CAPITOLO I

Seduto su una roccia ed avvolto dal fruscio del vento insinuatosi tra i lunghi e verdi fili d'erba di quella notte di primavera, Patros stava contemplando lo splendore celeste del creato. In quell'infinito cielo nero una miriade di luci più o meno brillanti sembravano circondarlo ed osservarlo, tutte le costellazioni si potevano vedere nitidamente, la luna, quella notte a forma di falce e più splendente del solito, gli appariva come un pallido faro in mezzo ad un mare di stelle. Tra le tenebre dei cieli ed il silenzio della notte che l’avvolgeva, la vallata, che si estendeva al di sotto dell’eremo da cui il giovane greco osservava l’ambiente circostante, era attraversata di tanto in tanto dal fioco bagliore proveniente delle poche case in lontananza al cui interno i bracieri ed i focolari si stavano lentamente spegnendo mentre i loro abitanti riposavano in attesa del sorgere del prossimo sole.

Questa calma, quasi fosse portata dal leggero soffio del vento che dalle montagne alle sue spalle giungeva, attraversando la campagna, tra gli alberi e i campi coltivati sino alla costa, disegnava davanti ai suoi occhi un quadro dipinto di pace e serenità.

Nonostante questo mite e quasi idilliaco contesto, in cuor suo Patros era teso e pervaso dall’ansia; l’attesa che durava ormai da tre giorni e tre notti si stava facendo insopportabile soprattutto in considerazione del fatto che a lui, semplice mortale, non era concesso né conoscere né tanto meno poter sperare di intuire il destino degli uomini le cui sorti erano da sempre appese al sottile filo che li legava ai Padri che dimorano sulla sommità dell’Olimpo. Sapeva soltanto che gli Dei, spesso benevoli, a volte in collera con gli uomini, si sarebbero riuniti nelle sale del palazzo di Zeus per discutere dei loro divini affari oltre che per ascoltare le parole e le richieste di una di loro. Una tra tanti se guardata con gli occhi di un Dio suo pari ma non una figlia del Padre di tutti Dei comune se vista ed adorata con gli occhi di un uomo a lei fedele.

Athena, Dea della saggezza e della giustizia, era apparsa ad un ancora più giovane Patros anni prima, gli aveva mostrato il proprio potere e la propria aura benevola e gli aveva spiegato quanto sottile e delicato fosse il cammino degli uomini sulla terra. Uomini: piccoli ed indaffarati esseri che, dall’alto dell’Olimpo, apparivano alla maggior parte delle divinità come piccole formiche intente a trascorrere una vita trascurabile spesso gettata al vento in stupide lotte tra simili dettate da ragioni o interessi che nulla potevano tangere al potere assoluto ed incrollabile sul quale i Padri fondavano la propria esistenza. Ciò nonostante Athena era voluta scendere tra i mortali, mischiarsi ad essi, era attratta dalla loro complicata essenza, dal loro saper pensare liberamente, odiare, perdonare, soffrire, amare, aveva scoperto che in fin dei conti quelle creature erano molto più interessanti e degne di essere salvaguardate di ciò che le era stato insegnato e soprattutto aveva realizzato che senza di essi e senza la loro devozione verso la sua classe celeste anche gli stessi Dei non avrebbero avuto ragione di esistere. La sua missione era diventata così quella di avvicinare gli Dei agli uomini e di proteggerli tanto dalla loro stessa follia quanto da quella delle altre divinità le quali, non volendo né ascoltare né comprendere il suo messaggio, spesso si dilettavano, usandoli come giocattoli nelle proprie mani, nel mettere gli uomini uno contro l’altro perseguendo scopi che, nella più parte dei casi, giovavano solo ai loro capricci.

Da quel giorno della sua prima gioventù Patros non aveva potuto fare a meno di seguire la sua Dea e di asservirla in ogni suo desiderio dato che, con il trascorrere del tempo al suo fianco, gli era parso chiaro e limpido nella mente come la sua adorata fosse ogni giorno più simile ad una ragazza fatta di carne e ossa che non ad una mera entità divina, come realmente lei intendesse salvare e proteggere l’intera umanità e come il suo destino di semplice ragazzo apprendista fabbro nella bottega del padre fosse definitamente delineato ed indissolubilmente legato a quello della Dea Athena.

Mentre la sua mente navigava nel mare dei ricordi ed i suoi occhi vagavano nell’oscurità senza essere collegati al filo dei suoi pensieri, la sua attenzione venne improvvisamente destata da un bagliore nel cielo: il lampo di una stella cadente che, dalla sommità della volta celeste, precipitava ardendo in direzione della terra di Grecia. Che fosse forse il segno che stava aspettando?

Non molto lontano dalla rocca dove Patros si era ritirato a contemplare, altri due giovani greci stavano discutendo tra loro al riparo di uno sperone roccioso e al tepore di un fuoco acceso.

Il primo dei due, un ragazzo dagli occhi di un verde profondo e dai lineamenti gentili ma decisi ed ornati da una chioma di capelli castani i cui riccioli erano tenuti a bada da un nastro di corda di lino, stava rigirando nervosamente un ramoscello di ulivo tra la cenere disegnando su di essa simboli e figure tanto casuali quanto indecifrabili. Innanzi a lui, al di là dello scoppiettio del fuoco, Atthia se ne stava semi sdraiato su un cumulo di scudi ed elmi rosicchiando sino all’osso ciò che restava dell’ultima parte della loro cena.

Staccato l’ultimo brandello di carne di pollo, mandato giù il boccone e lanciato l’ossicino tra le fiamme, quest’ultimo, posando i suoi occhi neri come la pece sul compagno e passatasi una mano sulla barba irta e corvina, gli rivolse la parola:

- Theodote, amico mio, è inutile che continui a sospirare. Credi forse che anch’io, nonostante me ne stia qui seduto con le mani in mano, e sai quanto io odi stare fermo senza brandire la mia spada e il mio scudo, non stia pensando alla nostra Dea?

«Atthia, lasciami in pace, so che anche tu, come è naturale che sia, starai pensando a ciò che può essere o non essere accaduto in Olimpo ma ciascuno di noi vive l’attesa a suo modo. Io resto in silenzio e faccio girare, magari a vuoto se ti va, gli ingranaggi del mio cervello, tu se preferisci vai a sfogare la tua ansia abbattendo la spada sul tronco di qualche albero o dando la caccia a qualche animale selvatico».

«Alberi o animali, dici? Non basterebbe un’intera foresta da radere al suolo o un’intera mandria di cinghiali da sterminare per placare i miei sentimenti. Ti giuro sulla mia vita che, se potessi scegliere liberamente, in questo preciso momento mi scaglierei volentieri contro un esercito di soldati assetati di sangue».

Theodote ridendo dell’amico, che almeno era riuscito a far apparire sul suo viso un barlume di sorriso, lanciò il ramoscello con il quale stava giocherellando nel vuoto al di fuori del loro riparo.

Seguendo con lo sguardo il pezzo di legno che roteava nell’aria e andava perdendosi nel buio della notte al di fuori del cono luminoso del loro focolare, inquadrò inevitabilmente lo sfondo stellato che si stagliava all’orizzonte. In quel preciso istante una striscia luminosa gli balenava in lontananza davanti agli occhi.

«Che sia…»

Theodote non aveva ancora fatto in tempo a terminare la frase che Atthia era balzato in piedi di scatto. Guardandolo dall’alto della sua elevata statura e tirando i muscoli ed i nervi del suo fisico possente, stava già ancorando il suo grande scudo circolare, tipico dei guerrieri della città di Sparta, al copri spalla in cuoio e si accingeva ad impugnare anche la spada riposta nel fodero.

Lo sguardo fermo del compagno d’arme bastò a Theodote per alzarsi e scattare a sua volta.

Nel giro di pochi secondi i due si ritrovarono a correre scalzi tra l’erba incuranti di qualsiasi ostacolo che le tenebre potevano loro nascondere.

Theodote, percependo il bagliore del fuoco che si allontanava e si faceva sempre più piccolo alle sue spalle dopo ogni passo, si limitava, per quanto fosse arduo tenere il ritmo di Atthia, a correre dietro al compagno che, come un possente felino, sembrava riuscire a vedere nell’oscurità e a saltare di roccia in roccia evitando sterpi, buche o qualsivoglia ostacolo che si frapponesse tra lui e la sua meta.

Scendendo furiosamente il pendio e nel giro di pochi minuti i due si ritrovarono così a percorrere un sentiero lungo il fianco del colle dove si erano accampati e a raggiungere un piccolo belvedere roccioso a strapiombo sulla vallata che attraverso i campi e i villaggi conduce sino al mare.

Là il bagliore della luna metteva in condizione di distinguere facilmente la sagoma di una persona irta sopra un grande masso ed intenta a scrutare l’orizzonte.

Ansimando per la lunga ed inaspettata corsa Theodote raccolse quel poco fiato che gli restava all’interno dei suoi brucianti polmoni e chiese:

- Patros sei tu?

Atthia era al suo fianco, lo sovrastava per stazza e il suo respiro era regolare come se, anziché gettarsi giù dal monte più rapidamente e più intensamente di quanto non potrebbe fare una valanga di neve e ghiaccio, in realtà non avesse mai abbandonato il suo stato di riposo dal quale si stava facendo sopraffare prima che una stella cadente lo facesse scattare come una belva sino a quell’eremo dove erano appena giunti. La pelle abbronzata, i capelli e la barba nerissimi, gli scarsi abbigliamenti da soldato cuciti con un cuoio di color castagno scuro ed ora lisciato dall’usura, quasi lo rendevano invisibile nel buio della notte; solo il bianco dei suoi occhi spalancati e il luccichio della sua spada, ora sfoderata, sotto i riflessi di quella falce che brillava lassù attorniata dalle stelle, avrebbero potuto far percepire la sua presenza.

Patros, avvolto in un mantello grigio, senza proferire una sola parola, scese finalmente dalla sua postazione con un piccolo balzo, la ghiaia risuonò sotto i suoi calzari mentre si avvicinava con passo lento ma deciso in direzione di Theodote e di Atthia.

Questi ultimi erano in attesa di una risposta o, meglio, di una conferma da parte del compagno. I pochi istanti che trascorsero prima che la luce della luna illuminasse il volto candido ed i lunghi capelli neri e lisci, che in quel momento parevano brillare come seta, di Patros sembrò ai due un tempo infinito.

Giunto innanzi agli amici e messa loro una mano ciascuno su di una spalla, con gli occhi bruni illuminati dalla gioia, Patros, con voce profonda e serena, si rivolse ai due compagni: «Atthia riponi pure la tua lama, Theodote recupera le forze; amici gioite con me: essa è giunta!»