CAPITOLO X

Il grande caldo e un raggio di sole che, filtrando tra i rami dell’albero di ulivo sotto il quale si era addormentato la sera precedente, gli batteva sulle palpebre chiuse, lo costrinsero infine a doversi svegliare nonostante la schiena gli chiedesse pietà per il dolore causato dall’aver riposato sulla nuda terra.

Alexandros si mise a sedere appoggiando il dorso dolente alla rugosa corteccia della pianta, aveva la fronte madida di sudore ed intorno a lui l’aria era tanto rovente quanto densa. Aprendo gli occhi, fu abbagliato per qualche secondo dalla luce del giorno. L’alba doveva essere già passata da un bel po’ dato che il disco solare era già alto sopra la sua testa ed al centro di un cielo terso di un azzurro turchese tipico di una giornata d’estate. Stiracchiandosi e sbadigliando, il giovane iniziò a mettere a fuoco l’ambiente circostante non maggiore nitidezza. Avvertì di avere la bocca secca; si guardò allora intorno in cerca della borraccia che era sicuro di aver lasciato a portata di mano prima di essersi coricato.

All’improvviso, con ancora buona parte dei sensi intorpiditi, se la vide arrivare incontro. Per sua fortuna ebbe la prontezza di riflessi di afferrarla al volo altrimenti l’oggetto avrebbe tranquillamente finito per sbattergli sul naso.

«Buone maniere sin dal primo mattino, eh Atthia?» disse scocciato Alexandros che comunque prese ad abbeverarsi.

«Le buone maniere ti sarebbero riservate forse se fosse per davvero mattino presto ma, come avrai potuto notare, Apollo ha già svolto i suoi incarichi da parecchie ore» gli rispose Atthia il quale, sottolineando ciò che aveva appena pronunciato con il dito indice rivolto al cielo ad indicare la perpendicolarità dello stesso sole sopra di loro, se ne stava irto sui piedi e già completamente attrezzato ed abbigliato per proseguire nella loro missione.

Non senza proteste e mugugnando qualche probabile ingiuria a proposito di Sparta e di tutti i suoi abitanti, infine Alexandros si alzò ed in pochi minuti si rese pronto a seguire il più anziano compagno verso la prossima tappa del loro incessante cammino.

«Da quando ci siamo incontrati abbiamo attraversato tutta la Beozia, la Focide, la Locride ed ora ci troviamo in Etolia; abbiamo battuto tanto la costa quanto l’entroterra senza trovare traccia di altri individui come noi. Si può sapere quanto ancora dovremmo cercare?» si lamentava Alexandros lungo il sentiero ghiaioso che stavano percorrendo.

Atthia si girò di scatto con un’espressione dipinta sul volto che non prometteva nulla di buono:

- Ti ho già ripetuto non so quante volte che la Dea Athena ci ha dato un anno di tempo per fare ritorno al punto prestabilito. Nel frattempo quanto ci sarà da camminare cammineremo, quanto ci sarà da scalare scaleremo, quanto ci sarà da lottare lotteremo, è chiaro? Sono passati solo tre mesi da quando mi sono lasciato l’Attica alle spalle, quindi me ne restano ancora nove per esplorare quanto più territorio greco le mie forze mi consentiranno di fare.

Alexandros non osò proferire parola nei confronti dello sfogo dello spartano che poi proseguì:

- Inoltre, mio giovane apprendista, tutto il tempo che trascorri con me è pura scuola per te. Hai già fatto molti progressi sia nel controllo del tuo cosmo che nelle tecniche di combattimento che ti sto insegnando. Devo dire che ti lamenti molto quando c’è da faticare e sei uno gran zuccone quando c’è da fare qualcosa che proprio non ti aggrada ma, come studente, sei alquanto in gamba.

I complimenti di Atthia, per quanto espressi all’interno di un rimprovero, diedero nuovo entusiasmo al giovane cavaliere che, comunque in silenzio e a testa bassa, perseverò a seguire il grande uomo che lo precedeva lungo quel sentiero che, complice la presenza di alcune piante grasse e l’inconfondibile aroma dolciastro della salsedine trasportata dal vento, pareva condurli nuovamente in direzione del mare.

Nel giro di poche decine di minuti quest’ultima intuizione si dimostrò essere stata pienamente indovinata; infatti la terra arida e ciottolosa lasciò posto ad un pendio più soffice e ricco di vegetazione che, dalla posizione più elevata dalla quale giungevano i due pellegrini, discendeva morbidamente verso il blu di quell’enorme massa d’acqua che, a quell’ora, sembrava quasi essere accesa come pervasa da un incendio tanto la piatta superfice marina era in grado di riflettere i raggi solari come se fosse un specchio. La visione del grande blu rincuorava sempre lo spirito di Atthia facendogli tornare alla mente quell’alba di alcuni mesi prima quando, rincorrendo il suo stesso desiderio di riabbracciare la Dea Athena di ritorno dall’Olimpo, si precipitò in compagnia di Patros e Theodote lungo il dissestato fianco di quel monte dalla cui sommità si poteva proprio osservare ed ammirare all’orizzonte l’immensa distesa marina.

Giunti sino alla riva, i due seguirono la costa per circa un’ora sino a quando non giunsero ad una spiaggia nei pressi del promontorio di Antirrio dove alcuni pescatori avevano ormeggiato le proprie barche. Atthia contrattò con uno di essi un passaggio sino al porto di Patrasso che si trovava sulla riva opposta dello stretto braccio di mare che li separava dalle rive del Peloponneso.

Panagiotes, questo era il nome del pescatore, era un uomo avanti con gli anni dai cortissimi capelli bianchi e gli occhi scurissimi come la pelle che, soprattutto su viso e mani, era solcata da profonde rughe dettate tanto dall’età quanto dalla fatica di una vita passata a lavorare duramente. Era un tipo gentile e bonario che non si limitò affatto nel voler ciarlare del più e del meno con i due compagni di traversata. A bordo della sua imbarcazione, che era essenzialmente una sorta di gozzo in legno chiaro coi i bordi verniciati di bianco ed un solo albero montante una vela alquanto consumata, Alexandros non lesinò di dare corda al vecchio Panagiotes; Atthia, come sua abitudine, restò taciturno in contemplazione dell’azzurra distesa d’acqua che li circondava. La sua mente era attraversata da decine di pensieri che, confusamente, si accavallavano gli uni sugli altri. Non smetteva un solo istante di cogitare in merito alla propria missione spesso chiedendosi se sarebbe stato ancora fortunato nell’imbattersi, così come era stato nel caso di Alexandros, in altri ragazzi predestinati. Tutto ciò era stato un caso o il fato aveva già deciso il suo destino? Inoltre era costantemente impressa nella sua mente la visione della Dea Athena che, insieme a Patros, salutavano lui e Theodote; chissà come se la staranno cavando pensava sospirando lo spartano. Infine il ricordo dell’incontro con quel demone dal quale erano stati attaccati nel cuore della notte non gli dava pace. Chi era? Che cosa voleva? Era stato un caso singolo o la sua presenza faceva parte di un disegno più grande? C’erano da aspettarsi dei nuovi attacchi da parte di demoni a lui simili? Vi era un mandante? A tutto ciò Atthia il guerriero non sapeva rispondere dunque la sola cosa che gli restava da fare era quella di proseguire indomito la missione affidatagli dalla divina Athena affrontando, abbattendo e sconfiggendo qualsiasi difficoltà o nemico che il fato avrebbe avuto la malsana idea di porre sul suo cammino.

Salutarono Panagiotes non appena furono sbarcati sul molo di Patrasso. La zona del porto era piuttosto animata e le case in sasso dove, a livello della strada, vi era una moltitudine di botteghe e di ricoveri per le attrezzature dei pescatori, faceva da cornice alla linearità del banchina. Dietro ad essa si estendeva in pianura la città che, mano a mano che i colli alle sue spalle aumentavano di quota, si andava ad inerpicare sui loro pendii. Nel dedalo di vicoli e stradine che conducevano verso il centro cittadino, Atthia e Alexandros trovarono ristoro all’interno di una piccola locanda dove si rifocillarono mangiando delle focacce di grano duro condite con del formaggio di capra e del miele ed una zuppa di legumi alquanto saporita. Il conto fu pagato con parte delle poche dracme che si erano guadagnati strada facendo svolgendo qualche lavoretto di fortuna. Placati i segnali che lo stomaco stava dando loro ormai da tempo e recuperate le energie, i due decisero di esplorare la città di Patrasso giungendo nei pressi di una grande piazza dove, tra la folla che andava e veniva in continuazione, un banditore stava urlando a squarcia gola:

- Venite all’arena di Apollo ad ammirare i migliori guerrieri provenienti da tutto il Mediterraneo. Uno spettacolo che vi toglierà il respiro. Vi proporremo lotte senza pausa a partire dal primo pomeriggio sino al calar del sole e, se vorrete essere così temerari o forse pazzi, potrete chiedere di misurarvi con i nostri campioni. Potrete scommettere su tutti gli incontri e vincere una montagna di denari. Il divertimento è garantito, accorrete numerosi.

Alexandros si lasciò entusiasmare e, come un bambino nei confronti del genitore, propose al duro spartano di andare ad assistere allo spettacolo così ampiamente decantato dal banditore pur aspettandosi da parte del compagno un secco rifiuto. Al contrario però, senza un’apparente ragione, Atthia rispose in senso affermativo senza battere ciglio. Alexandros, se pur stupito, non lasciò trapelare alcuna espressione di sorpresa e, senza indagare più di tanto, decise di non lasciarsi sfuggire la prima occasione di vero svago da quando si era imbattuto nel serioso guerriero in quella scalcinata locanda della Beozia.

Chiedendo in giro, riuscirono a raggiungere la loro meta se pur con un certo ritardo rispetto al programma annunciato dal banditore.

L’arena di Apollo non era altro che una sorta di piccolo teatro in legno chiuso su tre lati da delle tribune non eccessivamente alte dove dei tavolacci fungevano da sedute per il pubblico; sul quarto lato vi era una palizzata che serviva a separare la vera e propria arena ricoperta da un terriccio rossastro dove si sarebbero misurati i vari lottatori, dalla parte retrostante dove, all’aperto o all’interno di alcune tende, avvenivano i preparativi del pre e post incontro. Il tutto era decorato tramite dei drappi recanti delle effigi non meglio note che, comunque, non servivano a limitare lo squallore di quella struttura architettonica alquanto improvvisata. Per raggiungere le tribune dalle quali era possibile assistere alla messa in scena ci si doveva arrampicare su delle scale a pioli di legno massello.

«Almeno le scalette, contrariamente a tutto il resto, non danno l’idea di poterti crollare sotto i piedi» pensò Alexandros mentre stava saldamente agguantando una di esse per montare sopra lo spalto di sinistra.

Atthia si era fatto molto serio già da un po’ di tempo.

Nel momento stesso in cui i due riuscirono ad entrare e, facendosi largo tra la folla di pubblico che gremiva in ogni ordine di posto l’arena di Apollo incuranti della traballante struttura che reggeva le loro natiche, a trovare un buco in cui sedersi, lo stesso banditore incontrato in precedenza nel centro di Patrasso fece il suo ingresso in scena. Mentre il lottatore uscito sconfitto e malconcio dall’ultimo incontro veniva condotto di peso fuori dal recinto da un paio di portantini, il banditore, con lo stesso ardore vocale con il quale si era adoperato per richiamare i passanti ad accorrere alla "maestosa" arena, annunciò con infinita enfasi l’appropinquarsi dell’evento di giornata:

- Spettatori, graditissimo pubblico: quest’oggi, come promesso, avete potuto ammirare i migliori lottatori in circolazione ma ora è arrivato il momento di annunciare colui che solo i più audaci accettano di sfidare. Colui che nessuno riesce nemmeno a sfiorare, colui che è invincibile, colui che farebbe tremare anche un titano se si trovasse al suo cospetto.

L’uomo fece una pausa per aumentare la suspense per poi concludere l’annuncio:

- Naturalmente sto parlando del solo, unico, immenso Gordias meglio conosciuto come il toro di Creta.

Udendo il nome del campione, quasi la totalità del pubblico esplose in un motto di urla e applausi incitatori.

Da dietro la palizzata situata sul solo lato privo di tribune, tra gli incessanti cori dei presenti, fece il suo ingresso in scena il grande Gordias.

Egli era un uomo immenso, alto almeno due metri; il fisico scolpito sembrava quello di una statua di marmo di qualche eroe olimpico e, per dirla tutta, sarebbe potuto apparire come essere fatto dello stesso materiale se non fosse stato per il colore della pelle scurissima per l’abbronzatura. I lineamenti del viso squadrati ed il naso schiacciato come quello di un pugile sarebbero già stati sufficienti a far tremare le ginocchia a chiunque se lo fosse trovato davanti, ma gli occhi grandi e privi di sopracciglia così come lo sguardo assassino erano qualcosa che tagliavano il fiato in gola. Il cranio era completamente e perfettamente rasato eccezion fatta per una lunga coda di capelli nero corvino che gli nasceva praticamente sulla sommità della zucca. Indossava solo dei calzari in cuoio scuro, un gonnellino di colore rosso acceso che gli era tenuto stretto alla vita da un largo cinturone anch’esso in cuoio e due bracciali borchiati serrati ai polsi al di là dei quali uscivano, per così dire, un paio di mani così grandi da dar l’idea di poter stritolare un uomo in pochi secondi.

Gordias, pur mantenendo lo sguardo fisso davanti a sé, raccolse le acclamazioni degli spettatori rispondendo, in segno di ringraziamento, alzando le braccia a pugni chiusi al cielo; dopodiché, raggiunto esattamente il centro dell’arena, piantò saldamente i piedi al suolo e si mese in una curiosa posizione a braccia conserte in attesa che arrivasse l’annuncio del malcapitato avversario di turno.

Una volta che gli schiamazzi delle tribune presero a scendere d’intensità, il nome dello sventurato non tardò ad arrivare ancora una volta per bocca del banditore:

- Ed ecco che passo a presentarvi, o gentile pubblico, il coraggioso guerriero che andrà a battersi con il grande Gordias. Fate sentire il vostro caloroso applauso anche per Nestor di Tebe.

Dal fondo del recinto apparve un giovane ben stazzato. Dalla sua forma fisica si intuiva nitidamente che doveva essere un ex oplita: era abbastanza alto, in forma, capelli corti e castani, abbigliato circa allo stesso modo di Gordias se si faceva eccezione per i bracciali. Tra una parte di applausi e una di fischi, Nestor di Tebe si andò a posizionare non lontano dal suo avversario che già lo aveva inquadrato con quel suo sguardo che non lasciava intendere nulla di buono.

Mentre tra gli spalti gli allibratori raccoglievano le scommesse, il banditore si fece da parte andandosi a posizionare in un luogo più sicuro e decretando così l’inizio dell’incontro.

«Quello di Tebe mi sa che non ha speranze. Non so se l’hai notato ma Gordias è ancora più grosso di te» commentò sarcasticamente Alexandros dando una gomitata ad Atthia che gli sedeva accanto.

Lo spartano, serissimo in viso e totalmente concentrato su ciò che stava per accadere, non accennò né una risposta né un movimento.

Nestor, assumendo un atteggiamento guardingo, prese a girare intorno al toro di Creta che, a sua volta, non si mosse dalla strana posizione che aveva assunto una volta raggiunto il centro dell’arena qualche minuto prima. Dopo questa prima fase di studio il primo si decise ad attaccare gettandosi contro il secondo. Nestor sferrò un pugno diretto al viso dell’avversario che, come se infastidito da una mosca, schivò il colpo piegando il collo largo come il tronco di un albero da un lato; andato a vuoto il primo affondo, lo sfidante tentò di assestare un calcio il cui esito fu però lo stesso. A quel punto Gordias entrò in azione: spalancando tanto all’improvviso quanto repentinamente le sue possenti braccia colpì con un doppio pugno il povero Nastor che cadde rovinosamente al suolo in una nube di polvere rossastra. Quest’ultimo non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di come poteva essere stato fatto cadere a terra così facilmente che Gordias gli era già piombato addosso, lo aveva sollevato di peso sin sopra alla propria testa e lo aveva lanciato a distanza di alcuni metri come se il peso dell’avversario fosse quello di un fuscello di paglia. Il secondo impatto con il terreno fu devastante al punto che Nastor, picchiando di faccia sul terriccio rosso, perse i sensi e dovette essere, grondante di sangue dal naso e da un sopracciglio, trasportato fuori dall’arena ancora privo di conoscenza. Il pubblico era in visibilio, gli allibratori erano presi con soddisfazione a contare i guadagni ricavati dalle puntate di quei folli che, nella speranza di centrare il colpo grosso, avevano scommesso contro Gordias, anche Alexandros non aveva potuto fare a meno di scattare in piedi ed unirsi agli applausi del resto della tribuna, Atthia ancora non accennava a scomporsi.

Il banditore guadagnò ancora una volta l’attenzione del pubblico:

- Il toro di Creta non si batte! Ecco a voi, se mai ci fosse stato un dubbio, il vincitore di questo ennesimo incontro. Ed ora, mio adorato pubblico, purtroppo devo annunciarvi che lo spettacolo per oggi può dirsi concluso.

L’uomo fece un’altra pausa durante la quale, girando su se stesso, fece scorrere il proprio sguardo sul pubblico asserragliato sugli spalti e in attesa del colpo di scena finale. Poi, inspirando per trovare l’apice della potenza vocale, proseguì:

- Concluso ho detto a meno che…

A meno che tra di voi non vi sia un temerario che intenda offrirsi volontario per sfidare ora e seduta stante il grande Gordias!

Tra gli spalti si sparse un silenzio di tomba mentre il banditore continuava a recitare il suo ruolo guardandosi intorno ed incoraggiando di tanto in tanto l’ipotetico sfidante:

- Nessuno dunque? Non vi sono valorosi tra di voi? La pazienza del grande Gordias si esaurirà a breve, sappiatelo!

Finalmente Atthia si scosse e domandò sottovoce ad Alexandros:

- Quante dracme ci sono rimaste?

«Poche. Due o tre al massimo» fu la risposta a cui, prontamente, seguì una contro domanda:

- Ma che hai in mente?

«Vai immediatamente a puntare tutto si di me» gli disse Atthia senza nemmeno guardarlo e, alzandosi in piedi, ruppe il silenzio che, denso, aleggiava sull’arena di Apollo:

- Eccomi! Sono io lo sfidante!

Il pubblico rumoreggiò, il banditore esplose di gioia, Gordias lo stava già aspettando a braccia incrociate.

Atthia si fece largo attraverso le persone sedute nelle prime file, superò il recinto con un balzo e puntò diritto verso l’avversario.

Il banditore gli si fece incontro preoccupato andando poi a dirgli sotto voce:

- Frena il tuo impeto mio giovane ed intrepido ragazzo. Dimmi almeno il tuo nome e liberati delle tue armi.

«Il mio nome è Atthia di Sparta» rispose a voce alta il guerriero mentre smontava lo scudo dal copri spalla ed estraeva la spada dal fodero per poi andare a piantarla con forza nel terreno.

«Atthia lo spartano» ripeté a gran voce il battitore a vantaggio del pubblico che ora aveva ripreso a scaldarsi.

L’uomo, mentre Atthia si stava liberando anche della maglia in cotone e delle bretelle in cuoio scoprendo i pettorali e gli addominali che non avevano nulla da invidiare a quelli di Gordias, gli si riavvicinò:

- Sei stato coraggioso ma cerca di non farti troppo male, spartano. Detto ciò si fece da parte e lasciò che i due contendenti fossero liberi di iniziare la loro lotta.

Atthia per prima cosa si chinò sulle ginocchia raccogliendo un mucchietto del terriccio rosso che costituiva l’attuale campo di battaglia, sfregò la sabbia tra i polpastrelli saggiandone la composizione argillosa; dopodiché, rimessosi in posizione eretta, lasciò che il suo orecchio fine riuscisse a percepire tra il chiasso che lo circondava quel leggero e quasi impercettibile sibilo che il vento spirante da est gli sussurrava da sinistra.

Gordias non mosse un muscolo e non tradì un’emozione. Effettivamente, se visto faccia a faccia così come ne aveva la possibilità in quel momento lo spartano, Gordias rendeva onore al nomignolo che gli era stato assegnato: soprattutto complice il suo sguardo fermo e determinato, sembrava in tutto e per tutto un toro soffiante fumo dal naso pronto alla carica. Dagli spalti Alexandros senza più una dracma in tasca osservò preoccupato come l’amico, che non era certamente un tipo mingherlino, apparisse ora nettamente più piccolo rispetto alla mole del cretese.

Nonostante tutto Atthia aveva già scelto la propria strategia.

Mosse lo stesso attacco di Nastor affondando un destro che Gordias, come in precedenza, schivò senza particolari sforzi. Seguì, imitando dunque nuovamente la tecnica di attacco di colui che forse solo ora stava iniziando a riprendere coscienza di se stesso, un calcio ben assestato.

Gordias schivò anche quello e, come da programma, spalancò in modo fulmineo le braccia esplodendo i suoi pugni in direzione dell’avversario. Il pubblico sussultò per l’ennesima dimostrazione di pura forza del cretese e si preparò a vedere volare via lo sventurato spartano come i precedenti sfidanti ma, in un motto di stupore, si rese conto che Atthia aveva appena parato l’affondo del campione in carica. Il cavaliere aveva afferrato e chiuso i pugni di Gordias tra i palmi delle proprie mani ed ora i due lottatori si trovavano uno innanzi all’altro con le dita intrecciate spingendosi reciprocamente; specularmente puntarono la propria gamba destra in avanti mentre la sinistra fungeva da contrafforte dietro, le schiene inarcate, i muscoli tesi; sotto le suole dei loro calzari, il terriccio strideva mentre le loro pupille erano fissate le une sulle altre. Nello sforzo sovrumano in cui si stavano prodigando, potevano sentire il soffio del respiro del nemico fondersi insieme al proprio. Al centro dell’arena non vi era più un solo toro ma ve ne erano due. Atthia e Gordias si contrastavano con tutta la forza in loro possesso ma ciò nonostante nessuno dei due pareva riuscire a smuovere di un solo passo l’altro. Per gli spettatori e per lo stesso Alexandros trascorsero attimi di pura tensione agonistica mentre, poco più in basso, due cosmi affini si riconoscevano e si contrastavano in una sfida tra guerrieri di un calibro superiore.

Improvvisamente Atthia allentò la presa liberando la stretta dal pugno sinistro di Gordias. Quest’ultimo, anziché sbilanciarsi in avanti, ne approfittò immediatamente per caricare un mancino devastante. Non aveva però ancora fatto in tempo a piegare il gomito all’indietro per poi lasciare esplodere tutta la potenza del suo braccio, che Atthia stava portando a compimento il suo piano.

Accostato il proprio petto a quello di Gordias e dunque, data la vicinanza, nascondendo la propria mossa a tutti gli spettatori che, seduti sugli spalti, si trovavano a una distanza tale da non poter cogliere un simile dettaglio, appoggiò il solo dito indice allo sterno dell’avversario, bruciò una minima quantità del proprio cosmo e, di conseguenza, sparò letteralmente via da sé Gordias.

Quest’ultimo compì un volo di alcuni metri andandosi a schiantare contro il recinto ligneo posto esattamente al di sotto della panca su cui sedeva Alexandros. Il legname si fracassò con un gran fragore, Gordias non andò in schegge ma non riuscì più a rialzarsi, l’arena di Apollo esplose in un boato.

Il banditore si affrettò a raggiungere lo spartano per proclamarne la vittoria ma Atthia lo snobbò senza neanche degnarlo di uno sguardo.

In neo vincitore cercò con lo sguardo Alexandros mischiato alla folla festante e, con sua soddisfazione, lo vide già intento a riscuote la somma della vincita. A passo veloce andò poi là dove Gordias era ancora accasciato al suolo con la testa ronzante. Quest’ultimo vide l’ombra di Atthia sovrastarlo ma non ebbe paura che lo spartano volesse dargli il colpo di grazia; al contrario trovò ancora l’ardire di domandargli:

- non sono sicuro che tu mi abbia battuto in modo regolare. Mi devi una rivincita!

Atthia tramutò il suo sguardo serio ed ancora pervaso dall’agonismo dello scontro appena conclusosi in un sorriso incoraggiante, tese la mano al toro di Creta e gli disse bonariamente:

- per la rivincita quando vuoi, per il momento accetta la mia mano e lascia che ti offra da bere.

Gordias, non eccessivamente soddisfatto della proposta, sbuffò ma poi accettò di buon grado l’offerta di colui che lo aveva appena messo al tappeto e si lasciò tirare fuori da quel mucchio di assi di legno rotte in cui si era praticamente andato ad incastrare.

I due uscirono dunque insieme dall’arena tra gli applausi di tutti gli spettatori, Alexandros li seguiva con lo sguardo dalla tribuna stringendo nella mano un sacchetto colmo di dracme.

Il banditore rincorse il duo che si stava allontanando.

«Gordias, stupido caprone, mi hai fatto perdere un sacco di soldi, sai? Dove credi di andare? L’uscita degli sconfitti è nell’altra direzione. Ti ricordo che devi combattere ancora a lungo per me! In quanto a te, spartano, cosa ne pensi di esibirti ancora qui per un po’ di tempo? Ti potrei far divenire un uomo molto ricco, sai?» disse esibendo dei papiri sui quali erano riportati il contratto che il cretese aveva siglato con la compagnia dell’arena di Apollo ed un altro simile probabilmente già pronto per Atthia. I due si voltarono all’unisono: un duplice sguardo rabbioso raggelò l’uomo che, indietreggiando, non osò proseguire oltre.

Circa un’ora dopo e seduto sulla panca di legno di un’osteria del centro di Patrasso, Alexandros si sentiva come un piccolo gattino tra due leoni. Atthia e Gordias, che sino a poco prima si erano affrontati come due furie, stavano bevendo e ridendo amabilmente.

Tornando però poi a discutere dell’incontro di quella giornata, Gordias, così come Atthia, si fece di nuovo serio:

- che trucco hai usato per farmi volare via in quel modo?

«Non lo definirei "trucco" ma, in effetti, ho usato parte di un potere che di norma io sono solito chiamare cosmo» rispose serenamente Atthia.

Alexandros rimase basito a fronte della naturalezza con la quale il guerriero spartano prese a raccontare la loro storia a Gordias il quale però si dimostrò estremamente interessato ed accondiscendente.

Alla fine del racconto, Atthia concluse poi dicendo:

- Io so che anche tu hai già preso coscienza di questo dono perché, durante la nostra lotta, ne ho chiaramente riconosciuto il richiamo. Se non lo avessi udito non mi sarei mai permesso di usare il mio cosmo per atterrarti ma ti avrei battuto con il solo uso delle mie forze. Udendo quest’ultima frase, Gordias, che era rimasto in silenzio sin ora, scoppiò in una sonora risata.

«Battuto con il solo uso delle mie forze, questa sì che è buona. Te l’ho detto spartano che mi devi concedere la rivincita. Ad armi pari non avresti speranze» rilanciò Gordias.

Atthia, ricambiando la risata, rispose serenamente:

- Va bene caro il mio toro di Creta, ti do la mia parola di cavaliere che prima o poi te la concederò ma, nell’attesa, ti chiedo se vuoi unirti a noi e intraprendere la missione di cui di ho parlato.

Gordias sorrise e poi porse la destra ad Atthia.

«Io vengo con voi, tu non mi fai aspettare troppo per batterti ancora con me» rilanciò Gordias.

Atthia gli strinse la mano e, con un cenno degli occhi, esortò anche Alexandros ad unirsi alla loro stretta in una triplice intesa.

«Andata Gordias, benvenuto nelle schiere di Athena. Ora brindiamo insieme» concluse Atthia alzando la propria coppa al cielo scuro e ormai ricoperto da un tappeto di stelle.