardini e piccole strade circondate da alberi sempreverdi sino a giungere in prossimità di una piccola radura situata vicino ad un caseggiato in pietra chiara. Il bambino si accucciò dietro ad una siepe facendo segno ai tre adulti di imitarlo. Dopo aver dato un’occhiata furtiva in giro, prese a fischiare imitando il suono del cinguettio di un passero. Ricevette immediatamente un secondo richiamo in risposta che lo spinse ad uscire allo scoperto. Da sopra il tetto del caseggiato e da dietro alcuni alberi ed altre siepi sbucarono una dozzina di ragazzini dell’età e della risma di Hermos. Quest’ultimo andò a parlare con loro al centro della radura. Il dibattito andò avanti per un bel po’. Dalla posizione in cui si celavano i tre cavalieri pareva proprio che il loro piccolo amico stesse facendo opera di convincimento nei confronti dei suoi compagni: alcuni di essi parevano dargli corda, altri apparivano meno inclini ad accettare le sue idee. Infine Hermos ebbe evidentemente la meglio e, con un ampio cenno del braccio, segnalò ai tre cavalieri di uscire allo scoperto.
Subito gli si fece loro incontro un ragazzino dai capelli rossi appena più grande di Hermos e decisamente più sporco che, con il petto gonfio, le mani sui fianchi e in tono decisamente perentorio, domandò ai tre forestieri:
- Io sono Vasianos, il capo della banda. Quel fuori di testa di Hermos mi dice che volete dare una lezione a Zelos. A vedervi bene potreste anche esserne in grado, siete piuttosto grandi e grossi ma ciò nonostante temo che non sarete in grado di avere la meglio su di lui. Forse Hermos ha saggiamente omesso di dirvi che Zelos è un demonio! Al di là del fatto che all’interno del nostro rifugio si circonda di tutte le bambine della banda e dei più piccoli, lui è capace di compiere delle magie alle quali nessuno di noi e di voi potrebbe opporsi.
Alexandros ed Atthia si scambiarono uno sguardo malizioso, Gordias invece, indicando una porticina in legno chiaro del caseggiato e spostando Vasianos con un gesto delicato della sua immensa mano, si limitò a chiedere:
- E’ quello l’ingresso? Fatti da parte.
Il toro di Creta, dopo aver ricevuto conferma di ciò che aveva appena domandato, partì con passo deciso, e degno del soprannome che gli era stato affidato all’Arena di Apollo, sfondò con un calcio la porta che esplose in mille schegge.
Dietro di essa vi era un lungo e buio corridoio che Gordias percorse rapidamente sino a giungere all’interno di una grande stanza dove, oltre ad una serie di vettovaglie ed altre cose di vario genere come barili, forzieri, casse di legno che probabilmente contenevano parte della refurtiva accumulata, vi erano una ventina di brandine sudice e consumate.
L’impeto di Gordias che trasudava rabbia da ogni poro del suo corpo, fu bruscamente interrotto da una serie di coppie di piccoli occhi che terrorizzati lo fissavano con preoccupazione.
Il cavaliere rimase attonito nell’osservare come i bambini i cui cuori aveva appena fatto sobbalzare temessero forse più lui, uomo gigantesco e rabbioso spuntato dal nulla disintegrando la porta d’ingresso della loro casa, che non il loro sfruttatore.
Quando anche Atthia, Alexandros, Hermos e il resto della banda capitanata da Vasianos fecero il loro ingresso in scena, dal fondo della grande stanza si udì una voce acuta e sgradevole che nervosamente imprecava:
- Cos’è questo baccano? Chi osa disturbare il grande Zelos?
Udendo queste parole Hermos e gli altri fanciulli si fecero scudo dietro ai corpi dei tre cavalieri. Questi ultimi si sarebbero aspettati che dall’ombra che dominava il fondo del locale uscisse una specie di mostro ed invece l’aspetto fisico di Zelos tradì ogni loro aspettativa. Egli era un ometto piccolo e magro ai limite del rachitico, senza capelli e con la dentatura sporgente, vestito, o per meglio dire travestito, da senatore del foro con tanto di tunica bianca e toga rossa purpurea.
Alla sua vista Gordias avvertì rimontare dentro di sé tutto il suo ardore, strinse i pugni in un motto di rabbia e si assicurò di mettere nel bersaglio il giusto obiettivo dato che ancora gli sembrava impossibile che quello sgorbio fosse il temuto signore della banda di Ioannina.
«Sei tu che comandi qui? Sei tu il terribile Zelos? Se la risposta è affermativa prendi coscienza del fatto che questo è l’ultimo giorno di lavoro nonché di vita per te» dichiarò Gordias che stava divenendo oltremodo impaziente di mantenere fede alle proprie parole.
«E’ ovvio che sia io il grande Zelos, vedi qualche altro sovrano qui dentro oltre alla mia persona?» rispose allargando le braccia e guardandosi intorno ironicamente come a voler cercare un fantomatico antagonista.
«Preparatevi voi a crepare e che questo sia da lezione per tutti» concluse volendo intimidire i bambini ribelli.
Detto ciò Zelos si sfilò in un lampo la tunica e la toga rossa scoprendo un’armatura nera e viola che gli conferiva un aspetto alquanto grottesco ed estremamente simile a quello di una rana gigante. Gordias, che era il più avanzato dei tre, notò per primo ciò che anche i suoi due compagni avvertirono un istante dopo: un cosmo nero e simile a quello che Atthia ed Alexandros avevano già conosciuto in precedenza si diffuse intorno al loro nuovo avversario che, senza pietà e non minimamente curante della presenza dei bambini, caricò un colpo che come un raggio di luce scura saettò in direzione di Gordias.
Quest’ultimo, scostandosi da un lato, riuscì a schivare l’attacco che però proseguì in direzione di Atthia.
Lo spartano, nonostante vedesse nitidamente il fascio di luce venirgli incontro, non ebbe in pratica la benché minima reazione se non quella di alzare il palmo della mano destra contro la quale l’attacco di Zelos andò a infrangersi.
Con sommo stupore di quest’ultimo, il cavaliere soffocò nel suo stesso pugno, dal quale fuoriuscì una sottile colonnina di fumo grigio, quell’attacco che sin ora aveva creduto invincibile.
Zelos non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di ciò che stava per abbattersi su di lui che Gordias gli era già piombato addosso facendogli esplodere contro tanto il proprio cosmo quanto il proprio colpo migliore.
Il piccolo uomo volò letteralmente all’indietro sotto la poderosa spinta del toro di Creta. Lo schianto contro la parete retrostante fu talmente forte che le pietre di cui era costituita così come l’armatura di Zelos andarono in frantumi.
Gordias si compiacque della visione di quell’essere insignificante che, sputando sangue dalla bocca, era riverso al suolo con probabilmente la maggior parte delle proprie ossa frantumate e con solo l’esigua forza per dire:
«Come hai fatto? Chi sei maledetto? Come hai potuto battere Zelos della Stella della Terra Abnorme?»
«Chi sono io? Io sono Gordias, cavaliere di Athena» rispose il gigante chinandosi verso di lui.
Zelos spalancò gli occhi:
- Cavalieri di Athena? Maledetti, ero stato messo in guardia ma non credevo che sareste giunti sin qui. In ogni caso il mio padrone saprà indubbiamente vendicare l’onta che mi avete procurato.
Udendo queste parole e pensando di riuscire finalmente ad ottenere quelle informazioni che non aveva avuto la possibilità di avere dal cadavere di Raimi, Atthia scattò in direzione di Gordias che era in procinto di dare all’avversario il colpo di grazia.
Il toro di Creta vedendo il compagno avvicinarsi distolse per un solo istante la propria attenzione da Zelos il quale, con uno scatto che ebbe più dell’animale che dell’umano, gli sfuggì da sotto le mani andando poi a recuperare un coltello affilato che puntò alla gola di una bambina che, per tutto il tempo dello scontro, si era riparata dietro ad un baule.
«Se non volete che le tagli la gola, lasciate libera l’uscita e poi iniziate a contare le ore che separano questo per voi fortunato giorno da quello in cui otterrò la mia vendetta» gracchiò Zelos sputando ancora sangue dalla bocca.
«Ofiuco! Lasciala codardo» gridò da dietro al gruppo Hermos che evidentemente, vedendo la sorella tra le mani del suo odiato protettore, trovò un motto di coraggio tale che gli avrebbe consentito di sfidare da solo un intero esercito armato sino ai denti.
La bambina, che assomigliava in modo incredibile al fratello, pervasa dalla paura non fu capace ad emettere un solo fiato.
Atthia riusciva a percepire chiaramente l’ardere del cosmo di Zelos ma questa non era la sola presenza che albergava all’interno di quella stanza.
I suoi allenatissimi sensi vagliarono immediatamente la situazione: vi erano i cosmi di Alexandros e Gordias con lui ma, conoscendoli alla perfezione, era in grado di distinguerli nitidamente, vi era quello del nemico ed infine vi era qualcos’altro che, senza una ragione apparente, emetteva una debole eco come se fosse un cosmo sopito o particolarmente giovane. Improvvisamente fu capace di intuire senza margine d’errore la provenienza di quella eco: si trattava proprio della sorella di Hermos in cui, a causa della paura di morire sotto la lama di Zelos, stava con ogni probabilità sbocciando quel potere che ancora non aveva mai incontrato dentro se stessa.
Un movimento di Zelos fece sì che la punta del coltello che stava brandendo sfiorasse la gola di Ofiuco dalla quale fuoriuscì una minuscola goccia di sangue che le colò lungo l’esile collo andando poi a spegnersi sul margine della tunica.
Atthia stava valutando la migliore tattica d’intervento quando dalle sue spalle avvertì l’esplosione di un ennesimo ed imponente cosmo che non avrebbe esitato a definire pari se non superiore al proprio e di una natura tanto fiammeggiante quanto devastante.
Voltandosi di scattò si rese conto che questo potere immenso stava provenendo dal piccolo Hermos attorno al quale era nitidamente visibile un’aurea bruciante di rabbia ed ardore. Contemporaneamente parve che l’aria all’interno della stanza iniziasse a vorticare pervasa da scariche e scintille di un’energia fuori controllo.
I cavalieri, il gruppo di bambini e lo stesso Zelos, che per un attimo allentò la presa dalla bambina che teneva stretta a sé, restarono basiti innanzi a questi inspiegabili sconvolgimenti dell’etere. Il solo Gordias ebbe la prontezza, sfruttando il passo falso di Zelos, di balzargli una seconda volta addosso e strappargli Ofiuco dalle braccia. Messa in salvo la fanciulla per Zelos non vi fu più scampo: l’abnorme mole di Gordias lo sovrastò completamente e due mani grandi e roventi lo afferrarono per la testa che, sotto la pressione di esse, esplose in uno spruzzo di sangue e materia celebrale schiumosa come l’onda del mare in tempesta che si infrange sullo scoglio.
Davanti a questa cruenta scena, Ofiuco si accasciò al suolo imbrattata dei resti di Zelos. Allo stesso momento lo stato dell’aria del locale ritornò a suo stato originale mentre sia Gordias che Hermos si precipitarono in soccorso della piccola.
Qualche ora dopo, ripulita e felicemente ricongiunta al fratello, Ofiuco decideva di seguire quegli uomini venuti da lontano in una vita che non si sarebbe mai e poi mai aspettata di conoscere.
Sotto precisa richiesta di Hermos, Atthia, con tanta umanità quanto dispiacere, istruì Vasianos e gli altri bambini:
- Siete liberi dall’oppressione di Zelos e siete liberi di vivere la vostra vita come meglio preferirete. Se fosse per me ed i miei compagni vi porteremmo con noi ma la missione che stiamo intraprendendo è troppo rischiosa e densa di pericoli per poter mettere in gioco la vita di fanciulli come voi. Il miglior consiglio che posso darvi al momento, anche se so bene che ciò che sto per proporvi vi obbligherà ad intraprendere un viaggio lungo e faticoso, è quello di lasciare Ioannina oggi stesso, discendere poi tutta la Grecia giungendo infine sino in Attica. Non lontano da Maratona e andando verso sud, incontrerete una montagna ai cui piedi si trova un ricco frutteto. Cercate un uomo di nome Patros e ditegli che vi manda Atthia di Sparta. Senza ombra di dubbio costui saprà aiutarvi e mostravi quanto bella possa essere la vita che sin ora non avete ancora avuto modo di conoscere.