CAPITOLO XII
«Stento ancora a credere a tutto ciò che è successo! Prima quell’assurda nebbia, poi l’attacco di quell’essere infernale, il modo in cui ha evidentemente tentato di farci fuori, la tua pronta reazione, il fatto di essere riuscito, se posto sotto pressione, ad esercitare il mio potere addirittura sull’intera superficie del mare: sono tutte cose incredibili che, anche se le ho appena vissute in prima persona sulla mia pelle, mi sembrano un sogno o forse più probabilmente un incubo» ripeteva Demetrios più a sé stesso che non nei confronti di Theodote che era impegnato a stringere i nodi delle cime di ormeggio dell’Athena finalmente giunta al porto di Vòlo.
Quest’ultimo lo ascoltava rispondendo esclusivamente con qualche cenno di assenso o con alcuni sorrisi atti a rincuorarlo nel tentativo di dimostrare al suo nuovo amico che almeno lui aveva superato la paura per averla scampata solo per un pelo.
In realtà sentiva ancora il cuore in gola e le ginocchia molli e, se non fosse stato per l’adrenalina che tuttavia perseverava a scorrergli fluente nelle vene, probabilmente Theodote si sarebbe accasciato sulla nuda pietra del molo baciando terra e ringraziando gli Dei di avergliela fatta toccare sano e salvo.
Atthia e Patros erano guerrieri più anziani ed esperti di lui e, anche se non lo avrebbe mai e poi mai confessato a Demetrios, il duello avuto con Caronte era stato per il giovane cavaliere il primo vero e proprio scontro contro un nemico di tale caratura; non che gli estenuanti allenamenti a cui lo avevano sottoposto i due compagni d’arme fossero delle sciocchezze ma, durante quelle esercitazioni, almeno loro non avevano seriamente intentato di privarlo della vita.
In ogni caso tirò un profondo sospiro di sollievo e si disse, così come la sua amata Dea gli aveva predetto, che la sua missione ed in generale l’esistenza di un cavaliere non erano cose per uomini deboli. Il suo destino ed il suo incarico erano qualcosa di ancora per certi versi misteriosi e per tanto affascinanti. Non si sarebbe dato mai per vinto e, per tanto, sarebbe andato avanti per la sua strada a testa bassa incurante dei pericoli che il fato aveva in serbo per lui. Con i piedi ben saldi sulla terra ferma, si guardò intorno osservando il litorale di Vòlo che, accompagnato dalla luce del mattino, si stava accendendo di vita. Theodote era solo alle prime battute del suo lungo viaggio. Ciò che doveva fare ora era raggiungere il luogo denominato Meteora e trovare questo fantomatico Chrysante detto l’albino ma, prima di ciò, vi era da capire se Demetrios si sarebbe aggregato o meno alla spedizione.
«Bene, io infine sono arrivato a destinazione. Ti ringrazio infinitamente per aver mantenuto la parola data e per aver contribuito a far sì che oggi io faccia ancora parte di questo mondo. Che Athena vegli su di te» strillò Theodote rivolgendosi al capitano della nave che portava lo stesso nome della Dea e, nel farlo, abbassò il capo in un ampio inchino.
Demetrios, che era ancora intento a seguire le operazioni successive all’attracco, lo guardò con un’aria a metà tra il combattuto ed il malinconico, restò qualche istante in silenzio, si morse le labbra ed infine si limitò a salutare il cavaliere sceso a terra con un altrettanto vistosa riverenza.
«Buona fortuna amico, che Athena sia anche con te» furono le sole parole di encomio che il marinaio riuscì a proferire.
Theodote lo fissò per l’ultima volta. Aveva sperato che quel potenziale cavaliere dotato di quella singolare capacità di modificare lo stato dei liquidi lo seguisse ed decidesse di abbracciare la sua causa. Ciò nonostante una decisione del genere non poteva e non doveva essere imposta a chicchessia, la scelta di sacrificare tutto sé stesso in nome della Dea e dando seguito al dono che casualmente le stelle avevano conferito ad alcuni eletti, doveva assolutamente essere una libera scelta.
Riflettendo su tutto ciò, Theodote percorse tutto il molo di Vòlo che non era certo lungo ed imponente come quello di Calcide sino ad imboccare la strada che conduceva fuori città e che, attraverso le campagne, lo avrebbe condotto prima a Larissa e poi, forse, in quel luogo avvolto dal mistero che pareva essere Meteora.
Il giovane era praticamente giunto sul limite della città quando udì alle sue spalle chiamare a gran voce il proprio nome. Involontariamente gli riaffiorò alla mente il ricordo della madre che, in prossimità delle mura di Atene, lo chiamava probabilmente per l’ultima volta e gli lasciava, con gli occhi lucidi per le lacrime, quella fibbia in argento recante lo stemma della loro famiglia. Altrettanto senza che ciò fosse dettato dalla sua volontà, Theodote accarezzò quell’oggetto metallico legato al cinturino in pelle di daino che serviva a reggere lo scudo e si voltò d’istinto.
Era Demetrios che, correndo a perdifiato, si sbracciava per attirare la sua attenzione. Theodote sorrise tra sé e sé ed attese che l’amico lo raggiungesse.
Ansimante e piegato in avanti con le mani appoggiate sulle ginocchia ed una sacca in spalla, il marinaio tentava di dire qualcosa:
-Ve…o…an…io.
- Ve…go anc…io a Mete…ra!
«Recupera il fiato, non scappo» gli disse con fare sereno Theodote che, nonostante le parole sconnesse di Demetrios, aveva già intuito il loro significato e per tanto si sentiva riempire il petto di gioia.
«Vengo anch’io a Meteora!» infine riuscì a scandire dopo aver fatto pace con il martellante battito del suo cuore e con i suoi brucianti polmoni. Il tutto fu per giunta scandito tramite l’aver riassunto la posizione eretta, un’espressione estremamente seria e con un ampio cenno del dito indice della mano destra che stava ad indicare che non avrebbe accettato alcun motto di protesta.
Theodote glielo afferrò e poi abbracciò il nuovo compagno esortandolo a rimettersi in marcia.
L’unica cosa che il giovane ateniese si premunì di chiedere fu:
- E l’Athena?
La mia nave attenderà il nostro ritorno senza fare troppe storie. E’ ben legata al molo di Vòlo e, per tanto, non va da nessuna parte senza di noi rispose serenamente Demetrios il quale però poi fece una breve pausa, fermò il suo passo e continuò in tono del tutto ironico
- Aspetta un istante: i nodi delle cime di ormeggio li hai fatti tu? Sono rovinato! Temo di aver appeno perso la mia adorata imbarcazione.
Theodote lo guardò beffardamente, lo sguardo di Demetrios, falsamente accigliato, si distese, poi i due scoppiarono in una sonora risata e si indirizzarono verso Larissa.
Camminarono per tutta la giornata attraversando la vallata che si estendeva alle spalle della città di Vòlo sino a giungere alla grande pianura oltre la quale la strada maestra, attraverso enormi campi coltivati e dorati dal colore giallo intenso del grano maturo, li avrebbe condotti verso la prima tappa del loro viaggio. Con l’arrivo della sera, misero in piedi un improvvisato bivacco e si riposarono davanti al fuoco. Mangiarono alcune focacce e del pesce esiccato che Demetrios aveva provvidenzialmente portato con sé. Nel buio della notte e sotto il cielo stellato di Grecia si intravedeva in lontananza un fioco bagliore che dimostrava loro la non eccessiva lontananza di Larissa; il mattino successivo l’avrebbero raggiunta e poi là avrebbero domandato informazioni per proseguire verso Meteora.
Prima di prendere sonno i due compagni parlarono a lungo di ciò che gli era capitato in mare e soprattutto di ciò che il futuro aveva in serbo per loro. Senza poterlo sapere, Theodote fece praticamente uso delle stesse parole che Atthia utilizzò per rincuorare Alexandros dopo il loro scontro notturno con Raimi.
Il mattino successivo entrarono in città dalla porta principale delle alte e ruvide mura in pietra dello stesso colore della terra. Larissa si presentava come una città ricca e ben organizzata, fu subito chiaro come quella polis giovasse della sua strategica posizione geografica che la situava al centro di uno snodo commerciale molto importante per i traffici tra il nord ed il sud della Grecia. Le strade erano pulite ed ordinate, la più parte dei palazzi e delle case presentava una forgia architettonica alquanto raffinata, le botteghe si susseguivano una dietro l’altra mentre, di tanto in tanto, i colonnati dei templi e dei teatri facevano da cornice a piazze che, con il passare delle ore del mattino, andavano animandosi di una folla di gente chiassosa ed indaffarata.
Mentre sopra le loro teste il cielo andava oscurandosi ed una preoccupante massa di nubi scure proveniente dalla costa pareva avvicinarsi, Theodote e Demetrios ottennero da un commerciante di spezie e sementi l’informazione che andavano cercando. Il bottegaio, che era il titolare di un negozio stracolmo di sacchi di ogni dimensione e provenienza contenenti prodotti di ogni genere i cui aromi inebriavano tutta la via antistante attirando gli avventori, disse loro che per raggiungere Meteora avrebbero dovuto uscire dalla porta ovest della città, imboccare la strada principale che, in teoria, li avrebbe potuti condurre sino a Ioannina; consigliò loro di cercare di tenersi sempre la catena montuosa, che avrebbero incontrato dopo essere usciti dalla città, sulla loro destra perché, in verità, inerpicandosi sulle alture, la via principale sarebbe divenuta estremamente più accidentata ed impervia sino ad assomigliare più ad un sentiero di montagna che ad altro. «Se non smarrirete la strada, dovreste raggiungere Meteora nel giro di due o tre giorni di cammino»: questa fu la stima dell’uomo. Infine, mettendo il naso fuori dalla bottega ed alzando gli occhi al cielo, consigliò ai due ragazzi di rimandare la partenza perché, a suo modo di vedere, di lì a breve si sarebbe scatenato un bel temporale.
Incuranti del parere del negoziante, Theodote e Demetrios, dopo averlo ringraziato per l’aiuto ricevuto, si allontanarono e, nel giro di qualche decina di minuti, si ritrovarono nuovamente fuori dalle mura di Larissa.
«Come sai io sono un uomo di mare e qui siamo sulla terra ferma, ma quelle nubi là dietro effettivamente non promettono nulla di buono. Non credi che sarebbe meglio ripensare alle parole di quel venditore di sementi e aspettare in città che il tempo migliori? In quindici minuti al massimo potremmo essere di nuovo al coperto» chiese un po’ preoccupato Demetrios.
Theodote volse ancora una volta gli occhi al cielo.
«Effettivamente anche a me non pare il tempo migliore per mettersi in viaggio per un luogo così remoto però, come ben sai, la nostra missione non ammette pause di riflessione e non tiene troppo conto delle nostre esigenze personali. Fatti coraggio amico, se pioverà vorrà dire che ci bagneremo. In verità per il momento non credo di essere messo poi così malaccio rispetto alla tabella di marcia che mi ero prefissato, dobbiamo trovare questo Chrysante e sentire cosa ha da dirci di così importante al punto di essere stato nominato direttamente dalla Dea Athena, poi ti prometto che tireremo un po’ il fiato» gli rispose Theodote cercando di incoraggiarlo.
Demetrios si esibì in una smorfia di dissenso ma poi, mentre alle loro spalle le nubi si facevano sempre tanto più minacciose quanto prossime ed un vento gelido iniziava a soffiare sui loro volti, riprese il passo senza particolari lamentele.
Theodote, senza che l’amico se ne potesse accorgere, sorrise ripensando alle sue stesse parole: in genere era lui quello che, correndo dietro ad Atthia e a Patros, si lamentava e trovava una scusa per fare una sosta; ora invece stava succedendo l’esatto contrario e la cosa per un certo verso lo divertiva.
Quando ormai le mura della città di Larissa non furono più visibili, il cielo era ormai completamente coperto e delle piccole gocce di pioggia fredda iniziarono a picchiettare sulla loro pelle. La tiepida brezza marina aveva spinto le nubi cariche d’acqua sino nell’entroterra dove il vento freddo che discendeva dalle montagne tentava di respingerle indietro: lo scontro tra queste due forze naturali contrastanti fece sì che nel giro di pochi minuti qualche innocua goccia d’acqua si trasformasse in una tremenda burrasca. I due cavalieri si trovavano esattamente al centro dell’occhio del ciclone. Intorno a loro non vi erano ripari se non qualche albero sotto il quale era sconsigliato trovare rifugio a causa del pericolo dei fulmini che, seguiti da tuoni frastornati, Zeus in persona pareva scagliare rabbiosamente dalla cima dell’Olimpo in loro direzione; la strada, che sino a pochi minuti prima era secca e polverosa, si era rapidamente tramutata in un fiume di fango del quale si stavano imbrattando dalla punta dei calzari sino all’altezza delle ginocchia. Così aspramente battuto dalla pioggia, l’ambiente circostante appariva loro come una massa uniforme e dai contorni poco definiti dove anche i suoni risultavano così ovattati dall’incessante schiantarsi al suolo della massa d’acqua da essere recepiti praticamente tutti sulla medesima tonalità.
Coperti dai loro mantelli sino alla sommità del capo, accelerarono il passo solo quando avvistarono in lontananza qualcosa che, nel mezzo di quell’ambiente così confusamente uniforme, parve loro un segnale di una pregressa presenza umana: si trattava di una baracca ormai in rovina probabilmente appartenuta un tempo a qualche pastore. Erano essenzialmente quattro lati di sassi circa squadrati e dalla statica barcollante che sorreggevano delle assi di legno consumato che fungevano da tetto; sul lato rivolto a est vi era un’apertura che ancora conservava i cardini arrugginiti che una volta dovevano reggere il portoncino d’ingresso ora scomparso.
Theodote e Demetrios si scambiarono uno sguardo d’intesa. Non era passato poi molto tempo dalla pronunciazione dei buoni e fermi propositi del giovane ateniese ma la tempesta stava, se possibile, ancora aumentando d’intensità.
Quando, completamente fradici, raggiunsero il rudere si resero conto che la costruzione, oltre che apparire loro in quel momento come un insperato ricovero, segnava anche una biforcazione della strada maestra della quale il negoziante di Larissa non aveva fatto cenno.
Ciò nonostante avrebbero pensato a come risolvere l’intoppo solo dopo la fine del nubifragio.
Theodote precedette l’amico nel varcare la soglia d’ingresso. Non appena mise il piede dentro il rudere fu immediatamente colpito, e per un certo verso disgustato, da un odore tanto pungente quanto malevolo. Il cosmo del cavaliere pizzicò i suoi sensi mettendolo sull’allerta. Theodote distese il braccio destro impedendo così l’accesso al compagno che lo seguiva come un’ombra, abituò i suoi occhi all’oscurità che regnava all’interno di quel piccolo ed angusto ambiente dove la luce, insieme alle infiltrazioni d’acqua, penetrava esclusivamente dalle fessure presenti tra un’asse e l’altra del tetto.
L’attenzione del cavaliere fu immediatamente attirata da una sagoma scura che, immobile ed accovacciata a terra, li osservava dall’angolo opposto al loro.
Theodote trasalì per la sorpresa e, mettendosi comunque sulla difensiva, chiese:
- Perdonateci signore, siamo stati colti come immagino anche voi, da questo improvviso temporale. Siamo in viaggio verso una località chiamata Meteora. Abbiamo scorto questa baracca e ci è sembrato un buon riparo ma non credevamo che fosse già occupata da qualcuno.
La figura, che era completamente avvolta da capo a piedi da un ampio mantello scuro, sollevò leggermente la testa e rispose con voce rauca:
- Meteora? E che dovete andare a fare sin lassù?
«Stiamo cercando un uomo di nome Chrysante detto l’albino» si affrettò a rispondere Demetrios che, ancora con la testa sotto l’acqua, non aveva molta voglia di tergiversare o di perdere ancora del tempo in presentazioni con un perfetto sconosciuto. In tutta risposta alla sua frettolosa affermazione ricevette una severa occhiata di rimprovero da parte di Theodote il quale, nonostante tutto, perseverava a sbarrargli l’ingresso.
Un fulmine cadde non molto lontano da tutti loro e, per un istante, l’abbagliante luce prodotta dal lampo balenò attraverso le fessure della copertura della capanna andando ad illuminare il volto di colui che sedeva sul fondo della baracca: un paio di occhi taglienti e minacciosi raggelarono il sangue nelle vene di Theodote.
Quest’ultimo fece un passo all’indietro e fece cenno con lo sguardo a Demetrios di allontanarsi.
«Come non detto signore, non vogliamo disturbarla oltremodo. Lei è arrivato qui prima di noi e dunque ha tutto il diritto di ripararsi dalla pioggia. In fin dei conti siamo forti e giovani e non sarà certo un temporale ad ucciderci» si affrettò a sottolineare Theodote abbassando il capo per non sbatterlo contro lo stipite superiore dell’ingresso.
«Non sarà certo un temporale ad uccidervi» ripeté la voce nuovamente circondata dall’oscurità.
«Comunque la strada per Meteora è quella di destra» gracchiò infine.
Mentre si allontanavano Demetrios alquanto spazientito chiese spiegazione al compagno di viaggio:
- Ma che cosa ti è preso? Sei in grado di fare cose come quelle che ho visto sull’Athena e poi ti fai intimidire dal primo viandante che incroci con dei modi non particolarmente gentili? Ti ha per caso dato di volta il cervello? Ti faccio notare che quella baracca non era certo una reggia ma almeno non ci pioveva dentro più di tanto. Se non te ne fossi accorto siamo totalmente all’aperto, siamo completamenti zuppi, inizia a fare davvero freddo e la tempesta non mi pare accenni a diminuire!
«Non te lo so spiegare amico, ma ho avuto una brutta sensazione e ho preferito la pioggia ed il freddo alla compagnia di quell’individuo. Magari è stata solo la suggestione derivatami da quel luogo lugubre o da quell’odore mortifero che vi albergava, ma Patros, che tu ancora non conosci, mi ha sempre insegnato a seguire il mio istinto che, a suo dire, è una sorta di sesto senso che in noi uomini scelti dalle stelle è anche più sviluppato che nel resto dell’umanità» affermò il fradicio ateniese.
Demetrios sospirò e, allargando le braccia rinunciando a ribattere nuovamente, si limitò a chiedere:
- Va bene, diamo per buono il tuo istinto ma almeno vuoi dirmi se prendere la strada di destra come ti ha suggerito quello là o non ti vuoi fidare proprio per niente e allora prendiamo la strada di sinistra?
«Non saprei. Il bottegaio di Larissa non ci aveva parlato di questo bivio ma ci aveva chiaramente raccomandato di tenerci le montagne sulla destra. Quelle mi sembrano proprio montagne, dunque, a rigor di logica, dovremmo prendere la strada di destra come ha detto l’uomo dentro la baracca nonostante mi abbia ispirato tante cose ma non di certo della fiducia» concluse Theodote.
«E destra sia, andiamo».
Dopo circa mezzora di cammino, quella che era una strada infangata si era tramutata in un sentiero impervio e costellato di rocce scivolose. A Demetrios, tra le altre cose, pareva che il loro cammino, oltre ad essere sempre più tortuoso e difficoltoso di minuto in minuto, stesse lentamente volgendo verso nord; ciò gli era confermato dal fatto che la catena montuosa che avevano preso come punto di riferimento dopo il bivio fosse passata dal trovarsi sulla loro destra all’essere loro difronte sino, sempre costantemente sotto una pioggia torrenziale, ad iniziare a curvare verso la sinistra. Quando i due stavano quasi per fermarsi una seconda volta, in lontananza, mentre la tempesta pareva dare i primi segni di cedimento, intravidero la sagoma di un altro viandante. Per un solo istante la mente di Theodote fu attraversata dall’idea che quella figura in avvicinamento potesse essere la stessa persona incrociata nella baracca; si mise subito sulla difensiva ma poi dovette ricredersi notando che l’uomo che stava percorrendo il sentiero in direzione opposta alla loro non indossava un mantello scuro ma, al contrario, una tunica con cappuccio del colore del lino. Attesero quindi che quest’ultimo li raggiungesse. Quando furono faccia a faccia si resero conto della statura elevata del viandante il quale, da sotto il cappuccio, lasciava intravedere dei lineamenti tipicamente greci accompagnati da vividi occhi e da folti capelli scuri.
Costui fu il primo a rivolgere loro il saluto e a chiedere:
- Dove siete diretti? Dovete essere impazziti ad inerpicarvi su queste montagne e con questo tempo.
Demetrios, memore della recente esperienza, optò per tacere. Fu così che, dopo qualche secondo di esitazione, Theodote prese la parola rispondendo però in modo molto sintetico:
- Dobbiamo raggiungere Meteora? Sapete per caso se siamo nella direzione corretta?
L’uomo sgranò gli occhi che parvero luccicare, poi indicò ai due cavalieri ciò che dovevano fare:
- Siete completamente fuori strada. Questo è un sentiero che conduce verso il nord della regione dove troverete solo i pascoli dove i pastori come me portano le proprie greggi a partire da questo periodo dell’anno sino al termine dell’estate. Immagino che abbiate sbagliato direzione al bivio che si trova giù a valle; siete saliti sulla destra mentre invece avreste dovuto proseguire sulla sinistra seguendo la strada maestra che, passando anche per Meteora, conduce sino a Ioannina.
«Sesto senso? Istinto?» ironizzò Demetrios.
L’uomo pareva sapere il fatto suo e, sesto o non sesto senso, era riuscito a trasmettere a Theodote un senso di fiducia ben più concreto rispetto al losco figuro nel quale si erano imbattuti alla baracca.
«Quindi dobbiamo ridiscendere sino al bivio?» chiese.
«Non serve! Siete stati alquanto fortunati nell’esservi imbattuti in me proprio a questo punto del sentiero. Vi sarà sufficiente ripercorrere il vostro cammino di un solo tornante e poi tagliare per il bosco sino a quando non incontrerete nuovamente la strada principale; così facendo eviterete di dovere ripassare dal bivio e guadagnerete almeno un’ora abbondante di marcia» ribatté prontamente il sedicente pastore.
Theodote e Demetrios si scambiarono un cenno d’intesa, poi ringraziarono caldamente il loro fortunato incontro. Ripercorsero dunque di poche decine di passi il sentiero e discesero lungo il bosco arrampicato sul pendio.
Il capitano dell’Athena si voltò cercando con lo sguardo colui che forse aveva loro risollevato quella giornata che sino ad allora era stata tutt’altro che gradevole ma di lui non v’era più traccia alcuna.
«Che tipo strano» si limitò a dire a Theodote che lo precedeva solo di un paio di metri.
«Già! Decisamente curioso ed anche misterioso a mio parere» ribatté.
«Al di là che non sarebbe il primo incontro enigmatico di questa piovosa giornata, per quale ragione dici così, amico?» chiese incuriosito Demetrios.
Theodote, stringendosi tra le spalle, si limitò a sottolineare che quello strano individuo apparso all’improvviso come inviato da degli Dei benevoli, aveva tutto fuorché l’aspetto di un pastore. La postura elegante, il mantello non sudicio, lo sguardo fiero e soprattutto, chiese a Demetrios:
- Tu hai mai visto qualcuno che passi la sua vita a pascolare un gregge possedere un paio di calzari così belli e particolari come i suoi?
Demetrios si esibì in un’espressione ancora più interrogativa.
Theodote allora proseguì il proprio discorso:
- Non li hai nemmeno notati? Erano dei calzari di un cuoio di pregevolissima fattura adornati ai lati con due piccole ali in argento.
Nel giro di non troppo tempo i due discesero il pendio e ritrovarono la strada maestra che li avrebbe condotti sino alla loro destinazione finale. Sopra le loro teste le nubi nere e cariche di pioggia si stavano diradando lasciando spazio ad un cielo azzurro e limpido come gli occhi della loro amata Dea.