XXX
Cratilo non si perdeva una parola di quelle gesta. Ricordava quando, da bambino, ascoltava rapito i cantori narrare le imprese di Achille, gli inganni di Odisseo, il viaggio ai confini del mondo di Giasone e degli Argonauti. Come viaggiava lontano la sua mente udendo nomi di eroi e di luoghi che non avrebbe mai visto. Era incredibile, ora, starsene lì ad ascoltare le imprese degli eroi, sì perchè tali erano, che parlavano direttamente a lui: vivi, reali, emozionati, talvolta concitati nell’esporre, talvolta euforici, talvolta tristi e mesti. Callimaco, il suo amico fraterno Callimaco era uno di quegli eroi e quello che era stato raccontato era accaduto pochi mesi prima, non in un passato lontano, fumoso, indefinibile. In quell’istante lo vedeva incerto, cupo, e rabbuiati apparivano pure Archita e Anassilao.
"Che accadde il giorno seguente?" chiese dopo un silenzio che parve interminabile.
Melissa allungò una mano e la poggiò su quella di Callimaco, che sorrise. "Non è cosa che si possa raccontare con leggerezza."
"Non è stato semplice nemmeno esporre quello che avete udito fino ad ora; è un grave peso per tutti noi rivivere quei momenti." disse Anassilao che, pur apparendo freddo e distaccato, più volte, quando aveva preso la parola, aveva lasciato trapelare forti emozioni.
Archita prese la parola, con fare solenne. "Atena ci attende, ma abbiamo ancora tempo." Guardò i compagni che lo incitavano a proseguire. "Atena ci aveva atteso anche quel giorno. Forse in tanti, non sapendolo l’avevano attesa. Giudicate voi se l’attesa fu ben ripagata. Certo su una cosa, in conclusione, dovrete convenite: un alto prezzo fu pagato…"
***
La parte più difficile del viaggio era ormai alle loro spalle. Sapeva ancor prima di approdare a Corinto che la diffidenza e la paura degli uomini potevano essere flagelli ben più temibili del mare in burrasca e delle tenebre che si erano distese sotto il cielo stellato. Era stata un’impresa trovare qualcuno che fosse disposto a mettersi in mare; certo, oltre l’istmo le onde erano meno impetuose ma chi si sarebbe arrischiato a navigare sotto un cielo color pece, che minacciava ancora pioggia e vento? Al porto, una volta approdati, i pochi presenti li avevano guardati con sospetto, quasi con astio. Come potevano navigare con quelle condizioni? Chi era il timoniere tanto folle che li aveva condotti fino a lì? Avevano contrattato a lungo per un’imbarcazione che potesse salpare di lì a poco, sull’altro lato dell’istmo. Erestore si era persino offerto di governare lui la barca, lasciando al proprietario come pegno la propria. Ed era tutto a vantaggio del corinzio, che in caso ne avrebbe guadagnato un vascello in luogo di una modesta barca da pesca. L’uomo, barba bianca e volto scavato, aveva resistito a lungo prima di cedere. Tutto si era concluso nei migliore dei modi ed ora i monti, sagome scure alla loro destra, si stagliavano sulle acque nere. Ancora poco e sarebbero giunti in vista del villaggio di Itea.
Miacle guardò il maestro, proteso ad osservare l’orizzonte, le mani a serrare con forza il bordo dell’imbarcazione, capelli e barba scossi dal vento. Sembrava quasi ringiovanito negli ultimi giorni. Un semidio. Doveva esserlo davvero, per quanto ora evitasse le sue domande e si trincerasse spesso dietro una cortina di silenzio, lui solitamente prodigo di parole. D’altro canto quanto accaduto pochi giorni avanti non dava molto spazio ai dubbi. Ebbe paura. Perché mai lo aveva seguito in quel viaggio folle? Tutto gli era ignoto, salvo la follia stessa insita nell’impresa. Erestore, il loro buon timoniere, non aveva mancato occasione di farlo notare, più e più volte. Ma lui vecchio, ne aveva viste tante e le Parche, diceva, presto lo avrebbero chiamato comunque, quindi non valeva la pena di star troppo a tentennare nonostante il mare in tempesta e il cielo oscuro. Miacle invece di anni ne aveva visti pochi e avrebbe voluto vederne altri. Certo, dopo quanto era accaduto tre giorni prima, o forse quattro, temeva che le Parche si sarebbero presentate di persona a recidere la sua vita.
Era pomeriggio quando tutto era cominciato. Il sole indugiava sull’orizzonte, i pini profumavano, le cicale riempivano l’aria col loro canto. Il maestro, come soleva fare, stava recitando ai ragazzi un brano dell’Iliade, con più trasporto del solito. Due figure erano apparse all’improvviso, con indosso delle nere corazze. Avevano afferrato due dei ragazzi e li avevano picchiati: gli altri erano paralizzati dalla paura e non osavano intervenire. Miacle si era alzato in piedi, d’istinto, per intervenire ma uno dei due individui neri lo aveva inchiodato con lo sguardo e gli aveva gridato che sarebbe stato il prossimo. Volevano informazioni riguardo qualcuno il cui nome mai era risuonato prima alle loro orecchie; se non avessero parlato avrebbero fatto una brutta fine, era inutile cercare di nascondere loro la verità. Il maestro era stato il solo a trovare il coraggio di reagire. Con calma, misurato, aveva intimato loro di smetterla, che i ragazzi erano spaventati. Gli avevano riso in faccia chiamandolo vecchio idiota. Non toccate i miei ragazzi o ne risponderete, aveva replicato con tono di comando. Uno dei due aveva gridato che glieli avrebbe ammazzati tutti sotto gli occhi, i suoi ragazzi. Poi sarebbe stata la sua volta, straccione.
Era stato allora che tutto era cominciato.
Il loro vecchio maestro Farios si era acceso. No, non di rabbia come quella volta che Chereo lo aveva affrontato a muso duro perché secondo lui distraeva i giovani, e talvolta pure le giovani, con miti ed eroi, favolette che non servivano a nulla nella vita. E poi quegli scarabocchi che voleva insegnare ad alcuni di loro. Miti? Scrittura? Ridicolo, cose da sfaccendati. Chereo era un prepotente e uno schiocco, che credeva solo in tre cose. nel lavoro duro, sui campi o in mare aperto, soprattutto se il lavoro era quello degli altri, giovani e a lui sottoposti; nel vino, che non si faceva mai mancare; nelle giovani che si portava a letto, minacciando di far morire di fame le loro famiglie o di cacciarne padri e fratelli dalle barche e dalle botteghe di cui deteneva il monopolio sull’isola. L’ira del vecchio quella volta lo aveva travolto. Di fronte a tanta veemenza e rabbia era incredibilmente battuto in ritirata.
Ebbene, ricordava Miacle, Farios si era acceso. Letteralmente accesso. Come il fuoco nella fucina del fabbro, come la fiamma nella lucerna, come il ramo resinoso messo a contatto con una fiammella. I ragazzi e le ragazze presenti erano rimasti a bocca aperta.
"Non osate toccare i miei ragazzi!"
I due guerrieri avevano ghignato. "Oso eccome, vecchio idiota!" Uno dei due aveva trafitto una ragazza con uno stiletto e l’aveva spinta a terra. "Moriranno tutti a causa tua, soddisfatto?" Aveva grugnito mentre colpiva a calci la sua giovane vittima.
Non era arrivato a dire o a fare altro. Un lampo argentino. Gli occhi vividi, penetranti del maestro fissi su di lui, il suo braccio che spariva dentro l’armatura, letteralmente sfondata, mentre il sangue colava copioso. Un rantolo raggelante. Farios aveva estratto il braccio e il suo pugno era nero di sangue. L’altro era caduto, cadavere.
"Vi avevo avvertiti!"
L’altro demone aveva capito l’antifona ed era stato colto da terrore. "Non può essere, senza la tua armatura non…" Il maestro, incredibilmente agile e veloce per la sua età, lo aveva raggiunto. Un altro lampo argentino. Un’ondata di lampi argentini. L’altro a terra, annientato.
Lui, Miacle, paralizzato dall’orrore, dallo stupore, da non sapeva cosa. Forse erano davvero dentro un mito, dentro la Titanomachia e dei e semidei si contendevano il mondo sotto i loro occhi esterrefatti. Oppure Morfeo gli stava giocando un brutto scherzo e tra un po’ si sarebbe svegliato sul suo pagliericcio, nella sua capanna.
Era passato un tempo indefinito. Farios nel frattempo si era inginocchiato vicino a Temi, la ragazza ferita, che gemeva mentre il suo sangue stillava copioso da una ferita al torace. Miacle era ancora in piedi. Il ragazzo che era stato picchiato era a terra, lo sguardo nel vuoto. Gli altri inchiodati ai loro posti, fissi e immobili come le figure scolpite sul frontone del tempio di Afaia.
"Miacle, non restare lì impalato, portami dell’acqua!" aveva gridato Farios. Meccanicamente aveva obbedito. Temi al calar delle tenebre era fuori pericolo. Pallida, immobile, il respiro appena percettibile, ma viva. Suo fratello singhiozzava vicino a lei e non smetteva di ringraziare il maestro Farios, chiamandolo ora maestro, ora Asclepio, ora dono dell’Olimpo.
"Sei un dio… un semidio?" aveva infine chiesto Miacle.
"No, sono solo un uomo."
"E loro… chi erano?"
Gli occhi del maestro fissi su di lui. "Demoni". Silenzio "Demoni, Miacle. Ad ogni modo tranquillo, domani me ne andrò e voi sarete al sicuro. Te lo prometto."
Uomini e donne dell’isola erano arrivati alla spicciolata ma per bocca di nessuno dei loro figli avevano potuto apprendere quanto era accaduto e comunque, anche i figli avessero parlato, difficilmente essi avrebbero potuto credere alle loro parole.
Era stato la mattina seguente che Farios aveva detto a Miacle: "Devo andare ragazzo. Addio. Ti lascio i miei rotoli e le mie pergamene. Leggerai tu al mio posto d’ora in avanti." Miacle non sapeva che dire o che fare e aveva troppe domande e troppi interrogativi da porre, come tutti gli altri ragazzi del resto. "Vengo con te, maestro!" aveva detto senza esitare. Farios non ne voleva sapere, ma il suo diniego non era servito a nulla. Poco dopo si era trovato il ragazzo con provviste e acqua sull’imbarcazione di Erestore. A quel punto aveva desistito: "E sia, ma giunti a Corinto tu tornerai indietro." "Solo se mi avrei spiegato, se mi avrai raccontato come e perché un semidio è approdato sulla nostra isola!" Aveva replicato Miacle. Poco dopo erano giunti gli altri ragazzi. Volevano sapere, volevano capire. Avevano veduto all’opera un demone del Tartaro o uno degli Olimpici? Chi era lui in realtà, il figlio di qualche divinità? Farios, per poter prendere il largo, era stato costretto a prendere con sé Miacle, promettendo che gli avrebbe svelato quanto gli era possibile e lui lo avrebbe poi riportato agli altri.
A Corinto tuttavia misteri e dubbi non erano ancora stati risolti in modo soddisfacente e dunque Farios aveva dovuto acconsentire a che Miacle lo accompagnasse ancora. Le domande del ragazzo non erano mai cessate, ma egli era rimasto silenzioso. Nella prima mattinata di viaggio, quando la grande tenebra si era progressivamente distesa, Miacle giurava di aver visto una luce avvicinarsi alla loro imbarcazione. Una luce argentina. Farios era parso turbato e aveva guardato, triste, in direzione dell’Attica. Da quel momento aveva custodito gelosamente uno strano oggetto che Miacle non gli aveva visto portare a bordo e che sembrava apparso dal nulla.
Stavano ormai per prendere terra, l’istmo lontano alle loro spalle. "Miacle, domani saprai."
"Perché non oggi?" disse il ragazzo, frustrato, guardandosi attorno.
"Domani, temo, vedrai prodigi ben più grandi di quelli che hai veduto ad Egina."
***
Sembravano passati mesi, invece tutto era accaduto solo pochi giorni prima. Un tramonto dorato sul Santuario, i dodici Cavalieri d’Oro al suo fianco. Ora ne sopravvivevano la metà. Archita, Anassilao e Plistene erano arrivati provati dall’ultima battaglia sostenuta. Da poco erano giunti pure Kyriakos e Astylos, meno stanchi dei compagni ma con la morte nel cuore. Callimaco era chiuso in un cupo silenzio. La gioia di rivedere la loro dea li aveva rallegrati per pochi istanti. Inevitabili, dolorose, erano arrivate le domande riguardo i compagni, chi ancora doveva arrivare, chi non sarebbe mai giunto. Udire i nomi dei cavalieri caduti le aveva lasciato addosso una profonda frustrazione. E poi quella terribile consapevolezza, quel dubbio lacerante… Quanti dei presenti sarebbero sopravvissuti a quella guerra?
"Le armate di Ade saranno qui fin troppo presto, mia dea." disse Astylos rompendo un lungo silenzio. "Non abbiamo molto tempo per approntare le difese."
"Che suggerisci di fare, Astylos?"
Il cavaliere esitò. Incrociò lo sguardo dell’allievo superstite. "Resistere" disse. Parve esitare poi aggiunse: "Vincere. In fondo lo abbiamo già fatto contro avversari altrettanto temibili, non è così." E cercò d’istinto lo sguardo di un vecchio compagno di battaglia.
"Ci saranno addosso in massa." Osservò Kyriakos. "Dovremo essere ben organizzati e avere una strategia o saremo spazzati via. Non siamo al Santuario, qui le difese sono quasi inesistenti."
Policrate intervenne con la consueta pacatezza. "Atena, credete di riuscire ad approntare una barriera come quella che avvolgeva il Santuario di Atene?"
"Il cosmo me lo permetterebbe, ma non credo servirebbe. Questo santuario non è adatto ad essere difeso a quel modo. Lo sarebbe quello di Apollo però… Qualcosa di suggerisce di preservare le forze per altro. E’ una sensazione che mi porto addosso da tempo."
Nessuno osò muovere obiezioni. Se la dea percepiva qualcosa andava assecondata, che i Celesti comprendono forse meglio i capricci e gli ineffabili vezzi del Fato rispetto agli Uomini, anche se ne sono ugualmente sottoposti.
Archita si fece avanti: "Mia dea, se permettete, avrei un suggerimento." Il cavaliere parlò e dopo iniziale scetticismo furono in molti ad annuire. "I nostri nemici conteranno sulla forza d’urto e sul numero, noi dovremo contare su altri fattori non trovate?" Fu decisa e approvata quella linea d’azione.
"Ora" disse Atena accorata "andate a riposare. Avrete bisogno di essere riposati e al meglio delle vostre possibilità e il tempo ci è tiranno."
"Chiedo di restare a vegliare su di voi." disse premurosamente Policrate.
"Non ce n’è bisogno, mio Grande Sacerdote. Ma se ti fa piacere, rimani. So che non dormiresti neppure un momento. Tuttavia te lo chiedo come un favore personale: ritirati e ristorati." Policrate apprezzò tale spontanea sincerità e apprezzò il modo in cui la dea gli concedeva di avere un attimo di riposo.
"E tu, Maia, fermati, che desidero parlare con te."
"Con me?" fece in un sussulto la ragazza.
"Abbiamo molto da dirci." rispose Atena.
***
"Il Santuario di Atena Pronaia… come sei prevedibile, figlia di Zeus!" disse Ade. "Mi deludi, nipote. Dovresti essere maestra di strategia." Si volse ai suoi sottoposti. "Attaccate subito. La rapidità e la compattezza dell’attacco saranno le nostre armi vincenti, tuttavia non sottovalutate gli avversari. Hanno dato prova di valore e resistenza."
Minosse aveva un’espressione determinata e un lampo negli occhi: "Come comandate, mio signore."
"Minosse, tu guiderai l’assalto dall’alto, compiendo un largo giro."
"Ma è una lunga, inutile deviazione!" replicò quasi irritato il Giudice.
Ade lo squadrò: "Non inutile. Voglio evitare sorprese dal Santuario di Delfi. Qualche cavaliere potrebbe essersi attestato da quelle parti, per prenderci alle spalle."
"Siete uno stratega cui non sfugge nulla, mio signore." dovette ammettere Minosse.
"Vai ora." Ade guardò in direzione dell’obiettivo. "Radamante, Eaco! Mandate avanti i vostri guerrieri."
"Ho un conto in sospeso con uno dei Cavalieri d’Oro." disse Radamante "Vado a chiudere la partita."
Eaco indugiò ancora un attimo. "Mio signore, nel mezzo della battaglia sarà ben difficile che Minosse e Radamante non si avvedano di chi combatte con la mia schiera."
Ade sorrise. "Eaco, fa che lo vedano. Ciò non potrà che aumentare il loro furore bellico e li stimolerà a dare il meglio di sé."
"Molto astuto, mio signore! Ebbene, col vostro permesso, vado all’assalto."
Il figlio di Crono restò ad ammirare lo scintillio di decine di corazze nere che sparivano nella notte scivolando lungo la valle, pronte a ghermire la preda.
***
"E così tu saresti…"
Lo sguardo della ragazza la fece tacere. Elettra si pentì subito delle sue parole, quanto mai inopportune in quel momento.
"Siamo qui per combattere, non per fare conversazione."
Fiera, determinata, forse troppo dura certo, ma a parte questo fin troppo simile ai gemelli, pensò Elettra. Avesse avuto anche il loro buonumore. Quanto ce ne sarebbe stato bisogno in quel momento.
"Scusa, non volevo essere così brusca." disse Maia
Elettra a quel punto non sapeva più che dire. Forse il silenzio era il discorso migliore da poter intavolare.
"Com’erano?" chiese a bruciapelo la fanciulla dai capelli rossi.
I suoi occhi fissavano un orizzonte invisibile e la debole luce delle torce non permetteva di vedere se fossero lucidi o se già versassero delle lacrime. No, pensò Elettra, questa ragazza non piange con facilità, ne sono certa.
"Io li ammiravo." rispose parlando sottovoce. "Avevano sempre una buona parola e si intrattenevano volentieri con tutti. Il Santuario è un luogo di duro addestramento, di fatica e di sacrificio, ma con presenze come le loro le giornate erano piene, intense… colorate. Avevo un debole per loro perché mi hanno sempre trattata con benevolenza, mi hanno sostenuto e mi sono stati vicino. Una volta mi dissero che avrebbero dovuto esserci più ragazze al Santuario perché per loro una fanciulla non era certo da meno di un uomo su un campo di battaglia."
Maia annuì e provò una gioia intensa.
"All’inizio credevo fossero innamorati." continuò Elettra. "ma subito ho capito che loro ammiravano la combattente che era in me e non solo la donna. Ora so che pensavano a te, Maia."
La fanciulla non rispose nulla e allora Elettra continuò.
"Quando la maggior parte degli attuali cavalieri era alle prese con l’addestramento vi erano giornate lunghe, dure, faticose, colme di delusioni e fallimenti, di rimproveri e lezioni amare da mandar giù. La sera arrivava e noi giovani talvolta eravamo assaliti dal dubbio di non essere all’altezza, di non potercela fare. Per una ragazza tutto ciò era ancora più duro. Talvolta ho pianto e non me ne vergogno. Eppure bastava una loro risata, mentre il cielo imbruniva, una loro battuta e il Santuario ci sembrava il posto più allegro, più felice che potesse esserci sulla terra. E ora so che lo era."
"Mi piacerebbe vederlo, un giorno, e vedere i luoghi dove i miei fratelli sono cresciuti."
Elettra si sedette accanto a lei. "Ti ci porterò quando tutto sarà finito."
"Certo. Ti ringrazio." E abbassò lo sguardo.
Elettra stette un attimo in silenzio. Percepì qualcosa. Ecco, era il momento. Il suo cosmo pulsò e la sua percezione del mondo esterno si affinò. Cosmi ostili. Molti cosmi ostili. E vicini.
Si alzò e tese una mano a Maia. "Stanno arrivando, li senti."
"Li sento. E li conosco fin troppo bene. Stai attenta Elettra."
"Lo farò. E tu guardami le spalle."
Guardami le spalle. Lo aveva detto con tanta naturalezza che Maia si sentì finalmente una di loro, fino in fondo. Atena l’aveva accolta e le sue parole l’avevano confortata. Ora quella ragazza che conosceva da pochissime ore dimostrava di averla accettata senza alcuna riserva. La fiducia. Come riscaldava l’animo la fiducia del prossimo, come riempiva il petto di calore.
"Elettra…" disse Maia esitante.
"Sì?"
"Grazie." La compagna sorrise.
E ora venite, nere armate di Ade, pensò. Maia scatenerà su di voi la sua furia, come non l’avete mai vista.
***
Enteo avanzò nel recinto sacro alla testa delle armate nere. Nessuno a contrastarli. Se Atena era sola e con poche forze come speravano tutto si sarebbe risolto in pochi istanti. Una dea col cosmo fiacco non poteva certo resistere a lungo. Poi sarebbero arrivati i Giudici. E infine Ade e allora sarebbe stata vittoria.
"Avanti!" gridò rompendo il silenzio. "Al tempio!"
Si guardò bene dall’essere il primo a varcare la soglia della vetusta costruzione. I suoi compagni irruppero all’interno ma subito si fermarono e lui dovette farsi strada a forza tra quella moltitudine di guerrieri.
"Che accade? Non esitate, attaccate!"
Le torce tremolavano deboli e ci mise un po’ a capire. Nel tempio non c’era nessuno.
"Che cosa significa? Ho pur percepito un cosmo, forse due!"
Gli Spettri si guardarono attorno, ma la cella era vuota e silenziosa.
"Un cosmo hai detto?" disse una voce limpida.
"Chi sei?" sussultò Enteo.
"Mi chiamano Pegasios!" Il giovane con un salto atterrò davanti a loro.
"Vigliacco, eri nascosto sulla trabeazione! Dov’è Atena? Coraggio, parla!"
"Atena? Mi duole comunicarvi che non può ricevervi. Tuttavia mi ha incaricato di riferirvi un messaggio."
Enteo avvampò d’ira. "Quale messaggio, mi prendi in giro?"
Pegasios ridivenne serio, solenne. "Il messaggio è questo. Uditelo bene." Piegò indietro un braccio, il bicipite si tese poi sprigionò la propria forza. "Fulmine di Pegasus!!!"
"Volo della Colomba!!!"
"Furie del Tartaro!!!"
Enteo fu spazzato via e con lui altri quattro cinque compagni. Pegasios, Elettra e Maia si lanciarono nuovamente all’attacco contro il grosso degli Spettri, compatti proprio all’ingresso della cella, un bersaglio fin troppo facile. Furono rapidi e precisi. Maia lo fu più di tutti. Le Furie lasciarono parecchi cadaveri, la Colomba ne ghermì un paio mentre Pegaso alato portava con sé la luce rischiarando le tenebre e infine annientandole.
Gli Spettri superstiti arretrarono nel cortile e si prepararono a contrattaccare. In campo aperto le cose sarebbero andate diversamente. Uno dei Demoni spinse lo sguardo oltre il recinto sacro e vide le sagome dei due Giudici avanzare con il resto della truppa. In quell’istante, tuttavia, un’altra voce, poderosa, sovrastò le loro grida di guerra.
"Per il Sacro Cancer!!!" esclamò Kyriakos apparendo dalla notte, l’armatura accesa di luce dorata. "La Nebulosa non vi lascerà scampo!" Un vuoto si aprì nella notte. Gli Spettri urlarono ma i lamenti che eruppero da quell’abisso si levarono ben più in alto delle loro grida. In pochi istanti due dozzine di Spettri furono risucchiati dalla voragine nera, che subito si richiuse, troncando urla e lamenti.
"E così il Tartaro vi ha ripresi con sé, Demoni." disse Kyriakos del Cancro abbassando le mani.
"Ben fatto!" esclamò Pegasios uscendo dal tempio.
Eaco si fece avanti, tra il furioso e l’incredulo. "Come è potuto accadere? Avete celato il vostro cosmo per sorprenderci!"
"Così è stato infatti." rispose Kyriakos senza scomporsi.
"E tu, traditrice!" Eaco puntò l’indice contro Maia. "Pagherai per questo!"
Radamante si portò a fianco del compagno. "Lasciala a me e non ti crucciare troppo. Stavo per finirla già ad Atene ma allora sono stato interrotto. Mio è stato l’errore, vi porrò subito rimedio, lavando l’onta di aver addestrato una traditrice."
"Cerca di essere meno baldanzoso, Radamante." disse fredda Maia. "Guardati attorno. Siete rimasti ben in pochi."
"E la truppa di Minosse ben presto cadrà, come la vostra." aggiunse Kyriakos.
Radamante trasecolò. "Come può essere? Come potere sapere?"
"Un’intuizione, e ad ogni modo la tua reazione ne è la conferma." Vi era una malcelata ironia nelle parole del Cavaliere del Cancro.
In quel mentre qualcuno avanzò tra Minosse ed Eaco. Minosse, nel vederlo, sbarrò gli occhi. Il nuovo venuto si piazzò davanti a Kyriakos. La sua armatura era imponente e assai simile a quella di Radamante.
"Sarpedonte! Che significa?" esclamò Radamante.
Il nuovo arrivato accennò un sorriso. "Significa che abbiamo ancora una speranza di vittoria, fratello. Questi guerrieri hanno appena fatto a pezzi il tuo esercito o forse non te ne sei ancora accorto? Per tua fortuna siamo in tre a fronteggiare costoro e gli altri Cavalieri che, certamente, sono in agguato in questa valle. Fosse diversamente ci troveremmo in seria difficoltà con i Cavalieri di Atena e arduo sarebbe conseguire la vittoria."
"Ce la saremmo cavata anche senza di te!" Radamante era furente. "Io stesso ho abbattuto due Cavalieri d’Oro!"
Sarpedonte scosse il capo. "Radamante, li hai affrontati in un duello uno contro uno. Tra un po’ invece ce ne ritroveremo addosso parecchi, contando anche la tua amichetta dai capelli di fuoco. Siamo rimasti noi tre e altri cinque Spettri." E li indicò con la mano "Quanto credi passi prima che anch’essi cadano?"
Uno dei cinque, punto sul vivo, volle replicare. "Chi ti credi di essere? Non abbiamo paura di una ragazza e di due cavalieri minori. Tieni impegnato quello con l’armatura d’oro e vedrai!"
I cinque si lanciarono all’assalto. Kyriakos li lasciò fare. Pegasios intercettò i primi due, Maia i due seguenti ed Elettra finì l’ultimo con dei colpi a ripetizione. Rimase poi a guardare davanti a sé, col fiato grosso per lo sforzo. Kyriakos stava annuendo soddisfatto.
"Come dicevo, Radamente, siamo rimasti in tre." Fece tra il serio e il faceto Sarpedonte.
Radamante non riuscì a trattenersi: "E’ una prova di forza che vuoi? Ebbene allora…"
Eaco intervenne con decisione. "Adesso basta! Ci sono dei nemici da sconfiggere, qui. Altri ne arriveranno. Facciamola finita. A più tardi le vostre questioni familiari in sospeso." Fece due passi avanti. "Kyriakos! Mi cimenterò con te."
Radamante, dopo aver guardato in tralice il fratello, si portò davanti a Maia. "Tu sei mia."
"Non sperarci."
Si udì a quel punto la risata di Sarpedonte. "Ho atteso lungo tempo per scendere in campo e quando finalmente mi deciso lasciate a me gli avversari più facili? Che delusione."
"Bada a come parli!" disse Pegasios. "Preparati a incontrare la furia delle tredici stelle. Fulmine di Pegasus!"
Colpi densi d’energia squassarono la notte ma Sarpedonte li bloccò a mani aperte, tese alte davanti a sé. "Questa sarebbe una furia? Povero sciocco." Il suo cosmo si fece minaccioso. "Tormento Infernale!"
Pegasios provò a schivare il colpo, che tuttavia lo centrò in pieno. Uno strano terrore gli era scivolato nelle membra e si sentiva intorpidito. Fu catapultato indietro, mentre parti della sua armatura volavano intorno, sbriciolandosi. Si alzò dopo un tempo che parve eterno, barcollante e con un rivolo di sangue alla bocca. "Chi… sei?" chiese.
"Sarpedonte è il mio nome, progenie divina, di Minosse e Radamante fratello e certo non da meno di loro in battaglia." Replicò solenne. Poi più prosaico: "E tu stai per provarlo sulla tua pelle."
"Vedremo! Brucia cosmo di Pegaso! Meteora Lucente!" La notte parve rischiararsi quando il colpo saettò verso il nemico.
"Interessante." Si limitò a dire Sarpedonte prima di porsi sulla difensiva a bloccare l’attacco. "Questo è un vero attacco, ragazzo. Te lo mostrerò ancora. Tormento Infernale!"
Questa volta il colpo arrivò alla massima potenza. Parti dell’armatura di Pegaso andarono in pezzi all’istante. A Pegasios mancò il fiato, poi l’onda d’urto lo spazzò via. Picchiò duramente contro la trabeazione del tempio e cadde poi esanime davanti all’ancestrale tempio di Atena, mentre alcuni acroteri cadevano su di lui e attorno a lui, andando in pezzi con tonfi sordi.
"Pegasios!" gridò Elettra.
"Ragazza" disse Sarpedonte "portami da Atena prima che qualcun altro si faccia del male."
"No, mai!" disse Elettra con fierezza, ma la vista di Pegasios al suolo, che non si muoveva, le procurava un’angoscia senza fine. "Volo della Colomba!"
Sarpedonte spiccò un salto, afferrò la ragazza per un braccio e la spinse a terra. "Ora mi porterai da Atena e mi dirai dove sono gli altri Cavalieri o sarò costretto a farti molto male."
"Non ti temo!" disse lei incrociando i suoi occhi.
"Come preferisci. Avrei voluto evitarlo." Caricò il colpo. "Tormento Infernale!"
A Elettra parve che l’aria stessa fosse sparita. Le mancò il fiato e credette di soffocare. A riportarla alla realtà fu il fragore della sua armatura che andava in pezzi. Si trovò a fissare il cielo. Poi nel suo orizzonte entrò il volto di Sarpedonte.
"Ragazza, non costringermi. Detesto colpire un donna, tanto più da distanza ravvicinata. Parla adesso: dov’è Atena?" La risposta non venne e allora la tirò in piedi e la scosse. "Ebbene?" Elettra aprì gli occhi e cercò disperatamente di raccogliere le forze. Per un attimo il suo cosmo d’argento parve cantare nelle notte. Un colpo rapido, deciso. Si scostò quel tanto che bastava dall’avversario per sferrare un calcio che lo colpì in pieno volto. Sarpedonte incassò.
Elettra si preparò ad attaccare ancora, ma la vista gli si stava annebbiando.
"No, Elettra!" gridò Maia, impegnata contro Radamante. "E’ fuori dalla tua portata, desisti!"
"Sì, arrenditi e salva te stessa. Se attacchi puoi solo cadere."
Elettra guardò verso Maia, poi il suo avversario e disse con decisione: "Non posso, neanche se volessi. Ho giurato di proteggere la dea e di combattere al suo fianco. Questo è ciò che intendo fare. Non mi posso tirare indietro."
"E’ follia, Elettra! Non gettare la tua vita!" L’appello di Maia era accorato.
"Non è detto che sia io a dover soccombere. Combatterò, Maia! Combatterò come sono certa hanno combattuto Pisandro e Lisandro." Posò lo sguardo su Pegasios esanime e raccolse le energie che le rimanevano. Non aveva quasi più un’armatura ma l’ardore e la determinazione non le facevano difetto.
"Per Atena!" Un’aura d’argento l’avvolse. "Volo della Colomba!"
Sarpedonte era ammirato e sconvolto al tempo stesso da tanto spregiudicato coraggio. Non per questo tuttavia impresse meno forza nel suo attacco. "Tormento Infernale!"
Il Volo della Colomba passò lieve sulla sua corazza, battito d’ali leggere. Su una guancia del guerriero si aprì una leggera ferita ma fu tutto quel che patì in quell’attacco. Il suo colpo era stato ben più preciso. Quando si girò la sua avversaria giaceva a terra, gli occhi sbarrati a fissare un cielo nero, i biondi capelli sporchi di terra e di sangue.
"Pegasios… Atena…" La ragazza piegò la testa di lato e i suoi occhi fissarono un punto indefinito, dove si trovava il Santuario di Apollo. "Metoneo…"
"Elettra!!!" L’urlo di Maia spaccò la notte ma non c’era tempo per le lacrime e la disperazione. Radamente incalzava. E ora gli avversari sarebbero diventati due…
***
Minosse aveva avvertito numerosi cosmi accendersi più a valle e poi aveva veduto bagliori e lampi nella notte. Scrutò le tenebre stizzito per l’essere lontano dalla mischia e temendo che le schiere di Eaco e Radamante potessero far strage di avversari prima che egli potesse completare la sua manovra da accerchiamento. Perché Ade gli aveva affidato quel ruolo? Sarebbe stata una manovra ben più adatta a Eaco. Ora si trovava a mezza via tra il Santuario di Delfi e quello di Atena Pronaia, in una sorta di terra di nessuno dove nulla si muoveva e imperava il silenzio. Un cosmo più potente degli altri attirò la sua attenzione. Si concentrò e poi, d’un tratto, imprecò. No, non era possibile. Aveva avvertito chiaramente un elevato numero di cosmi spegnersi. Cosmi di Spettri.
"Non è possibile!" esclamò.
"Che accade, comandante?" disse chi lo seguiva da presso.
Minosse si girò e fulminò chi aveva parlato. "Succede che i miei pari sono caduti in un agguato e le loro truppe stanno soccombendo mentre noi cerchiamo inutilmente di sorprendere alle spalle i nostri nemici per trovare Atena. Torniamo verso valle, presto!"
"Non così in fretta, Spettro!"
"Chi osa?"
Tre cavalieri con l’armatura dorata erano apparsi dal nulla. "Io oso." disse Anassilao facendosi avanti. "Riconosco il tuo cosmo. Ci hai attaccato sulle coste delle Egeo, nei pressi di Atene. Ricordi?"
"Certo!" rispose Minosse compiaciuto "Quei due che avrei volentieri colato a picco. Bene, finalmente ci si può misurare faccia a faccia. E’ Minosse, Giudice degli Inferi che hai davanti."
"Anassilao, cavaliere di Gemelli." replicò per nulla impressionato il giovane.
Un compagno si fece avanti. "E io sono Archita, cavaliere dell’Ariete. Colui che ha bloccato i tuoi attacchi, ricordi?"
"Solo perché vi ho attaccato da lontano, Archita dell’Ariete. Vediamo se ne sarai ancora capace!"
Il terzo cavaliere si fece avanti. "Non così in fretta."
"E tu chi sei?"
"Forse ricorderai la mia freccia dorata, se ti trovavi al Santuario di Atena con il tuo signore."
Minosse ricordava, certo. La freccia, Ade che scosta Persefone, il dardo che si conficca a terra e vibra per lunghi istanti. "E con chi voi tre dovrei iniziare a confrontarmi?"
"Con me." disse Astylos.
"Avverto rancore nella tua voce."
"Sei colui che ha ucciso il mio allievo."
"Di chi parli?"
"Archelao dello Scorpione."
Minosse ricordava il giovane cavaliere. "E’ caduto con onore. Pur essendo a me inferiore non si è sottratto al confronto. Peccato che il coraggio sia vano per chi non si dimostra capace di valutare le proprie capacità e le proprie risorse. Un incosciente il tuo allievo. Coraggioso certo, ma incosciente. Dovevi insegnarli anche ad usare la testa oltre che a combattere, che razza di maestro sei?" Se avesse valutato le conseguenze della sua provocazione non tanto su di sé, quanto sui suoi sottoposti, Minosse forse avrebbe trattenuto la lingua. Quello che accadde fu totalmente inaspettato.
Astylos trattenne la rabbia, anche se un fremito che lo scuoteva e lo spasmo dei muscoli indicavano chiaramente che la sua furia stava montando rapidamente. Ad agire furono Archita e Anassilao i quali, avendo passato assieme gran parte delle giornate precedenti, avevano raggiunto una sintonia che permetteva loro di agire quasi all’unisono. Era bastato loro un rapido sguardo. Il loro attacco tuttavia non era diretto verso Minosse, che pure scartò istintivamente di lato. Due onde d’energia spazzarono gli Spettri della schiera del Giudice, avvolgendoli di luce. Quando il bagliore si dissipò ben pochi di loro si reggevano ancora in piedi.
"Minosse!" disse a gran voce Astylos "La tua fine si avvicina. Archelao sarà presto vendicato."
Minosse, per nulla sorpreso da quelle parole, si accinse allo scontro mentre Archita e Anassilao cominciavano già ad imperversare nella schiera degli Spettri, falciandoli con attacchi risoluti.
***
"Kyriakos del Cancro, sei un degno avversario, lo riconosco!"
"Lo stesso vale per te, Eaco."
"Lascia tuttavia che ti mostri il colpo con il quale ho già atterrato uno dei tuoi compagni. Bramo di provarlo su un avversario che non sia fiaccato da una precedente battaglia."
"Se a tanto ambisci, sono pronto!"
Eaco non se lo fece dire due volte. "Ali di Garuda!" gridò lanciandosi all’attacco.
L’avversario stette immobile davanti a lui fino all’ultimo e infine si sottrasse con inaspettata rapidità.
"Stupito?" gli chiese Kyriakos a bruciapelo.
"Affatto." mentì spudoratamente Eaco.
"E’ il mio turno, ora. Credo sia tempo che tu torni negli Inferi, Eaco! Troppo a lungo hai imperversato sulla Terra. Strati di Spirito!" Eaco fu investito dall’attacco ma lo dissipò come nulla fosse.
"Stupito, cavaliere?" esclamò beffardo guardandolo fisso negli occhi.
Kyriakos non era abituato a mentire e volle esser franco. "Sì, lo sono. Come può essere che gli Strati di Spirito non abbiano effetto su di te? Sono efficaci sugli altri Spettri. Tra l’altro non hai provato nemmeno ad evitarli."
"Non ne avevo motivo. Il tuo attacco sarà pure efficace sugli altri Spettri, ma su di un Giudice degli Inferi sono davvero poca cosa."
Certo, aveva senso, meditò Kyriakos. I Giudici degli Inferi dovevano aver libero passaggio tra i due mondi, quindi non li si poteva spedire in Ade e, anche ammesso che fosse possibile, sarebbero certo tornati alla carica, era solo questione di tempo. L’essere privato della sua più caratteristica tecnica d’attacco era un duro colpo e ciò lo avrebbe costretto a mutare la sua strategia. Soprattutto, però, avrebbe dovuto fare in modo che il nemico non si rendesse conto di quanto lo metteva in difficoltà quella situazione. Se Eaco avesse letto l’incertezza e l’indecisione sul suo volto la situazione sarebbe potuta precipitare. Kyriakos si sentì per un attimo come l’oplita che fa gran affidamento sulla lancia e se ne vede privato quando il nemico è ancora lontano e la spada non può essere di grande aiuto.
"Ali di Garuda!" Distrazione che poteva essere fatale, considerò Kyriakos evitando il colpo all’ultimo, questa volta non per strategia ma per necessità.
"Quanto pensi di poterti sottrarre?"
"Sei un illuso se credi che mi tiri indietro."
"Illuso dici? Bene, se vuoi davvero conoscere cosa sia un’illusione allora sei pronto per questo: Illusione Galattica!"
Kyriakos credette di essere vittima di allucinazioni. Nel buio della notte, dietro Eaco, si erano spalancati tanti occhi. Occhi ammalianti, iridi ingannatrici, pupille come pozzi profondi. Kyriakos si sentì perduto. Non riusciva a distogliere lo sguardo né a muovere un muscolo. In quella udì un urlo prolungato e intravide Pegasios volare all’attacco e poi cadere al suolo e restare immobile. Che lo scontro stesse davvero volgendo a favore del nemico?
"Ora non puoi sottrarti, Kyriakos! Ali di Garuda!" Eaco afferrò l’avversario per il collo e come se le sue braccia avessero la forza di quelle di un Centimane lo lanciarono in aria. L’armatura di Cancer divenne un punto luminoso, si oscurò nella notte e scomparve alla vista nell’alto della volta celeste. Dopo alcuni istanti Kyriakos precipitò schiantandosi proprio difronte al tempio di Atena Pronaia. Nella caduta perse l’elmo, che volò lontano con un rumore sordo. Il cavaliere giacque a terra, esanime.
"E tre." Pensò Eaco accorgendosi che pure Pegasios ed Elettra erano stati annientati. L’urlo di Maia aveva lacerato l’aria poco prima che Kyriakos precipitasse a terra. Ora quella che era stata una Furia se ne stava immobile, con gli occhi sbarrati, davanti a Radamante.
"Un ottimo tempismo, Eaco. Mi compiaccio." disse Sarpedonte.
Eaco annuì. "Ora ce ne resta solo una da sconfiggere."
"Radamante, fratello, necessiti d’aiuto?" disse provocatorio Sarpedonte.
"Affatto!" fu la risposta perentoria. "Maia è terrorizzata dalla caduta dei suoi nuovi compagni, non lo vedi? Tra poco anche lei cadrà nella polvere e l’onta del tradimento sarà lavata."
"Non ti temo." disse fredda Maia ma la consapevolezza di esser sola l’agghiacciò. No, non tanto l’esser sola, realizzò. Era stata sola con sé stessa per molto tempo negli anni precedenti. Quello che la metteva a dura prova era il vedere i compagni d’armi cadere.
"Castigo Infernale!"
L’attacco di Radamante la riportò alla realtà. Schivò il colpo e si preparò a contrattaccare. Caricò il colpo, espandendo il cosmo, pronta a scagliarsi sul nemico.
"Per il Sacro…" Qualcuno la bloccò stringendole prima il polso destro e afferrandola poi per la gola. Sarpedonte, veloce come un’ombra, l’aveva raggiunta e anticipata.
"Non vorrai far del male a mio fratello, traditrice?"
"Lasciala, è mia!" ruggì Radamante.
"Se tanto ci tieni, eccola!" Strinse il polso della ragazza fino a spezzarlo, con un sordo rumore. Maia gridò di dolore e si accasciò. "E tu davvero eri la Furia degli Inferi? Stento a crederlo!"
"Adesso basta!" urlò Radamante correndo verso il fratello e scansandolo. I due si scambiarono un’occhiata ostile, ma fu un attimo. "Coraggio, finiscila!" disse asciutto Sarpedonte. Sì, darle il colpo di grazia quando ormai non poteva più reagire, pensò con rabbia Radamante. Un’umiliazione, una vittoria senza onore di cui Sarpedonte avrebbe goduto e che gli avrebbe rinfacciato. Lo avrebbe tempestato di pugni non fosse stato che la priorità era abbattere l’ultimo dei nemici al più presto.
"E sia." Rispose con stizza. Caricò il destro e con il sinistro afferrò Maia, sollevandola di peso. "Questa volta non ci sono Cavalieri d’Oro a salvarti!" D’istinto Maia sferrò un destro per difendersi ma l’impatto dell’arto fratturato sulla corazza del nemico la fece urlare e fu come se centinaia di frecce le trapassassero il braccio. Questa volta era davvero finita.
In quella un fulmine balenò nell’aria e l’elmo di Radamente volò via, la presa che la stringeva fu sciolta e la ragazza si trovò a terra mentre una voce diceva: "E se fosse un cavaliere di Bronzo a fermarti, Radamante?"
"Pegasios!" Il giovane aveva la faccia sporca di terra e sangue ma in fondo ai suoi occhi brillava una determinazione feroce. Aver visto Elettra e Kyriakos a terra, immobili, aveva incendiato le sue stelle guida. "Fulmine di Pegasus!!!"
L’attacco era troppo ravvicinato e Radamante non poté che incassare quella sequela di colpi, volando gambe all’aria e cadendo pesantemente sulla schiena. "Chi vuol essere il prossimo?"
"Stolto." disse Sarpedonte. "Così firmi la tua condanna a morte. E sia! Tormento Infernale!"
Questa volta fu Pegasios ad essere preso in contropiede. Non se ne curò. Il suo Fulmine si fece Meteora, il raggio d’azione del colpo si concentrò in un’area ristretta e riuscì a bloccare l’attacco dell’avversario, in uno sfavillio di luci a mezz’aria. Nessuno dei due arretrò e dopo alcuni secondi dovettero desistere.
"Dove trovi la forza di reggerti ancora in piedi?"
"E non è chiaro?" disse Pegasios quasi stupito della domanda. "In Atena! Fulmine di Pegasus!!!" L’attacco fu portato a due mani. Sarpedonte fu spinto indietro e cadde rovinosamente.
Radamante, dopo aver visto con una certa soddisfazione il fratello nella polvere, si stagliò davanti a Pegasios. "Sarpedonte, ora ti mostrerò come si completa lavoro. Castigo Infernale!"
Pegasios si trovò schiacciato a terra. L’energia residua pareva averlo abbandonato tutto d’un colpo. Troppo intenso era stato lo sforzo nei due assalti contro Sarpedonte. Chiuse gli occhi e quando li riaprì Radamante si stagliava su di lui.
"Prenditela con me, Giudice." disse una voce. Non era la voce delicata di Elettra. Non era nemmeno quella di Maia. Una voce ruvida, che sembrava uscire a fatica. La voce di Kyriakos.
"Tu vivo?" esclamò Eaco.
"A te penserò dopo, Pegasios invece muore ora." disse Radamente. Calò un colpo sul ragazzo ma il fendente fu deviato da Maia, che con la sinistra ora teneva il braccio del Giudice. "Lasciami, traditrice!" Disse colpendola allo stomaco e facendola piegare in due. Da terra Maia lo artigliò con le gambe trascinandolo con sé nella caduta e da terra i due cominciarono a colpirsi a ripetizione, cercando di divincolarsi l’uno dall’altra.
Eaco fu il primo a reagire e si lanciò su Pegasios. "Ali di Garuda!" Quel ragazzo lo inquietava e non sapeva perché. Aveva una resistenza e una determinazione fuori del comune, ma c’era qualcosa altro che ancora gli sfuggiva. Bisognava sbarazzarsi di lui al più presto. Quando però stava per scagliarlo in aria Kyriakos lo colpì con un calcio in pieno stomaco e poi mulinò su di lui un sinistro, un destro e ancora un sinistro. Pegasios cadde a terra mentre Eaco urlava a Sarpedonte: "Pegasios, finisci Pegasios!"
Kyriakos sollevò la mano sopra la testa di Eaco e bruciò quanto rimaneva del suo cosmo. "Per il Sacro Cancer!" Eaco fu trascinato nella voragine nera che si era aperta nella notte, ma riuscì ad afferrare e trascinare con sé il Cavaliere d’Oro. Quattro paia dei occhi osservarono in silenzio la scena. Due combattenti erano svaniti nel vuoto, sotto i loro occhi.
"Grande è il potere del Cavaliere di Cancer." mormorò Maia. "Che sia davvero sconfitto uno dei Giudici?"
In un lampo di luce i due riapparvero e subito si accasciarono, l’uno a pochi passi dall’altro.
"Che è potuto accadere?" disse Kyriakos a fatica, cercando di rialzarsi.
Ansimando Eaco rispose: "E’ facoltà dei Giudici muoversi a piacere tra i due mondi, quello dei viventi e quello delle ombre."
"Ma allora perché…" disse Kyriakos "… perché hai riportato indietro anche me?"
"Unico, forse, tra i Cavalieri di Atena, conosci gli Inferi. Non mi sarebbe stato di nessun vantaggio combatterti laggiù. So di cosa siete stati capaci tu e un altro cavaliere durante la guerra sacra contro Ares. Meglio sconfiggerti qui, sotto il cielo."
"Illuso!"
"Sei allo stremo!"
"Non ancora." Era una menzogna e lo sapeva. Quando si era sentito trascinare nella Nebulosa di Cancer aveva creduto che fosse la fine, non aveva più energie per reagire. Ma anche Eaco doveva essersi spaventato se all’ignoto di quel pozzo oscuro dove stava cadendo, lui che pur doveva conoscere il Tartaro, aveva preferito riportare entrambi tra i vivi. Le parole di Eaco gli avevano riportato alla mente l’impresa compiuta assieme a Callistrato. Sembrava passata un’eternità. Si trattava di qualcosa di straordinario, forse di irripetibile, perché azione compiuta di concerto con un compagno potentissimo, con il quale far ardere fino al parossismo le proprie stelle guida. Ora tutto era più difficile. Non aveva la forza che per un solo, altro attacco. I suoi compagni d’armi non erano più in grado di aiutarlo, non per molto almeno. Vide Sarpedonte pronto a finire Pegasios. Non ebbe dubbi.
"Nebulosa di Cancer!" Il suo cosmo dorato rifulse, facendo risaltare maggiormente la voragine del Sacro Cancer.
"No, maledetto! Tormento…" ma già era stato strappato da terra e impossibilitato all’attacco.
"E’ la tua fine, demone!" Con uno sforzo sovraumano, che lo portò sull’orlo dello svenimento, Kyriakos richiuse il varco proprio appena Sarpedonte, su avvolto da spire di luce, lo aveva oltrepassato.
"Buon ritorno in Ade, Sarpedonte! Vedremo se Eaco vorrà andare a recuperati! Addio!"
La voce di Sarpedonte si perse nel nulla.
"Kyriakos…" disse Pegasios guardandolo incredulo.
Radamante aveva mostrato di non amare molto il fratello, Giudice mancato, ma era scosso da quanto era appena accaduto ed ora guardava verso Pegasios e Kyriakos con fare minaccioso. A muoversi per primo fu però Eaco.
"Pegasios" Kyriakos con un filo di voce "abbi cura di Atena e della mia gente ad Eleusi, se il Fato ti concederà di sopravvivere a questa guerra."
"Kyriakos, che dici?"
Il cavaliere sorrise stancamente: "Se ho compreso quello che sta per accadere, è tempo che Pegaso faccia quello che è nato per fare. Tu puoi farlo! L’ho avvertito chiaramente…"
Eaco li stava caricando, il suo nero cosmo aggressivo come non mai. "Ali di Garuda!!!"
Kyriakos incrociò lo sguardo con quello del Giudice e non abbassò gli occhi. Si alzò gridando e scartò portandosi davanti a Pegasios. Con le mani strinse forte un braccio di Eaco, destinato a ghermire il giovane compagno. L’altro tuttavia ghermì lui. La sua energia cosmica era ridotta ormai a poca cosa, non aveva possibilità di opporsi. Con un calcio, e un altro, e un altro ancora Eaco si liberò della presa e diede forza al suo attacco. Kyriakos fu proiettato verso l’alto, in quella che sarebbe stata la parabola fatale. Poco prima di scivolare nell’oblio ebbe un ultimo pensiero per la dea e per i compagni, quelli caduti e quelli che ancora combattevano. "Restate uniti amici, solo così potrete vincere. Proteggete le dea. Addio." Si figurò, infine, la sua ultima, definitiva, discesa nell’Ade e pensò con ironia al fatto che al suo arrivo non avrebbe trovato, a traghettarlo, il nocchiero infernale, dal momento che lo aveva neutralizzato poche ore avanti.
***
Miacle aveva visto il maestro parlare fitto fitto con quella donna che, se aveva capito bene, altri non era che la Pizia di Delfi. Non sapendo frenare la curiosità di udire che dicesse la sacerdotessa si era avvicinato, ma subito Farios gli aveva intimato di andarsene, che non erano discorsi adatti a lui. Aveva protestato, timidamente. Con decisione Farios aveva replicato: "Saprai al momento opportuno! Ora va a mangiare qualcosa e riposati."
Aveva mangiato, assieme ad alcuni giovani di Delfi. Aveva saputo della pioggia torrenziale, delle tenebre che ne erano seguite, dell’ordine di abbandonare il Santuario. Una sciagura dopo l’altra. Gli dei dovevano essere davvero adirati. Forse di questo stavano parlando Farios e la Pizia. Che si preparasse forse una nuova titanomachia o qualcosa di simile? O quella lunga notte stava a significare che il mondo stava per ripiombare nel Chaos? Lo scatenarsi degli elementi lo testimoniava, così come quanto gli era accaduto nei giorni precedenti, prima a Egina poi durante il viaggio verso Corinto. Ebbe paura e volle trovare conforto sulle rive di quel braccio di mare che si stendeva non lontano dall’accampamento tirato su in fretta e furia dai delfici.
Si immerse nelle acque, che trovò meno fredde del previsto, e si produsse in bracciate vigorose, incurante dell’oscurità che si stendeva attorno a lui. Non aveva mai avuto paura di nuotare sotto le stelle, lo aveva fatto tante volte sull’isola; sotto un cielo nero non faceva poi tanta differenza. Bastava non perdere di vista i fuochi dell’accampamento, ben visibili perché alti sopra il mare e che gli avrebbero consentito di orientarsi con facilità. Nuotò fino a che avvertì la stanchezza nelle braccia. Tornò verso riva, uscì dall’acqua e si sentì sollevato al contatto dei piedi con la sabbia grossa del fondale. Recuperò la tunica e cominciò ad asciugarsi. Stava decisamente meglio.
Fu allora che seduta su uno scoglio la vide, progenie di Poseidon, perché solo di una Naiade o di un’Oceanina poteva trattarsi. La fanciulla aveva capelli scuri e fluenti, un profilo delicato, braccia sottili e mani che parevano emettere luce. No, non parevano… Emettevano davvero luce! Un brivido gli percorse la schiena, il cuore gli pulsò più forte nel petto, avvertì il freddo della notte. Una dea, una ninfa, non poteva che essere così. La fanciulla, che vedeva di profilo, aprì gli occhi e parve che altra luce si irradiasse attorno, facendolo sussultare. Stava sognando. Chiuse gli occhi e subito li riaprì. L’oscurità era tornata ad impadronirsi del mondo e della fanciulla luminosa pareva non esserci traccia. Tutto era silenzio. Restò in ascolto. Nulla. Forse la stanchezza, forse i troppi eventi lo avevano stordito a tal punto da causargli quella visione. Era quasi deluso.
Stava per tornare all’accampamento quando la vide di nuovo. Seduta su una roccia, a picco sulle onde, c’era davvero una fanciulla. Incurante della precedente visione e dimentico del timore provato osò avvicinarsi, i suoi passi silenziosi sulla sabbia. Quando le fu vicino, ammirandola dal basso, non poté non apprezzarne le gambe ben tornite e il seno che si intravedeva prosperoso sotto la veste.
Rivolgersi ad una dea forse non era la cosa più saggia da fare in quel momento ma fu quello che fece, stupendo se stesso. "Chi sei?" chiese con un filo di voce.
La ragazza, sorpresa, scattò in piedi ed esclamò: "Da quanto sei lì? Vattene subito!" E fuggì.
Miacle non ebbe il tempo di riflettere, che un impulso passionale gli ardeva dentro, e dunque saltò sulla roccia e cominciò a correre a perdifiato. Era pazzo, forse stava davvero inseguendo una Naiade e presto avrebbe ne avrebbe pagato le conseguenze. Per di più sembrava che la ragazza volasse nella notte. Nonostante questo la raggiunse e le afferrò un braccio. Sbilanciati, rotolarono a terra.
"Lasciami maledetto!" urlò lei colpendolo con un pugno di inaudita violenza.
Miacle si sentì soffocare tenendosi lo stomaco. Riuscì tuttavia a udire la voce di lei farsi più dolce nell’esclamare: "Oh, ma sei solo un ragazzo…"
Gemendo di dolore rispose: "E dire che mi hai visto da vicino…"
"Non ha importanza. Ora vattene via, subito!" E fece per allontanarsi.
"No, aspetta ti prego!" Incurante del dolore Miacle si lanciò verso di lei e le afferrò una mano.
"Ti ho detto di andartene, stupido ragazzo!" Lo colpì di nuovo.
"Ma perché fai così, voglio solo sapere chi sei e vedere il tuo volto." La fanciulla era restia a mostrarsi, stava di fianco e i capelli ora le oscuravano gran parte del volto.
"Non c’è nulla che tu debba vedere!" Un altro pugno, più veloce, che lui tuttavia schivò.
"Ti prego, non fare così. Sei bellissima. Dimmi almeno il tuo nome!"
Questa volta fu un calcio a colpirlo e gli parve che la gamba di lei sprigionasse luce quando lo colpì al costato. Cadde riverso a terra e stette immobile. Perché? Perché tutto questo? Aveva davvero davanti a sé una divinità delle acque? Allora il castigo era imminente e non aveva senso lamentarsi di quello che stava per subire. Terribile, il dolore era terribile, tanto che pensò di essere sul punto di svenire. Eppure lei pareva così bella ed era deliziosa pur nel modo in cui l’aveva colpito.
La giovane si allontanò, poi si fermò e lo guardò. Miacle, evidentemente sopraffatto dal dolore, non si muoveva più. I passi leggeri di lei si fecero più vicini, sempre più vicini. La ragazza si chinò su di lui, ancora a terra in posizione scomposta. Un dubbio la colse e provò qualcosa di simile al rimorso. Che lo avesse… Si chinò su di lui e distese un braccio per scuoterlo…
"Presa!" urlò lui serrandole un polso e un polpaccio tra le mani. Lei reagì in modo scomposto e rotolarono a terra, infine lui si trovò sopra di lei, esultante.
"Lasciami, demone!" Urlò rabbiosa. Lui strinse i suoi polsi ancora più forte e premette col suo corpo sul suo.
"Dove non può la forza, può l’astuzia!" esclamò trionfante. "Non ti farò del male, ma adesso dimmi chi sei e lasciami ammirare il tuo volto."
Lei parve arrendersi, si abbandonò e Miacle sentì che le sue braccia non opponevano più resistenza. Poi tuttavia sbottò: "E allora guardami, idiota! E dimmi se mi trovi bella!"
Miacle le lasciò i polsi e si trovarono seduti l’uno di fronte all’altro. Gli occhi, ormai avvezzi all’oscurità, si posarono sul viso di lei, che stava scostando i capelli, con un gesto che poteva essere di sfida o di rassegnazione. Pelle chiarissima, il naso ben disegnato, la bocca dalle labbra lucide, carnose, che sembravano solo aspettare baci, due occhi che avevano il colore del mare come lo si vedeva nelle più belle baie di Egina… ma dalla parte sinistra della fronte si dipartivano due cicatrici che andavano ad incidere il sopracciglio e riprendevano a solcare il viso della fanciulla poco sotto l’occhio, per curvare poi in direzione dell’orecchio.
"Allora, ti piaccio? Mi trovi desiderabile?"
"Scusa…" fece imbarazzato "io non…"
Un ceffone lo raggiunse ma non versò una lacrima. Le lacrime furono solo quelle di lei che alzandosi in piedi urlò con rabbia: "Non volevi, non lo sapevi! Tu come tutti gli altri! Basta che mi vediate bene e vi allontanate e cominciate a compatirmi o a prendermi in giro." Lo afferrò per la tunica e lo scosse. "Coraggio, dimmi che sono bella, portami dei fiori come fanno i giovani pastori alle ragazze del villaggio o alle belle pellegrine che giungono a Delfi! Seducimi! Che fai, stupido? Fuggi! Scappa come fanno tutti!"
"No, davvero, io…" disse Miacle.
"Coraggio, Atteone, hai trovato la tua bella Artemide! Seducimi! Baciami! Amami! O forse adesso hai paura che io ti sbrani?" Il suo viso si era arrossato, le cicatrici in evidenza, le lacrime brillanti nella notte.
"Veramente…" disse al colmo dell’imbarazzo, non sapendo che dire "… furono i cani di Atteone a sbranarlo non la Artemide." Solo allora Miacle notò una bisaccia che la ragazza portava con sé e dalla quale era uscita una maschera di legno.
Lei rise tra le lacrime. "Sì, certo. Lo conosco il mito." Si rialzò. "E scusa se ti ho fatto del male. Sono malvagia oltre che brutta. Lascia che me ne vada."
"Mi prendi in giro?"
"Le scuse sono sincere. Però vattene via." Quando parlava, istintivamente, la ragazza si metteva di profilo, a voler nascondere lo sfregio sul viso.
"Non serve che ti scusi e non mi importa quanti pugni tu mi abbia dato. Vuoi sapere perché?" Non attese la risposta: "Io ti trovo bellissima."
Queste parole la inchiodarono. Forse fu il tono in cui furono pronunciate, forse furono gli occhi di lui. Le sue parole erano sincere, ne ebbe la certezza, lei che era vissuta fino a quel momento tra scherni e prese in giro. Tuttavia l’abitudine e l’istinto la fecero reagire diversamente da come avrebbe voluto. "Se mi provochi ancora ti farò molto male, più di prima."
"Tutto quello che vuoi, purché non te ne vada. Sono uscito dalle acque e ho visto un’Oceanina splendere su uno scoglio ed è stata la cosa più bella che abbia visto fino ad oggi in vita mia. Devo pagare per questo? E sia, puniscimi! Basta che tu non te ne vada."
"Dici… davvero? Mi trovi bella?"
Lui non rispose ma si avvicinò e le accarezzò una guancia. Lei arrossì e restarono per un attimo a fissarsi.
"No, non toccarmi!" disse lei come fosse spaventata.
"Scusa…" disse imbarazzato. Poi ritrovando il coraggio: "E ora dimmi se sei solo bella come una dea o se lo sei davvero."
"Hai mai visto dee sfregiate in giro?"
"Non ho mai visto dee in giro, se è per quello. Perché tu invece sì?" replicò a tono.
Questa volta la ragazza non poté trattenere una sonora risata. "Mi chiamo Polissena." disse finalmente con tono mite ma rimettendosi subito di profilo.
"Io sono Miacle."
"Non sei di qui vero? La conosco la gente di qui, la vedo, la guardo da lontano, la studio… E sono certa di non averti mai visto"
"Vengo da Egina."
"Egina?" disse sorpresa. "Davvero?"
"La conosci?"
"Mi credi una stupida ignorante solo perché sono donna? Conosco le polis e le isole! Non amo farmi vedere ma ho visto molti luoghi. Il mondo è così bello, soprattutto se non ci sono troppe persone in giro."
"Polissena…" mormorò Miacle. Che nome dolcissimo pensò avvicinandosi a lei.
"Sì?"
La ragazza non arrivò a dire altro che lui le aveva già cinto la vita con le braccia e posto le sue labbra sulle sue. Polissena sentì la lingua di lui premere sulle sue labbra e l’accolse, abbandonandosi tra le sue braccia. La stava baciando! Quel ragazzo di Egina la stava baciando! Come, anzi sicuramente meglio di come si baciavano quei rozzi pastori o i marinai e le fanciulle al porto. Il suo primo bacio. Per la prima volta da tempo immemorabile si sentì felice. In quel momento, davvero, le pareva di essere una dea. Fu un tempo breve e lungo al tempo stesso.
Ad interromperli fu una voce virile. "Miacle! Dov’eri finito?"
Farios li illuminò con una torcia.
"Maestro io…" disse imbarazzato il ragazzo staccandosi dalla ragazza, ma si accorse che il vecchio ora lo ignorava e stava fissando lei con gli occhi colmi di stupore.
"Non è possibile. Polissena!"
"Farios..." disse lei con un filo di voce.
Miacle era frastornato. "Polissena, conosci il vecchio Farios?"
***
"Kyriakos… no, maledizione!" gemette Policrate scattando in piedi. Bastò tuttavia un rapido sguardo ad Atena per ricordargli dov’era il suo posto.
"Maestro, avete percepito anche voi…" Callimaco si era illuso di sbagliarsi, ora la reazione del suo maestro non lasciava spazio a dubbi.
Atena si avvicinò al Grande Sacerdote e lo sfiorò con una mano. A Policrate bastò.
"Atena" Osò chiedere Callimaco "accordatemi il permesso di andare in aiuto dei miei compagni."
La dea percepiva i cosmi vigorosi di Anassilao Archita e Astylos non molto lontano a fronte di uno solo, molto potente. Indubbiamente Minosse. Il pericolo, se c’era, era più lontano.
"Vai, Callimaco." disse. Policrate annuì, soddisfatto.
Callimacò si congedò, uscì dal recinto sacro e corse attraverso le tenebre.
***
Radamante, furente, assestò un calcio in pieno volto a Maia, facendole sputare sangue.
"Traditori e tirapiedi di Atena, vi estirperò uno ad uno. Guai a chi ha l’ardire di recare offesa alla progenie di Europa!"
"Tu saresti progenie di Zeus, Minosse?" disse livida Maia. "Il suo fulmine ti annienterebbe all’istante per questa guerra che muovi ad Atena assieme al tuo signore!"
"Taci, sciagurata!"
Nello stesso istante Eaco aveva agguantato Pegasios. "Il tuo compagno ci ha preso alla sprovvista, ero convinto che avrebbe attaccato me! Poco male, ora lo raggiungerai. Il tempo degli agguati e degli attacchi a sorpresa per voi è finito!"
Pegasios non aveva più in briciolo di forza. Cosa restava? Elettra era morta o morente. Maia era accasciata a terra, la corazza dorata del Leone chiazzata di sangue, Radamante implacabile su di lei. Kyriakos… non volle pensarci. Cosa poteva fare? Era svuotato di energie. Per quanto cercasse non trovava dentro di sé la forza per reagire, l’aver visto troppi amici e persone cui teneva cadere uno dopo l’altro lo aveva annichilito. Se almeno Atena e gli altri Cavalieri d’Oro fossero corsi in aiuto, forse almeno le due ragazze si sarebbero salvate.
"Ali di Garuda!"
Volò su, sempre più su, spinto dal cosmo potente ed impetuoso del suo avversario. Avrebbe fatto la stessa fine di Kyriakos, che pure era tanto più potente ed esperto di lui. Volò su e seppe che dal cielo non si può tornare se non per morire. La triste fine di Pegaso, che non aveva saputo stare vicino ad Atena fino all’ultimo.
Il giovane con l’armatura di Pegaso sparì nella nera volta celeste. Negli occhi di Eaco brillò la soddisfazione. "Addio Pegasios." disse asciutto "Non avevi possibilità contro i Giudici."
Maia non ebbe nemmeno la forza di alzare gli occhi. Era abituata ad esser sola, ma mai come in quel momento la solitudine le pesò. Solitudine e morte, questo le restava. Un epilogo amaro, amarissimo e il senso di colpa per l’essere l’ultima a dover soccombere, lei che si era unita solo all’ultimo alla nobile schiera di Atena.
Eaco non aveva mosso che pochi passi che un urlo spaccò la notte. Una stella si accese in cielo, i colori della terra, delle pietre, delle colonne, del frontone del tempio e dell’erba, dei radi arbusti si fecero all’istante chiari, intensi, vividi. La luce aumentò e parve che il Sole fosse tornato a bucare la cortina di tenebre. Eaco vide i riflessi della sua corazza farsi più blu, i capelli di Maia brillare di fiamma viva. Ma quella voce, quella voce lo agghiacciò.
"Eaco!!!"
No, non poteva essere! I due Giudici lo potevano vedere chiaramente ed era cosa straordinaria e terribile a vedersi al tempo stesso. Pegasios stava planando su di loro, pronto a colpire. E non era tanto il fatto che fosse vivo a stupirli, no. Aveva le ali! Pegasios aveva le ali!
"Fulmine di Pegasus!!!"
Non avvezzo a difendersi da un attacco volante Eaco subì pressoché tutti i colpi, perse l’elmo e si ritrovò a terra.
"Tu non sei… un uomo!" azzardò.
"Pensi io sia un dio?" disse Pegasios con lo stupore stampato in viso. "No, sono un uomo, anche se fatico a crederlo dopo quello che è accaduto lassù. Ero pronto a sprofondare nell’Ade e invece eccomi qui. Forse gli Olimpici mi hanno voluto fare un dono. E quale dono migliore se non le ali che mi ero sempre stupito mancassero a quest’armatura?"
"L’armatura! Guardala Eaco!" fece Radamante preoccupato.
"E’ mutata… E’ più coprente, coprispalla e pettorale sono diversi. Che sta accadendo?"
Eaco ricordò quanto aveva udito nella dimora di Ade, tempo prima. "Il cosmo degli uomini e quello delle armature fatte costruire da Atena… Allora è vero! A differenza delle nostre le loro corazze evolvono assieme a chi le indossa. Avevo ragione nel temere questo ragazzo. La sua armatura e il suo cosmo sono ora di natura superiore."
"Ma non superiore a noi, non ancora!" disse Radamante sprezzante. Poi con più calma: "Nella disperazione del momento supremo ha dunque trovato la forza di far evolvere la corazza, attingendo fino ai recessi della sua costellazione giuda. Le sue stelle rifulgono e tutto ciò è prodigioso. Ma tuttavia è troppo fiacco ora." E gratificò il nemico con un sardonico sorriso.
"Troppo fiacco dici? Allora prendi! Fulmine…"
Ma Radamante era piombato su si lui e gli aveva piegato il polso, lo aveva colpito con una ginocchiata al petto e lo aveva infine atterrato. "Nel pieno del tuo vigore saresti un degno avversario, non certo in queste condizioni."
Era vero, realizzò Pegasios. Era come se l’euforia che aveva sentito crescere in lui quando aveva scoperto che l’armatura era fornita di ali si fosse esaurita. La planata era stata qualcosa di talmente vibrante da togliere il fiato. Era stato Icaro e non vi era Sole che potesse sciogliere le sue ali. Era stato Perseo quando era piombato sul nemico, pronto a finirlo. O era semplicemente stato Pegaso, per Atena e con Atena. Ora tuttavia quel fuoco che gli covava dentro era spento. Ricordò allora le parole di Kyriakos. "Se ho compreso quello che sta per accadere, è tempo che Pegaso faccia quello che è nato per fare. Tu puoi farlo! L’ho avvertito chiaramente…" Sì, comprese, il tempo era giunto! Ma, ironia del Fato, aveva bisogno di tempo per rifiatare e dubitava fortemente che i suoi avversari glielo avrebbero concesso.