Intermezzo I: Il canto della malinconia

 

How I wish, how I wish you were here.

We're just two lost souls swimming in a fish bowl, year after year,

running over the same old ground. What have we found? The same old fears.

Wish you were here.

Pink Floyd

Il corpo inerte dell'uomo giaceva supino nella stanza buia, circondato da troppa oscurità per definirne esattamente la posizione: poteva trovarsi al centro, come a pochi centimetri da una parete, inghiottita dalla notte.

La luna lì non giungeva, nulla era in grado di infrangere quell'incanto di tenebra; per questo avevano scelto proprio quel luogo. Comunque fosse finita, nessuno dei due avrebbe visto le lacrime scorrere sul viso dell'altro, illuminate da un pallore astrale che, riportando alla mente il ricordo della felicità, avrebbe reso tutto più difficile, più doloroso.

La ragazza si chinò sulla carcassa del maestro, che respirava ancora, sollevandone il capo con la delicatezza di una cattiva madre con il suo piccino; e affondò le dita nella massa scura dei capelli di lui, senza riuscire a scorgerli, trattenendosi nell'anima solo la memoria del sole giocoso su quei riccioli tendenti al blu, il blu del mare più profondo.

In quel momento, però, tutto era nero e, stringendosi l'uomo che tutto le aveva dato, e tutto le stava rubando, contro il petto, sentì la vita scorrere ancora in lui, testarda e tenace, come una vecchia caparbia già condotta al proprio funerale, solo attraverso un gemito, soffocato dal contatto delle labbra contro il seno della fanciulla, celato allo sguardo pure da una candida camicia, ormai imbevuta di rosso.

- Sapevate che saremmo giunti a questo punto…

Il giovane tossì, emettendo un copioso fiotto di sangue che andò ad inumidire l'abito dell'allieva, lasciandole sulla pelle la tenera sensazione del delicato tepore che stava abbandonando le membra del ferito… dello sconfitto.

- Allora… perché?

Senza accorgersene, stava dando all'assenza di immagini una ragione di essere; ma le piccole gocce salate, che scappavano dagli occhi di Médée per scivolarle sulle gote d'avorio, si riversavano sul viso del moribondo.

Tentò di discostare la testa dall'abbraccio dell'alunna, non più sicuro dei suoi vent'anni al cospetto dei quindici di una discepola troppo diligente, troppo forte e passionale, troppo ribelle, troppo… innocente.

- Sai una cosa, piccola?- Esordì, raccogliendo le energie residue per parlarle, per salutarla.
- Sss… Silenzio…

Singhiozzava, consapevole che, se avesse taciuto, sarebbe stato per sempre; aveva ancora, però, il coraggio di regalargli una risata isterica, disperatamente priva di allegria.

Lui sollevò una mano, esortandola con lo sguardo nascosto, a consentirgli di proseguire e sfiorandole una guancia.

- Avrei voluto ucciderti… ucciderti e non trovarti più… soffrire per non poterti avere. Ucciderti e… non farti piangere.

Reclinò il capo, eccessivamente stanco per star sollevato in una posa simile, la quale implicava una certa tensione.

Dall'esterno, giungeva una vaga fragranza di rose appassite, soffusa e profumata come la morte, tanto dolce da nauseare, eppure così diluita nell'aria, così leggera… Il roseto continuava a fiorire e seccare fuori del monumentale tempio, senza sole né tempo, piegato esclusivamente al giogo delle stagioni, ma immutato dagli anni, indifferente al susseguirsi di morti, e nuovi tutori, tutti giardinieri per dovere o disperazione, tutti terribilmente fragili, tutti senza spine.

"Perché non l'avete fatto?", ma non lo chiese, non aveva più parole per farlo. Lo sistemò sul gelido marmo del pavimento, per fargli sentire un po' meno male, la sua pelle nuda, cosparsa di ferite ed escoriazioni d'ogni sorta, a diretto contatto con le lastre di inalienabile pietra; e, con un orecchio contro il suo torace, rimase ad ascoltarne i battiti del cuore.

- Eppure, non avrei speso neppure un minuto… un istante della mia esistenza, senza desiderare… di averti qui.

Il suo respiro era regolare, forse aveva perso la sensibilità per percepire le lacrime che gli ricavano il collo; oppure era felice, e la contrazione che attanagliava la sua faccia dai lineamenti raffinati, d'una nobiltà austera, d'eleganza latina, non era una smorfia di dolore, bensì la maschera d'un sorriso.

- Hai imparato a picchiar forte, puella!

- Mi avete insegnato bene.

Quella che aveva intenzione di essere una risata si presentò sotto forma di grugnito o lamento soffocato da un accesso di apnea, un principio di soffocamento.

- Dammi del tu, bambina.
- Raccontami una storia, come quando ero piccina e mi accoccolavo sulle tue ginocchia… Ricordi?

Alludeva alla stessa storia che proseguiva da sé, di quella storia dai fogli disordinati che, comunque fossero letti, combaciavano, creando un insieme verosimile dal loro completo nonsenso; alludeva a quella storia che volava alla velocità del sogno, e riuscivano appena a starle dietro; alludeva a quella storia che diventava sempre uguale, e finiva per essere detta sempre nelle stesse strade senza uscita, attraverso gli occhi di paure perennemente identiche. Intendeva la storia di una rosa bianca.

E le ritornarono in mente i giorni felici, trascorsi in Grecia, e l'ombra presente sposava il passato sulle rive del Mediterraneo.

Erano i tempi in cui gli arrivava alla cintola; le correnti ascensionali confondevano in un unico niveo turbinio i suoi capelli e la tunichetta immacolata, una pennellata chiara stagliata verso l'acqua, sospesa su un promontorio fra cielo e mare.

"Perché mi hai portata qui?"

Occhi fraterni erano quelli che vagavano sul suo crine infantile, come la mano salda che le stringeva le dita paffute, non ancora affusolate dal tempo.

C'era solo silenzio e il mormorare dell'aria, sinuosa fra le rocce.

"Non lo so"

"Rimarremo qui per sempre?"

"Per quanto possa farci paura, nulla è per sempre. Vedi quel gabbiano sopra di noi? Un giorno non volerà più, non ne sarà più capace."

Médée, allora, si era seduta sull'erba, abbracciandosi le gambe e premendo il mento contro le ginocchia, con far pensoso.

"Ma se…"

Il ragazzo le aveva troncato la frase in gola: "Semplicemente, si dimenticherà come si spiegano le ali, oblierà il sole sopra di sé e il rumore delle onde sotto di sé. È un po' triste."

La piccina gli aveva rivolto due iridi grigie, costellate di luci scolorite, gli orizzonti illimitati d'una mattina invernale.

"Ti dimenticherai di me?"

L'altro sorrise; una strana malinconia si ere impressa sui tratti del suo viso, il fantasma d'un rimpianto che non si cancella, forse perché appartenente ai confini più remoti della memoria, forse perché fluttuante nel futuro.

"Sarai tu a dimenticarmi"

Si era chinato sull'esile figura di lei, su quella piccola sagoma accovacciata su se stessa, impaurita dall'idea di conquistare l'eternità per poi gettarla via. Gettarla via…

"No io non ti dimenticherò mai: perderemmo il cielo, e saremmo in due, magister. È troppo triste."

Quando poi lui le aveva porto un rilucente oggetto argenteo, carico di riflessi bui, lo aveva considerato uno sciocco, per la prima volta in tutti quei mesi di convivenza, scoprendo dietro la sua facciata imperturbabile un oceano di paura… Di solitudine.

"Saremo in due, magister, e saremo nascosti. È troppo triste… troppo."

Aveva parlato a se stessa, ben conscia del fatto, che anch'egli portasse una maschera, sempre, perennemente, in ogni momento, una maschera per non provare gli spasimi della paura sulla pelle, la maschera di un personaggio che non era, di un sogno che sa afferrare il cielo. Strinse ciò che lui le aveva donato, e con un rumore cristallino lo spezzò sotto i suoi occhi, ma senza buttarlo via, continuando a tenerlo con sé, senza rinunciare alla propria parte.

Una voce di giovine, ma già profonda e pienamente virile le aveva fatto eco, bisbigliando sul suono delle onde e sul tacere del resto.

"Già… è troppo triste."

Non le sembrava vero, non era vero perché non poteva esserlo, che le occhiate, penetranti e velate di un intimo disagio, lanciate da un essere pieno di energia, di forza e di vigore, di uno splendore annegato nei fugaci attimi andati, non sarebbero più scaturite da sotto quelle palpebre pesanti, incapaci di rimanere ancora aperte, sul punto di chiudersi per un'ultima volta.

Era troppo triste.

- Non piangere più.

In fondo, erano le stesse vecchie paure a ritornare, a comprimerli l'una sull'altro, ad intrecciarli e privarli della ragione; erano le stesse vecchie paure, allo sbocco di una strada senza uscita, a prendersi gioco di due anime perse, ignare di cosa fosse il sole. Erano loro, ciascuno di loro, generazione dopo generazione, sterminio dopo sterminio, ancora gementi su un mucchio di carne macellata per il quale si provava l'amore profondo che nutre solo chi tutto ha appreso, donandosi integralmente; ognuno di loro, lacrima dopo lacrima, risaliva controcorrente un fiume di pianto, una goccia impazzita sulla cosmica boccia di Dio o di chi per lui ritenesse necessari tutti quei sacrifici, quelle illusioni infrante, quei saluti; una goccia impazzita sulla coscienza degli uomini.

E lì, nel buio spettrale della dodicesima casa di Pisces, immersi e accarezzati da soffici fiotti d'oscurità, che si agitavano spasmodici in un'unica contrazione di tenebra, le pulsazioni di un cuore infranto innumerevoli battiti prima; lì, uniti da un freddo che li irrigidiva entrambi, le braccia di lei strette attorno al suo busto di secondo in secondo meno tiepido, di secondo in secondo più inerte; lì un moribondo narrò una fiaba ad un boccio di rosa.

Magari, nessuno seppe mai ciò che si dissero, con l'alito del fiato che viene meno; magari nessuno seppe mai cosa si raccontarono o se Médée pianse quando dalle labbra di lui non uscì più una parola, non un sospiro.

Magari qualcuno sapeva, ma a volte è meglio dimenticare.