CAPITOLO XIII

«E’ stata davvero dura ma ne è valsa la pena» esclamò Demetrios ammirando lo spettacolo naturale che la magnifica formazione rocciosa di Meteora offriva ai suoi occhi.

Theodote, appoggiando il gomito sulla spalla dell’amico, restò attonito nel suo contemplare l’ambiente circostante limitandosi ad annuire.

Erano passati ben quattro giorni dal momento della partenza dalla porta ovest di Larissa ma, infine, i loro sforzi e le passate peripezie erano stati ampiamente ricompensanti dalla meraviglia suscitata nel loro spirito da quel luogo che pareva essere un dipinto nato più dalla fantasia di qualche artista onirico piuttosto che da un capriccio della natura.

La località detta Meteora era essenzialmente una verdeggiante e stretta vallata che, nascosta e protetta dalle catene montuose circostanti, era costellata da delle formazioni rocciose alquanto bizzarre. Dal terreno sorgevano dei picchi di roccia grigia e levigata che, come i denti, le ossa ed i resti pietrificati di giganti mitologici, si innalzavano verso il cielo che ora, alle porte dell’estate, appariva limpido e cristallino come le acque di un lago di montagna.

L’unico sentiero presente si inerpicava sottile e tortuoso nel mezzo della valle così come avrebbe fatto il corso di un ruscello. Ciò faceva sentire coloro che lo percorrevano come minuscole formiche ai piedi di minacciosi titani di pietra.

Una volta usciti da un canyon talmente stretto da non poter godere dell’abbraccio dalla luce del sole, Theodote e Demetrios si ritrovarono in un angolo della valle più ampio e pianeggiate sul quale troneggiava un altro mostro di roccia grigia e liscia di forma più tozza e squadrata rispetto a quelli incontrati in precedenza; sulla sommità di esso, mettendosi una mano all’altezza delle sopracciglia per non essere abbagliati dal sole, si poteva osservare come vi fosse incredibilmente stato costruito un edificio. Esso appariva come un caseggiato squadrato e di colore chiaro sulle cui pareti esterne vi erano una serie di minuscole feritoie che fungevano da finestre, il tetto a capanna era alquanto sporgente e ricoperto da coppi rossastri, si intravedevano poi una piccola torre ed un minuscolo porticato dal quale dipartiva una scalinata del cui prosieguo la vista perdeva traccia tra le grigie rocce. Demetrios non esitò ad apostrofarlo come simile al nido di un gigantesco rapace edificato sul capo di un gigante di pietra.

Alla base della montagna vi era accampato un piccolo villaggio costituito da non più di dieci o quindici capanne. Alcune erano state costruite in sasso, alcune in legno; intorno ad esse si distinguevano nitidamente degli orti, alcuni campi coltivati e delle vacche dal manto bianco e dalle lunghe corna ritorte intente a brucare l’erba fresca ed ancora inumidita dalla rugiada mattutina.

I due cavalieri si avvicinarono seguendo il solito sentiero che, mano a mano che si approssimava all’agglomerato di case, assumeva l’aspetto di una stradina in ghiaia decisamente più confortevole sia per i loro piedi che per i loro calzari che ormai da giorni si erano poggiati solo su rocce scivolose e sterpi pungenti.

Superate le prime tre mucche, che indomite proseguirono nel loro ruminare senza degnare nemmeno di uno sguardo i due stranieri, il primo essere vivente che incontrarono fu un ometto paffuto e dall’espressione cordiale che, scalzo ed abbigliato con delle braghe di colore marrone scuro legate in vita da una corda di canapa e da una maglia in lana bucherellata dall’usura o dalle tarme, probabilmente era il badante degli animali appena incrociati.

Theodote lo salutò con un ampio cenno della mano destra, lo stesso fece Demetrios un istante dopo.

L’uomo, dopo aver arrestato il suo procedere, si fermò qualche secondo ad osservarli con uno sguardo ed un’espressione non proprio intelligenti, dopodiché, senza contraccambiare il saluto, si limitò a dire:

- Se siete viandanti o commercianti e volete sapere qual’ è la strada per Ioannina, sappiate che ci siete sopra: vi basterà seguirla. Se siete arrivati sino a Meteora, di qui in avanti il cammino vi sembrerà una passeggiata di salute. Sentieri scoscesi e arrampicate su rocce viscide sono pressoché finiti. Se invece siete stanchi e volete riposarvi, oppure se desiderate rifocillarvi, andate al villaggio e chiedete di Gregentios. E’ il solo qui che ha una stanza da affittare e a gestire quella che si potrebbe chiamare locanda.

Theodote diede un colpetto di tosse e poi, avvicinandosi all’uomo, lo incalzò:

- La ringrazio per le sue più che esaustive informazioni ma la devo contraddire. Noi non siamo commercianti e non dobbiamo nemmeno raggiungere la città di Ioannina. La nostra meta è proprio Meteora.

«Meteora? E cosa diamine ci siete venuti a fare a Meteora? Siamo un villaggio di poche anime, sopravviviamo grazie a ciò che coltiviamo e grazie all’allevamento delle nostre poche bestie. Le rare entrate extra ci derivano esclusivamente da gente come voi che, tentando di risparmiare tempo nell’attraversare la Grecia da est a ovest, sceglie il cammino tra le montagne anziché la strada principale a sud oppure dalla vendita di qualche nostro prodotto ai monaci che vivono in quasi totale isolamento all’interno di quel tempio lassù» disse l’uomo con aria alquanto interrogativa ed indicando con il dito la costruzione arroccata sulla cima del monte dietro di lui.

«Le sembrerà strano ma siamo giunti sin qui da molto lontano solo per incontrare una persona. Il suo nome è Chrysante» precisò Theodote.

«Chrysante, dite? Mai sentito nominare in tutta sincerità» rispose l’uomo grattandosi il mento.

«L’albino!» scandì Demetrios intervenendo nel discorso e sopravanzando l’amico di un passo.

A quel punto l’uomo trasalì, sgranò i suoi piccoli occhi scuri e, gonfiando il petto soddisfatto di poter finalmente dare ai due sconosciuti l’informazione che cercavano, riprese da dove aveva abbandonato la frase:

- Ah, l’albino, ma certo. Potevate dirlo subito, chi non lo conosce da queste parti. Sarei proprio curioso di sapere cosa mai possiate volere da un tipo così strambo per intraprendere un lungo viaggio solo per conferire con lui ma, state tranquilli, conto di farmi i fatti miei, non voglio conoscere le ragioni che vi hanno condotto sin qui: non sono un impiccione, io. In ogni caso l’albino sta sempre rintanato proprio in cima al monte che vi ho appena indicato. Non fa parte del gruppo di monaci che vive lassù ma diciamo che, se possibile, conduce uno stile di vita ancora più rigido e severo di quei santoni che gli usano la carità di ospitarlo all’interno del loro tempio oltre che a sfamarlo. Qui al villaggio lo vediamo una o due volte al massimo all’anno. Passate comunque per il villaggio e trovate Gregentios; andare sino al monastero non è semplicissimo ma vedrete che lui saprà ben indirizzarvi.

Demetrios quasi esultò, Theodote strinse caldamente la mano all’uomo e, sorridendogli, lo salutò amichevolmente con un entusiastico «non sa che bella notizia ci ha dato, abbiamo superato nel vero senso della parola mari e monti per trovare l’albino ed ora non sarà certo una montagna o una congrega di monaci a fermarci».

L’uomo si accigliò e, per certi versi stupito dell’euforia dimostrata dai due giovani, si congratulò con se stesso per essere stato quel giorno così inaspettatamente utile. Dopodiché riprese il passo con dei quesiti che gli ronzavano nella testa ma ormai, così come aveva esclamato, si era professato una persona riservata e quindi non avrebbe potuto smentirsi e domandare ulteriori delucidazioni ai due forestieri solo per placare la propria curiosità.

Trovare Gregentios non fu cosa difficile. Tra la bottega di un fabbro e quella di un falegname, la sua locanda era facilmente identificabile su un lato dell’unica piazza del villaggio. Al centro di essa vi era un pozzo al quale attingevano gli abitanti di Meteora mentre delle panche e dei tavolacci di legno lasciavano intuire la presenza dell’attività commerciale dell’oste all’interno di una casa a due piani costruita in pietra e dalle imposte in legno verniciate di bianco.

Gregentios era un uomo sulla cinquantina non troppo alto e piuttosto in carne, non aveva capelli se non qualche ciuffo ispido e di colore nero sopra alle orecchie ed intorno alla nuca. La scarsa peluria sul suo scalpo era pienamente compensata dalle folte sopracciglia e dai cespugliosi e lunghi baffi che si riversavano su tutto il suo labbro superiore rendendolo pressoché invisibile; abbigliato con una tunica grigia senza maniche sulla quale spiccava la presenza di un grembiule sporco di olio e di sangue, il locandiere, così come il passante che aveva consigliato ai due ragazzi di cercarlo, si dimostrò una persona affabile e disponibile.

Gregentios spiegò che per raggiungere il monastero dove si trovava tra gli altri anche l’albino bisognava intraprendere la scalinata che dipartiva dal villaggio e percorrerla sino a quando non sarebbe mutata in un sentiero piuttosto stretto e ripido. «Non bisogna soffrire di vertigini» ci tenne a puntualizzare. Alla fine di detto sentiero si sarebbe giunti ad una piccola terrazza ricavata all’interno di una rientranza della montagna; qui si trovava un canapo che, se tirato con forza, avrebbe fatto suonare, attraverso un sistema di carrucole, la campanella posta all’ingresso del tempio. Se e quando un monaco l’avesse udita, avrebbe poi calato per mezzo di un robusto quanto ingegnoso paranco, una grande cesta atta ad issare sino al monastero persone o cose. Gregentios si disse anche disponibile ad accompagnare i due cavalieri sino alla terrazza purché lo aiutassero a portare sin lassù due grandi giare colme d’olio che i monaci gli avevano ordinato alcuni giorni orsono ma che la sua schiena dolente gli aveva impedito di consegnare.

Naturalmente sia Theodote che Demetrios acconsentirono alla richiesta del locandiere aggiungendo però al contratto dell’acqua fresca e qualcosa da mettere sotto i denti nell’immediato.

L’acqua gelida e rigenerante del pozzo, dei fichi e delle focacce di farina di grano duro rimisero in forze i due ragazzi; per loro fortuna avevano avuto la scaltra idea di domandare almeno quel pasto dato che, non appena videro la mole e soprattutto dopo che saggiarono il peso delle giare d’olio, rimpiansero di non aver chiesto di più o di aver optato per cercarsi la strada da soli.

La scalinata partiva proprio da dietro la locanda di Gregentios ed andava inerpicandosi in maniera quasi elicoidale lungo il fianco della montagna; quando poi gli scalini lasciarono il posto al sentiero, divenne ancor più chiaro il discorso in merito alle vertigini. Il tracciato era largo al massimo cinque passi. Due persone adulte non avrebbero mai potuto percorrerlo in senso opposto senza che una delle due si facesse da parte aderendo perfettamente alla liscia roccia per fare passare l’altra. Sul lato destro vi era una corda alquanto consumata che era tenuta ad altezza umana da dei grossi chiodi di ferro asolati piantati dentro la roccia ad intervalli più o meno regolari entro i quali la corda stessa passava divenendo così un vero e proprio corrimano. Sul lato sinistro lo strapiombo era mozzafiato. In tutto ciò Theodote e Demetrios, reggendo una giara a testa tra la schiena ed il braccio sinistro e tenendosi saldamente alla corda con la mano destra, seguivano in fila indiana Gregentios il quale, data l’andatura svelta e la postura, non dava per niente l’idea di patire la benché minima pena alla schiena. Tuttavia, con le ginocchia doloranti, le braccia indolenzite e madidi di sudore, i due cavalieri giunsero alla terrazza che, nella sua comunque ridotta dimensione, parve loro un’isola di salvezza se rapportata al sentiero roccioso e a picco sul dirupo. L’oste, con aria soddisfatta per l’evidente fatica risparmiata, tirò con forza il canapo che penzolava sulle loro teste e, nel giro di qualche minuto, una grande cesta in legno e paglia intrecciata fu calata in prossimità del bordo esterno della terrazza.

Caricarono le giare d’olio e, nonostante la manifesta titubanza di Demetrios che continuava a professarsi con isterica insistenza uomo di mare e non di montagna, i due giovani vi montarono dentro iniziando poi così la risalita a bordo di quel curioso mezzo di trasporto. Da sotto i loro piedi Gregentios li salutava con la mano e gli strillava le sue raccomandazioni per lo scarico delle giare e per la riconsegna delle stesse una volta travasato il contenuto.

Il povero locandiere ancora non sapeva che non avrebbe più rivisto né quei due ragazzi né le sue giare di coccio.

Una volta raggiunta la sommità della montagna a bordo della cesta, i due cavalieri furono sorpresi dalla straordinaria singolarità dell’architettura del monastero che ora gli appariva molto più chiara e definita di quanto avessero potuto intuire stando ai piedi della montagna. Vennero accolti da un monaco piuttosto snello che indossava una lunga tunica scura bordata di rosso e un copricapo della stessa fattura. La folta barba nascondeva solo in parte i suoi lineamenti e la sua giovane età. Dopo aver aiutato i nuovi venuti a scaricare i pesanti contenitori, si presentò:

- Benvenuti, il mio nome è Xuto. Mi pare di riconoscere le giare di Gregentios, dico bene, vero? Se ha mandato anche voi qui, suppongo che le rivoglia indietro al più presto. In genere attende che qualcuno di noi monaci scenda in paese per la riconsegna ma, evidentemente, gli servono a qualcosa che ora come ora ignoro. In ogni caso non è un problema! Dovrete però attendere che le travasi dentro alle nostre. Nel frattempo potete aspettare al fresco sotto il portico.

Theodote, sbarcando dalla cesta, rispose al monaco dicendo:

- Io sono Theodote di Atene ed il mio amico è Demetrios di Calcide. Ti ringrazio innanzitutto per l’ospitalità, per il resto fai pure con comodo; riporteremo le giare vuote a Gregentios quando avrai terminato. Nel frattempo però dovremmo incontrare un uomo che parrebbe vivere qui con voi monaci. Il suo nome è Chrysante e so che la maggior parte delle persone usa appellarlo "l’albino".

Xuto li guardò con aria sospetta, li squadrò da capo a piedi come ancora non aveva fatto sin ora, poi, dato che i due ragazzi non gli parevano mal intenzionati, si rilassò e gli indicò dove trovare colui che andavano cercando:

- Chrysante! A noi non piace chiamarlo in altro modo che non con il suo nome, e, data l’ora del giorno, sarà senza dubbio rintanato all’interno della sua caverna. Il sole battente, dato il nomignolo che gli hanno appioppato sin da quando era solo un bambino, non giova alla sua salute come potrete immaginare. Andate al portico che vi ho indicato, superatelo e prendete l’unica scaletta che incontrerete; essa vi porterà davanti ad un piccolo anfratto, entrate al suo interno e seguite le candele presenti nel cunicolo sino in fondo, là troverete Chrysante.

In quel preciso momento Gregentios stava ripercorrendo al contrario il sentiero sul fianco della montagna per fare ritorno al villaggio ripensando con soddisfazione all’immensa fatica che quel giorno, grazie al fortunato incontro di quei due energici giovanotti, si era, almeno per una volta, risparmiato.

Il locandiere era immerso nel suo cogitare quando, nel senso di marcia opposto al proprio, vide sopraggiungere un’altra persona. Era un uomo completamente avvolto in un mantello scuro e di cui non riconosceva né la sagoma né riusciva ad intravedere il volto dato che il capo era interamente coperto da un ampio cappuccio.

Gregentios aveva percorso quel sentiero decine e decine di volte, ne conosceva ogni singola pietra e non ne temeva le insidie ma, ogni qualvolta si trovava ad incrociare qualcuno, si metteva in stato di ansia: l’esigua larghezza del tracciato in concomitanza con la prominenza del suo ventre rendevano sempre complicato e per certi versi imbarazzante il doversi mettere di profilo e ben accostato alla parete rocciosa per consentire il transito della seconda persona.

Quando fu in prossimità dell’altro viandante, strinse forte con le mani il corrimano di corda e si fece da parte. Un alito di vento soffiò in sua direzione proprio in quel momento. Il sibilo dell’aria che gli mosse i baffi fu repentinamente seguito da un olezzo agre e marcescente che lo nauseò profondamente.

La voce rauca e lo sguardo freddo dell’uomo incappucciato, che ora gli era a soli pochi passi di distanza, ridestarono i suoi sensi.

«L’albino! Dov’è?» furono le sole parole che, accompagnate da un alito fetido, quelle labbra sottili pronunciarono con tono minaccioso.

Gregentios fissò per un attimo il volto del suo interlocutore. Inorridì innanzi ad un volto pallido e scavato e al cospetto di quello sguardo demoniaco che disgraziatamente aveva deciso di posarsi proprio su di lui.

Staccando la mano destra dal cordone, trovò solo il coraggio di indicare la terrazza che ancora si poteva scorgere in lontananza e di dire:

- Il canapo! Tira il canapo e sali sulla cesta!

L’uomo che tanto lo aveva terrorizzato non accennò alcuna reazione se non quella di superarlo con un lungo passo incurante del rischio di cadere nel dirupo.

Vedendolo allontanarsi, tirò un sospiro di sollievo che accompagnò il placarsi del martellante battito del suo cuore. Gregentios non fece però in tempo a muovere un solo passo che nuovamente un’altra ventata di quell’odore mortifero lo investì. Questa volta l’olezzo fu ancora più intenso e ammorbante. Il locandiere avvertì improvvisamente la bocca seccarsi, il respiro morirgli in gola e tutti i suoi muscoli irrigidirsi in uno spasmo di un dolore atroce e penetrante.

Senza che riuscisse ad opporsi, sentì la propria vita volare via come il suo corpo che, incapace di reagire a quella paralisi, cadde inerme nel vuoto.

L’ingresso alla caverna di Chrysante era piccolo ed angusto. I due cavalieri dovettero abbassarsi e camminare incurvati per alcuni metri prima che l’altezza del soffitto dell’anfratto ritornasse ad essere tale da consentire loro di recuperare la piena posizione eretta e prima di riuscire ad abituare le pupille all’oscurità la cui assolutezza era limitata esclusivamente dalla presenza di una serie di candele accese le cui gocce di cera sciolta avevano formato nel tempo delle sculture tanto affascinanti quanto sinistre.

Il cunicolo che stavano attraversando si allargava infine in un ambiente più ampio dove il silenzio era interrotto dal suono di alcune gocce di umidità che ritmicamente cadevano al suolo. Al centro di questa stanza nascosta nel cuore della montagna sotto una coltre di dura pietra vi era colui che tanto avevano cercato.

Chrysante era seduto a gambe incrociate sopra una stuoia logora, le braccia rilassate e le mani appoggiate sulle ginocchia in una strana posizione meditativa che nessuno dei due cavalieri aveva mai visto prima gli conferivano un’apparenza mistica ed al contempo misteriosa. La pelle era di un rosa pallidissimo, i capelli, lisci e lunghi sino alla vita, e la barba erano talmente candidi al punto da risultare quasi abbaglianti nonostante la penombra della caverna. I lineamenti erano decisamente eleganti: gli zigomi pronunciati, la mascella abbastanza squadrata, il naso fine, le labbra sottili e pallide. Gli occhi erano indecifrabili dato che, nel suo apparente stato di torpore, erano completamente serrati. L’albino era vestito solo di una tunica azzurra che, scendendo da una sola spalla, andava a coprire parte del busto e gli arti inferiori lasciando così scoperte le braccia e parte del petto che apparivano tonici e ben definiti. Era impossibile dargli un età, poteva avere trent’anni come cento.

Theodote si avvicinò di un passo e fu quasi sul punto di rivolgergli la parola quando venne interrotto dallo stesso Chrysante il quale, con voce tranquilla e pacata ma senza comunque muovere un dito o sollevare una palpebra, li apostrofò:

- Cavalieri di Athena! Eccovi finalmente giunti! I vostri nomi dovrebbero corrispondere a Theodote e Demetrios se non sbaglio.

«Come fai a conoscerci se ancora non ci siamo nemmeno presentati? Sei forse un altro misterioso nemico che vuole metterci i bastoni tra le ruote?» chiese con ardore Theodote stringendo i pugni e mettendosi sulla difensiva.

«Non credo che ciò sia rilevante al momento» rispose con perseverante calma Chrysante.

«Rilevante un corno! Incalzò Demetrios che con un balzo scavalcò il compagno andando a minacciare con il dito indice l’uomo che ancora non aveva lasciato trasparire la ben che minima emozione.

Fu proprio in quel momento che Chrysante mosse di una virgola la mano destra con un gesto che parve accarezzare l’aria in modo sinuoso.

In risposta a ciò accadde qualcosa di stupefacente: Demetrios sembrò improvvisamente strappato da una forza invisibile che, alzandolo da terra, lo trascinò sino all’ingresso della stanza facendolo sbattere con vigore contro una delle pareti di roccia.

Theodote reagì d’istinto frapponendosi tra l’amico e l’albino assumendo una postura che, a seguito degli insegnamenti ricevuti a suo tempo da Patros in persona, poteva essere al contempo sia di difesa che di attacco.

«Mantieni la calma cavaliere! Esclamò con fermezza Chrysante il quale poi proseguì:

- il tuo amico non si è fatto nulla, non è forse vero Demetrios?

Quest’ultimo annuì rialzandosi e toccandosi il capo a conferma che tutto fosse al posto giusto.

«Io non sono vostro nemico se è questo che vi preme sapere; allo stesso modo però non sono nemmeno vostro amico così come non lo sono della Dea che voi asservite. La mia particolare condizione mi ha portato sin dalla più tenera età a dover condurre un’esistenza riservata e fuggente sia dal contatto con la luce solare che da quello con gli altri uomini. Per questa ragione, grazie al potere che ho cercato e trovato dentro me stesso, sono stato capace attraverso la profonda meditazione di valicare quelli che sono i limiti e i confini della coscienza umana. Il mio spirito è volato più e più volte al di fuori del mio corpo materiale, ho esplorato con la sola forza dell’anima il mondo degli Dei olimpici e di molti altri esseri celesti venerati in luoghi di questo pianeta dei quali voi ancora ignorate l’esistenza, ho indagato e cercato di comprendere religioni e filosofie incredibilmente differenti tra loro, ho sorvolato con gli occhi della mente il paradiso e l’inferno, ho guardato e discusso tanto con anime beate che con anime dannate alle fiamme e alle sofferenze dell’Ade, ho appreso a muovermi liberamente tra il mondo dei vivi e quello dei morti ed infine ho sviluppato la capacità di ascoltare ed individuare le eco dei cosmi, siano essi brillanti di purezza come i vostri o neri come quello che ho percepito vicino a voi quando ancora eravate al largo di Vòlo.

In tutto ciò ho deciso che la varietà e la moltitudine delle differenti soluzioni e dei possibili epiloghi cui le nostre scelte terrene possono condurre sono talmente molteplici che non è mai stato il caso di sposare una causa piuttosto che un’altra; ciò nonostante, o giovani cavalieri, il mio cosmo brucia da tempo in maniera alquanto allarmante. Nonostante la maggior parte degli uomini non mi abbia mai tenuto in considerazione né abbia mai avuto un particolare riguardo per la mia persona, io non serbo rancore per la razza umana della quale, con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti, io faccio mio malgrado parte. Temo che una grande minaccia incomba su noi tutti e per tanto ritengo che la volontà della Dea Athena, unica tra gli Dei a intendere farsi carico della penosità della vita terrena e della salvezza di noi semplici mortali, sia al momento la sola opportunità possibile di tentare di contrastare questo oscuro presagio che il mio cosmo insiste prepotentemente a segnalarmi. Non ho bisogno di spiegazioni da parte vostra in merito alla natura della vostra missione né ho bisogno che tu, Theodote, mi ponga quella fatidica domanda che, per eccessiva onestà verso i tuoi stesso ideali, non hai avuto il coraggio di porre al qui presente Demetrios; anche se non fisicamente, ho infatti già lungamente dibattuto con Athena e, dunque, la risposta è:

- sì, mi aggregherò alla vostra compagnia per il tempo necessario a portare a termine il fine supremo a cui ambiamo. Se riusciremo o meno nell’impresa non è cosa che possa prevedere; tra le mie doti non v’è ancora quelle di sapere leggere il futuro. Le sole certezze di cui dispongo al momento sono che potrò aiutarvi a sveltire la ricerca degli altri predestinati a intraprendere il nostro stesso cammino purché abbiate la pazienza di attendere qui a Meteora che io, attraverso la meditazione, riesca ad individuare il richiamo del loro cosmo e che un altro nemico è già da tempo sulle vostre, o se preferite nostre, tracce. Costui non deve essere sottovalutato poiché è in grado di celare il proprio cosmo al punto che io non riesca a percepirlo costantemente ma solo quando esso entra effettivamente in azione».

All’esterno della caverna, mentre i due cavalieri ascoltavano in religioso silenzio il monologo dell’albino limitandosi a scambiarsi qualche incredula occhiata, il monaco Xuto udì nuovamente il suono della campanella che lo avvertiva della necessità di calare ancora una volta la cesta verso la terrazza che era situata al termine dell’irto sentiero lungo il fianco della montagna dove sorgeva il monastero.

«Che sia Gregentios dimentico di qualcosa? Oppure qualche altro inaspettato visitatore?» pensò il giovane monaco recandosi con passo sostenuto verso il paranco. In ogni caso la situazione era tanto inconsueta quanto sospetta: in genere il vecchio oste non operava più di una consegna a settimana e attendeva il viaggio successivo per recuperare, come nel caso odierno, i vuoti di ciò che aveva recapitato; inoltre non era periodo di feste religiose o di pellegrinaggi al monastero e, per tanto, l’insistente tintinnio della campana restava avvolto da un mistero che, comunque, sarebbe stato svelato di lì a poco.

Xuto prese a far girare la manovella che regolamentava il movimento della fune legata alla cesta. Essa scese leggera e veloce lungo la ripida e levigata parete rocciosa per poi rifare, ora appesantita, lo stesso percorso all’inverso nell’arco di pochi minuti.

Quando l’inconsueto sistema di trasporto fu quasi al livello del piano di calpestio della piazzetta, Xuto avvertì improvvisamente l’alleggerirsi del carico per conseguenza del quale tirò con non necessaria troppa energia l’impugnatura della manovella finendo per perdere l’equilibrio e per cadere rovinosamente a terra sulle proprie natiche. Da quella goffa posizione il suo sguardo fu abbagliato per un istante dalla luce del sole.

L’accecamento durò però il tempo di un battito di ciglia. Una figura scura era balzata con un salto fuori dalla cesta e, ancora in volo, si frapponeva tra lui ed il disco solare apparendogli come un’unica, frastagliata ed indistinguibile sagoma nera. La sola cosa che, prima che un pugno violento e metallico lo raggiungesse in pieno volto facendogli sputare due denti, riuscì a mettere a fuoco fu che l’oscura apparizione si stava liberando del mantello in cui era avvolta.

Prima di ricadere sul lastricato della piazzetta, quest’ultimo, come una foglia in autunno, galleggiò nell’aria per alcuni secondi che al monaco sembrarono anni. Poco più in là del punto in cui il drappo finì per posarsi, un uomo dal viso pallido e scavato osservò con la coda di un occhio malvagio il giovane monaco riverso al suolo, incredulo e dalla bocca sanguinante. Per sua fortuna costui non lo degnò di più di quello sguardo traboccante di rabbia; altri monaci che da lontano avevano assistito alla scena stavano accorrendo in soccorso del loro compagno.

Non essendo evidentemente Xuto una manaccia, l’invasore scattò in direzione di questi ultimi. Quando le due parti si ritrovarono in prossimità l’una dell’altra non vi fu né uno scontro, né un pugno o un calcio, nulla di tutto ciò. Semplicemente i monaci, mano a mano che si avvicinavano a colui che era balzato fuori dalla cesta, si bloccavano quasi fossero stati pietrificati e, in pochi attimi, spiravano perseverando comunque nel mantenere la posa assunta nell’ultimo alito della propria innocente vita.

Sconcertato e paralizzato dall’orrore, Xuto si rese conto solo in quel momento che l’assassino dei suoi compagni, gettando al vento il sudicio mantello, aveva scoperto e dava sfoggio di un’armatura se possibile ancora più sinistra del suo sguardo famelico di sangue. Essa lo ricopriva da capo a piedi, era del colore dell’argilla umida e caratterizzata nell’elmo, nella cintura e nei copri spalle da degli artigli che assomigliavano alle unghie e ai canini di una bestia immonda. Inoltre, come la calura estiva che a volte fa apparire l’orizzonte tremolante, gli sembrò che quell’uomo venuto da chissà dove per seminare terrore e distruzione nel tranquillo monastero di Meteora fosse circondato da un’aurea gassosa, violacea e portatrice di morte certa.

Nel concitato susseguirsi di quei tragici eventi, il solo motivo di pace di Xuto fu quello di vedere l’orrida figura imboccare il porticato sul fondo della piazza e scomparire alla sua vista dopo aver imboccato la scaletta che conduceva al rifugio di Chrysante.

Quest’ultimo aveva appena terminato di parlare a Theodote e Demetrios quando si irrigidì improvvisamente interrompendo quel suo essere così quieto ed imperturbabile che lo aveva contraddistinto sino a quel momento.

Un olezzo pungente e penetrante si stava impadronendo dell’antro dell’albino.

Chrysante scattò d’impulso passando da quella sua strana postura meditativa alla posizione eretta, fece un passo in avanti ed afferrò per i mantelli i due cavalieri stringendoli a sé sotto i loro sguardi sorpresi.

«Khan» fu poi la parola che l’albino pronunciò a gran voce.

Intorno al trio si formò una sorta di sfera costituita da una flebile luce che, se osservata con occhio attento, sarebbe apparsa come un infinito fascio di vortici luminosi in continua nascita, evoluzione ed disgregazione. Se tutto ciò non fosse bastato a lasciare senza parole i due giovani, questo prodigio creato dallo straordinario potere di Chrysante, sfidando ogni legge della fisica, si staccò da terra di qualche spanna con loro tre ancora all’interno.

Sia Theodote che soprattutto Demetrios restarono completamente basiti ed incapaci di proferire anche una sola sillaba mentre Chrysante, al contrario, seppur ancora con le palpebre completamente abbassate, pareva fissare un punto preciso dell’ingresso della stanza in cui stavano galleggiando.

Da dietro uno spuntone roccioso situato a lato dell’ingresso fece il suo ingresso in scena colui che dopo un lungo inseguimento aveva finalmente stanato le sue prede.

Theodote strinse i pugni e serrò la mandibola per la rabbia, dopodiché disse:

«Io ti ho già incontrato, maledetto. Ti riconosco, tu sei l’uomo che si nascondeva dentro alla baracca del bivio tra Larissa e Meteora! Che cosa vuoi da noi? Smettila di celarti nell’ombra ed esci allo scoperto!»

Uscendo dalle tenebre ed esponendo il proprio ghigno e la propria lucente armatura, lo sconosciuto rispose con la voce rauca che lo contraddistingueva:

- Oh sì, ci siamo già conosciuti cavaliere ma in quell’occasione non abbiamo avuto modo di presentaci. Io sono Niobe della stella della terra oscura. Dopo l’inverosimile caduta di quell’incapace di Caronte, mi è stato assegnato l’incarico di riparare al suo fallimento rintracciando prima ed uccidendo poi Theodote di Atene. Nel fare ciò mi ero mosso con particolare perizia seguendo la scia del tuo cosmo ed attendendoti al bivio fuori Larissa. Quando puntualmente giungesti all’appuntamento con la trappola che ti avevo teso, fosti in grado di stupirmi; che sia chiaro, sono rimasto impressionato da null’altro se non dalla tua stupidità. Infatti non solo ti sei presentato laddove ti aspettavo, ma mi hai usato la cortesia di farti accompagnare da un altro idiota del tuo calibro che impudentemente mi ha svelato sia la vostra destinazione che il vostro obiettivo. Appreso ciò ho optato per indicarvi la strada sbagliata da seguire, precedervi sino a Meteora, far fuori anche l’albino ed attendervi qui. Non ho ancora capito come possiate aver fatto, pur imboccando la via errata, a ridiscendere a valle sino alla strada principale e quindi giungere a Meteora prima di me. Per tutto il tragitto ho considerato di avervi alle spalle mentre invece avete sempre continuato a precedermi. Ciò nonostante questo non cambia di molto l’epilogo della storia: dovevo tornare con la testa dell’ateniese e così farò, in aggiunta ad essa porterò con me altre due anime, non male come bottino di caccia, che ne dite? Sono sicuro che il mio signore, anche se in fin dei conti avrò impiegato un po’ più tempo e di energie per svolgere l’incarico assegnatomi, non sarà affatto dispiaciuto.

«Chi è questo tuo famigerato signore che continua ad inviare dei sicari senza svelare il suo nome?» chiese con rabbia Theodote.

«Chi sia colui che brama le vostre vite non ha alcuna rilevanza. La sola cosa che vi deve essere chiara è che per eliminare dei microbi insignificanti come voi, il mio Dio né si sporcherà mai personalmente le mani né si darà particolare preoccupazione. Ora preparatevi a morire! Come ho fatto con i monaci qui fuori, non dovrò nemmeno muovere un solo muscolo per sbarazzarmi di voi, il mio gas letale svolgerà efficacemente il suo lavoro al posto mio» sentenziò Niobe.

Solo in questo momento, mentre una nube viola iniziava ad invadere interamente la caverna, prese la parola Chrysante:

- ora mi è chiaro il motivo per il quale non riuscivo ad identificare con chiarezza l’aura malefica che ti appartiene. E’ quella tua nube tossica a soffocare e a celare il tuo cosmo. Quando la espandi diventi come invisibile ed è per questa ragione che la percezione che avevo di te andava e veniva; ero riuscito ad individuarti nei pressi di Larissa, poi sei scomparso per riapparire qui a Meteora, sparire ancora a pochi passi da qui per poi presentarti in ultima istanza davanti a noi. Infine dunque non sono stato io a doverti cercare ma sei stato tu a presentarti al mio cospetto. Mi dispiace contraddirti ma il tuo attacco gassoso non può avere effetto su di me e su questi giovani cavalieri. Nulla può oltrepassare la sfera di energia che ci protegge, tantomeno un veleno leggero come l’aria quale è il tuo.

Udendo le parole di Chrysante, Niobe scoppiò in una sonora risata per poi affermare:

- Forse hai ragione albino, il mio attacco non ha effetto dato che a quest’ora sareste dovuti essere tutti e tre morti da un pezzo. Ti faccio dunque i miei complimenti per la tua tecnica di difesa, sei stato il primo a riuscire a capire e a contrastare la mia mortale fragranza; devo però farti notare che vostro malgrado non potrete restare chiusi all’interno della vostra bolla in eterno e, per tanto, prima o poi sarete costretti ad uscirne e a respirare il mio veleno. Inoltre posso ben immaginare che nessuno di voi tre sia in grado di muovere un attacco alla mia persona senza mettere un piede fuori da lì. Dunque, care le mie lepri nascoste nella tana, facciamo ritorno al punto di partenza: morite dentro la vostra sfera o risparmiate del tempo a me e voi stessi ed abbracciate la morte uscendo da lì?

Theodote e Demetrios si scambiarono uno sguardo estremamente preoccupato rendendosi conto che ciò che il loro aspirante assassino andava dicendo non erano fandonie. Chrysante al contrario non pareva essersi lasciato sconvolgere dalle considerazioni dell’avversario.

Infatti, dopo qualche attimo di riflessione, rilanciò alle parole di Niobe con un affermazione che ebbe il merito di minare in profondità le sue convinzioni:

- Niobe, come ti dicevo pocanzi, infine sei stato tu a farci risparmiare del tempo venendo sino al monastero di Meteora. Come hai già tu stesso realizzato il tuo attacco non può penetrare la difesa che ho edificato ma hai commesso un errore fatale nel pensare che io non sia in grado di fare sì che il mio potere riesca ad esulare da questa barriera insuperabile. Dunque, prima di colpirti, ti chiedo «sei ancora convinto di essere stato per tutto questo tempo il cacciatore e non la preda?»

Il nemico lo guardò con fare interrogativo a mezzo dei i suoi occhi taglienti, poi riprese a ridere burlandosi di Chrysante.

«Io preda? Ma sei pazzo albino? Forse la clausura di ha dato alla testa, come credi che un guerriero del mio valore possa in qualche modo soccombere innanzi a dei codardi come voi?

Chrysante sorrise ironicamente, poi, accompagnandosi con alcuni delicati gesti delle mani e delle dita, pronunciò quella che fu la sentenza di morte di colui che ancora si divertiva a burlarsi di lui:

- Codardi? Sino ad ora in te ho visto solamente un segugio che sparge la propria puzza al proprio passaggio. Preparati Niobe, questo è il tuo epitaffio: abbandono dell’oriente!

Intorno al tanto malvagio quanto spocchioso rivale si materializzarono immagini e suoni che arrestarono all’istante il suo ridere. Egli sembrò sprofondare in una sorta di stato catatonico mentre a Demetrios parve di scorgere le sagome eteree degli spiriti avvinghiargli gli arti inferiori. Improvvisamente la sua armatura esplose in centinaia di pezzi, poi Chrysante, continuando ritmicamente a muovere polsi e mani, sillabò con un filo di voce:

- tatto, gusto, olfatto, udito, vista.

In concomitanza con questi cinque passaggi, la pelle, ora non più protetta dall’armatura, parve sputare letteralmente buona parte dei liquidi presenti nell’organismo di Niobe, dei rigagnoli di sangue colarono dai lati della sua bocca, dal naso e dalle orecchie, la luce nei suoi occhi si spense lasciando le sue iridi di un uniforme azzurro pallido. La nube violacea si diradò mentre anche la bolla di energia che aveva protetto tanto Chrysante quanto i due giovani si dissolse al comando dell’albino. Quest’ultimo avanzò lentamente verso il nemico che ora appariva ai loro occhi come un’inerme larva umana. Theodote e Demetrios, incapaci di credere alla violenza inaudita che si era abbattuta su Niobe, restarono immobili al loro posto senza nemmeno rendersi conto di riavere appoggiato i piedi al suolo. La sola cosa che osservarono fu l’immagine di schiena di Chrysante il quale, raggiunto l’impotente avversario ormai piegato sulle ginocchia, accostò il viso i palmi delle mani al viso di lui. L’intero corpo di Niobe fu irrorato da una luce fortissima sotto la quale, quello che sino a pochi minuti prima pareva essere un pericoloso avversario, si sgretolò come un pupazzo d’argilla.

Demetrios, provando mollezza alle gambe, si accasciò al suolo, Theodote, pur non essendone sicuro, avrebbe giurato che Chrysante detto l’albino avesse finalmente spalancato i propri occhi.