XXVIII

Kyriakos si destò e istintivamente cercò la luce del Sole. Solo il buio, tuttavia, incombeva sul suo improvvisato giaciglio. L’astro caro a Febo era celato ed egli se ne rammaricò una volta di più. Quante ore erano passate dal momento in cui aveva preso sonno? E quante dall’alba di tenebra? Sentiva in lontananza lamenti e voci confuse. Uomini e animali, a causa della prolungata assenza della luce, stavano perdendo il senno. Che aspettava Zeus a scendere dall’Olimpo e rimettere al suo posto il fratello usurpatore? Forse che i figli di Crono fossero tacitamente d’accordo per spazzare via gli uomini dalla faccia della terra? No, che orrendo pensiero era quello! I lutti di Eleusi e la poco gradita discesa nel regno dei morti gli avevano lasciato nel cuore un’ombra di morte e di abbandono della quale era difficile liberarsi. Eppure lo doveva fare. Quanto a Zeus e a Febo Apollo, se davvero non si fossero mossi per ristabilire l’ordine cosmico, come egli credeva essere il loro dovere, ci avrebbe pensato Atena. Anzi, forse gli Olimpici erano in attesa che la figlia di Zeus portasse a termine l’impresa per conto del padre. D’altro canto nemmeno quando Ares aveva scatenato le sue orde l’Olimpo si era mosso. Ah, pensiero sacrilego, eppur veritiero, considerò amaramente. Sembrava ormai chiaro che i Celesti avevano delegato alla volenterosa Atena la tutela e la difesa dell’umanità, in un tempo che ormai appariva remoto. La dea dagli azzurri occhi, ai tempi del mito così come pochi anni avanti, si era scelta una schiera di valorosi che combattessero al suo fianco e la aiutassero nell’impresa. Non era dunque il caso di indugiare oltre, era suo compito agire, glielo imponevano il suo essere devoto di Atena e le sacre vestigia che ella gli aveva donato il giorno dell’investitura. Si alzò e affrontò la notte, puntando deciso verso il Santuario.

Arrivò a destinazione in pochi istanti. La notte aveva ben nascosto la meta, che si trovava a pochi stadi di distanza da dove aveva dormito. Percepì delle presenze e rapido si acquattò. Tre cosmi notevoli erano radunati all’ingresso del Santuario. Un altro, ben più potente ma chiaro e limpido, si stava avvicinando. Si fece presso le mura e nascosto dietro una sporgenza rocciosa vide tre Spettri di Ade ricoperti di corazze maestose e luccicanti nel buio. Una sottile aura violacea promanava da essi, sebbene uno dei tre sembrasse stanco.

Ed ecco apparire chi padroneggiava quel cosmo limpido, sereno. Una fanciulla dai lungi capelli neri sciolti al vento, che recava con sé dei fiori e indossava un abito bianco, si stava facendo incontro ai tre. Sulla sua fronte brillava un diadema dorato. Un bagliore lasciava intendere che al dito portava un anello con rubino. Ma ciò che la rendeva unica e meravigliosa era un manto che sembrava essere intessuto con l’essenza stessa delle stelle, che infatti rilucevano fulgide sulla trama elegante e finemente lavorata. La luce di una notte splendente, senza angoscia né paura, si era accesa d’un tratto, tantoché Kyriakos dimenticò per un istante le tenebre orrende che avevano avvolto il mondo e restò incantato ad ammirare tale armoniosa bellezza.

Giunta al cospetto dei tre la fanciulla disse con voce celeste: "Salute a voi, miei nobili e fedeli servitori. Nell’incontrarvi ai piedi di questa dimora divina non posso che considerare che la fiducia e i doni accordativi sono stati ben riposti."

I tre annuirono, anche se si notava una sfumatura di insoddisfazione sui loro volti. Uno di essi ruppe quell’attimo di silenzio e disse: "I Giudici porgono i loro saluti alla loro regina e sono pronti ad accompagnarla al cospetto del divino Ade."

"Lo vedrò molto volentieri sull’alta rocca dove si erge questo Santuario." E così dicendo varcò i cancelli.

Kyriakos restò al coperto ancora un po’. Aveva bisogno di riflettere. Era chiaro chi fosse la nuova venuta e la cosa lo intrigava e lo terrorizzava al tempo stesso. Il fatto che ella si recasse al cospetto di Ade poteva voler dire solo che la Guerra Sacra si avviava ad entrare nella sua fase più acuta. O forse, pensò, il signore degli Inferi ritiene di avere già la vittoria in pugno. Che fosse davvero così? D’istinto cercò la presenza di cosmi amici nelle vicinanze. Nulla. Non vi era alcuna presenza dei devoti di Atena. Si sentì solo, smarrito. Il Santuario di Atena era caduto. Un’altra divinità era scesa in campo. I più formidabili tra i condottieri nemici apparivano ancora imbattuti. La vittoria, pensò, era una Chimera irraggiungibile e soprattutto non vi era nessuno con cui poter anche solo provare a coltivare la speranza. Aveva indugiato troppo ad Eleusi. Avrebbe dovuto correre subito al Santuario, che invece ora era perduto. E con esso… I pensieri si congelarono nella sua mente e il mondo circostante sparì.

***

A Delfi non pioveva più da alcune ore. Il profumo della terra bagnata e lo scrosciare sonoro di Castalia, che fluiva ora con più vigore, erano gli unici elementi che testimoniavano le recenti piogge. In una giornata normale lo si sarebbe dedotto pure del cielo terso e senza nubi, quello stesso cielo che invece restava cupo, con sparute stelle che apparivano e scomparivano di tanto in tanto.

La Pizia era presso il sacro tripode di Apollo quando le fu annunciata una visita. Poco dopo una fanciulla dei neri capelli e dagli occhi color del mare veniva introdotta al suo cospetto. Istintivamente si inginocchiò, ma fu invitata ad alzarsi.

"Sono un’ospite, qui nel tempio di Apollo Pizio. Non vorrei mancare di riguardo al mio augusto fratello." disse sorridendo.

"Come desiderate." La Pizia si sentiva a suo agio. Per quanto potesse sembrarle strano si sentiva più in imbarazzo, più in soggezione, durante i solitari colloqui con il divino Apollo, quando provava ad interpretare le volontà del figlio di Latona, spesso con il dubbio e l’angoscia sottile di non saperne leggere in modo chiaro e preciso gli enigmatici messaggi. La chiarezza con cui le si rivolgeva la figlia di Meti era tutt’altra cosa. Il modo di fare rassicurante della dea le infondeva quella sicurezza che raramente provava quando doveva rapportarsi con Apollo Pizio. Represse un pensiero che giudicò inopportuno; Atena, incredibile a dirlo, appariva più come un’appartenente al genere umano che alle schiere celesti.

"Confido abbiate riposato bene."

"La stanchezza dei giorni scorsi, unita al carico di tensioni, si fa sentire, tuttavia ora va molto meglio. Voi piuttosto, credo stanotte abbiate dormito assai poco, stando a quanto mi hanno detto."

"Stanotte…" disse indugiando la donna. "Vi fossero ancora un giorno e una notte! Questo cercavo di ottenere nelle mie preghiere ad Apollo nelle ultime ore, ma egli resta muto."

Atena per un istante distolse lo sguardo, un’ombra di preoccupazione sul suo volto. Poi, accortasi del repentino imbarazzo della Pizia, evidentemente resasi conto della sua uscita poco fortunata, si prodigò per rassicurarla. "Le vostre preoccupazioni sono pure le mie." E mentalmente aggiunse: e non sapete quanto sarei lieta di percepire il cosmo di mio fratello Apollo e con esso i suoi pensieri e i suoi propositi in questo frangente. "Dite, piuttosto, avete disposto per la partenza degli occupanti del Santuario?"

"Vi ho atteso per gran parte delle ore che sono seguite al nostro incontro. Poco ancora e il Santuario di Delfi sarà a vostra disposizione."

"Ne sono lieta."

Seguì un attimo di silenzio, rotto solo dal crepitare delle torce. "Non esitate a chiedere altro se aveste bisogno."

"L’aiuto di cui ho ora bisogno sta per giungere." disse Atena, che appariva sollevata.

"Posso chiedervi a chi alludete?"

"Ai miei devoti combattenti. Sono certa che sapranno tutelare il Santuario in vostra assenza e allontanare la minaccia da questi luoghi. Io mi prodigherò affinché una minaccia più grande, che incombe su tutta l’ecumene, sia del pari allontanata." Il momento era grave e pesanti erano le parole che avrebbero potuto essere pronunciate. Infatti, non furono proferite.

***

La fanciulla dai neri capelli sciolti al vento approdò infine al Santuario che era stato di Atena. Le facevano ala i tre Giudici i cui volti lasciavano trasparire il legittimo orgoglio di chi sa di aver portato a compimento in modo egregio il proprio compito. Sì, certo, con qualche intoppo, ma tutto ciò sembrava non avere più importanza ora che si trovavano davanti al loro signore Ade, che si mostrò oltremodo compiaciuto e ricambiò il loro saluto in modo garbato e fiero, come si conviene ad un condottiero i cui generali hanno portato a termine la missione assegnata loro. Certo, la guerra non era ancora vinta ma quel momento segnava un crocevia carico di significati. Ade non ebbe occhi che per la nuova venuta e il suo viso perse di colpo ogni tratto di severità, di compostezza e austerità, espressioni che solitamente erano proprie del Nume degli Inferi e che egli soleva mostrare ai suoi sottoposti perché così egli, progenie di Crono, voleva apparire ai loro occhi. Tuttavia proprio là, in quell’ora i tre Giudici, per la prima volta, videro il viso del loro signore aprirsi in un sorriso, prima appena accennato, poi largo e generoso.

"Benvenuta, mia signora, Persefone dolcissima."

"Bentrovato, mio signore, Ade amatissimo."

La mano di lui sfiorò la guancia di lei, che vi si abbandonò. Quanto appariva ora lontano quel giorno infausto in cui lei aveva detestato con tutto il suo essere quella mano immonda che l’aveva portata via, quella mano che l’aveva trascinata negli Inferi dopo che il verde suolo di Sicilia e i prati costellati di fiori si erano aperti per lasciar uscire il cocchio trainato da neri cavalli, il cui nitrito lacerava l’aria tersa, sul quale Ade, fiero e terribile, veniva a reclamare per sé la figlia di Demetra, così come segretamente pattuito con Zeus Tonante. Persefone, che per giorni e per mesi era vissuta nel terrore del ricordo di quell’attimo e di tutto ciò che era seguito, aveva col tempo imparato a convivere col suo signore e, alla lunga, era riuscita pure ad amarlo. Ricordò il dolce tempo di una primavera quando, appena tornata presso la madre in virtù del decreto divino, la prima volta aveva pensato con nostalgia ad Ade, che non avrebbe rivisto fino alla stagione delle foglie morte; mai avrebbe pensato che un simile pensiero potesse attraversarle la mente e si era trattato di un attimo di stupore e meraviglia che le aveva riempito il cuore. Ed ora stava lì, dove aveva sempre desiderato di essere: assieme ad Ade, sotto i cieli che Zeus governa, sotto i cieli che sua madre, dispensatrice di frutti, le aveva insegnato ad amare.

"Come promesso, ecco la tua nuova dimora."

"La nostra dimora." rispose lei prendendogli la mano.

"Vi dimorerò con te ogni volta che vorrai, ma sappi che questo tempio è un mio dono per te e quindi tu sola ora ne sarai signora. Rendi grazie ai miei generali che, seppur con qualche fatica, lo hanno conquistato per te e ne hanno cacciato i precedenti occupanti."

"Onore ai miei fidati Giudici infernali, tuttavia so" e qui si fece orgogliosa "che siete stato voi a cacciare colei che lo occupava fino a poche ore fa."

D’un tratto il volto di Ade tornò quello consueto e compostezza e severità furono di nuovo con lui. "Non è esatto, mia Persefone, ma questo è un dettaglio del quale parleremo più tardi." E lanciò un’occhiata ai Giudici.

"Voi…" ardì chiedere la dea "non avete dunque sconfitto Atena di vostra mano? Eppure ho sentito il suo cosmo spegnersi."

"Ho spento il suo cosmo, certo, ma ciò mi si è ritorto contro. Ella, con l’aiuto di un mortale arrogante che si compiace di essere il suo sacerdote e che mi ha sottratto l’elmo, è fuggita. Laverò al più presto l’oltraggio del superbo Policrate. Ora tuttavia so dove Atena si trova e presto cadrà assieme a coloro che ancora combattono al suo fianco."

Persefone si avvicinò al dio e appoggiò il suo capo sul suo petto, abbracciandolo. "Sapete che avrei tenuto al fatto che voi la puniste di vostra mano."

"Dovresti avere motivo di amarla, oltre che di detestarla, considerando quale è stato l’effetto remoto di quella che tu giudichi una sua imperdonabile azione."

"Dovrei, ma mi è ugualmente insopportabile per quello che ha fatto. La nostra condizione di dee era la medesima e lei, in quell’ora, non si degnò di fare quello che andava fatto. Ingannevole e spergiura, come i mortali con i quali ha imparato a convivere."

Ade la strinse a sé e sorrise. "Confido che, vivendo in questo luogo, l’influenza dei mortali non nuocia anche a te."

"Non accadrà." disse fiera.

"Desideri qualcosa, ora che finalmente ci congiungiamo in questo luogo che tanto hai desiderato?"

"Sì, desidero che sparisca da questi templi e da quest’altura ogni traccia di lei."

"Penseremo noi ad esaudire questo vostro desiderio." disse prontamente Radamante che se ne stava inginocchiato in disparte assieme ai parigrado.

"Ti ringrazio, nobile Radamante."

"Altro?" chiede Ade.

"Sì." disse Persefone esitando come chi teme di osare troppo nel chiedere. "Guardate, mio signore. Da quassù la vista è stupenda e stare qui con voi mi riempie di felicità e di orgoglio, tuttavia il manto nero che avete teso sotto il Sole e che impedisce di vedere il cielo mi priva di qualcosa che da tempo desidero. Vorrei che un angolo di cielo ci vedesse finalmente insieme, qui, sulla Terra. Vorrei la luce delle stelle sul vostro e sul mio viso."

"Ogni vostra richiesta è per me un obbligo." rispose prontamente Ade.

Il suo cosmo primigenio si espanse, il potere del figlio di Crono lo fece brillare nella notte davanti agli astanti. Rapido sollevò un braccio al cielo e passarono pochi istanti che le nubi di scostarono e si dissolsero, mentre un angolo di cielo stellato si rendeva visibile. Da quanto non ammiravo le stelle pensò compiaciuto Ade, ma subito le sue attenzioni furono tutte per Proserpina che lo stava cingendo con le braccia.

"Ora ho tutto quello che una dea può desiderare."

***

Kyriakos fu scosso da una mano amica.

"Cavaliere, ti lasci abbattere proprio nel momento decisivo?" Chi osava pronunciare quelle parole, si chiese girandosi ad ammirare il volto sorridente del nuovo venuto. Riuscì a stento a trattenere un grido di gioia, quella gioia che esplode incontenibile quando giunge inaspettata.

"Astylos!"

Il cavaliere sorrise, stringendosi nella sua armatura dorata, che portava ancora i segni dei detriti e delle pietre che le erano piovute addosso. La sua era stata una lunga corsa, dal profondo sud del Peloponneso fino alla piana di Atene, in parte sotto la pioggia battente.

"Ti temevo perduto. Che sciocco sono stato…" disse rammaricandosi.

Astylos lo rincuorò. "Sono stato davvero prossimo alla fine, amico mio. Sepolto da una montagna di pietre sarei di certo annegato quando la marea ha invaso l’anfratto dov’ero intrappolato, privo di sensi. Eppure la medesima acqua che avrebbe dovuto uccidermi si è rivelata la mia salvezza. Destandomi mi ha dato il tempo di reagire e per di più, dilavando quelle pietre che mi avevano intrappolato, mi ha permesso di smuoverle quando bastava per liberare le braccia."

"Il tuo cosmo vigoroso avrà poi fatto il resto." concluse Kyriakos.

"Così è stato. Ed ora, amico mio, mettiamoci all’opera!" Astylos era determinato. "Non ci ha vinto Ares con le sue schiere di devastatori e la loro furia incontenibile, vogliamo cedere ora? Mostriamo al figlio di Crono cosa possono fare i Cavalieri di Atena!"

La sua fierezza fu tuttavia fiaccata dall’espressione grave del compagno d’armi. "Kyriakos" disse infine, temendo per quello che stava per scoprire "che ne è degli altri?"

Kyriakos abbassò il capo: "Ho avvertito dei cosmi spegnersi." La pausa che seguì fu lacerante. "Pelopida, Clearco, Pisandro e pure Alcmene non sono più…" Non riuscì a sostenere oltre lo sguardo di Astylos, che si era spento via via ad ogni nome pronunciato. Ma il nome più pesante gli gravava ancora nell’animo e ardo era pronunciarlo. Trovò infine il coraggio e lo disse d’un fiato. "Non è più con noi nemmeno Archelao."

Il viso di Astylos si contrasse e uno spasmo lo fece deglutire più e più volte, mentre si passava una mano sul volto. Cominciò a sudare freddo, senti una vampa di calore salirgli alla testa mente le immagini si facevano confuse. La sua voce, come un soffio, articolò parole fragili nella notte. "E’ stato il primo cosmo che ho cercato e in cuor mio speravo fosse con Atena, lontano da qui, lontano da quest’orrore…" Kyriakos vide lo sguardo dell’amico velarsi di lacrime per la perdita dell’amato allievo.

"Se può in qualche modo lenire il tuo dolore" riprese d’un tratto con tutta la delicatezza di cui era capace "sappi che l’altro tuo allievo, Pegasios, si è battuto in modo esemplare ed è stato capace di grandi imprese. Ora si trova ad Eleusi a vegliare sulla mia gente, o su quel che ne resta…"

Astylos teneva ora il capo chino, ma ascoltando quelle ultime parole aveva sollevato lo sguardo a fissare la rocca sulla quale era adagiato il Santuario di Atena.

"Sono lieto che almeno lui sia ancora tra noi." disse cercando di dominarsi. Non si vergognava a mostrare la lacrime davanti al suo vecchio compagno d’armi. "Ti prego" disse infine "contattalo con i tuoi poteri mentali. Sembra avremo bisogno di tutto l’aiuto possibile."

"E’ la cosa giusta da fare, certo." disse Kyriakos valutando la situazione. Il pensiero della patria così vilmente attaccata e della sua gente dispersa lo aveva condizionato anche troppo, ora doveva pensare meno a sé e a chi amava e di più a quello che era suo dovere fare. Astylos, pur scosso dalle notizie che gli aveva dato, aveva ugualmente compreso il suo cruccio: il sentir parlare di Eleusi attaccata gli aveva fatto subito pensare al dolore che il suo compagno d’armi poteva aver provato. Chi è colpito negli affetti forse può non essere molto razionale nelle scelte che gli competono ma certo non può errare nel giudicare e nel comprendere chi patisce tormenti simili ai propri.

"Se quello che mi hai detto di lui è quello che credo di aver intravisto nel corso dell’addestramento, non vedo l’ora di poter riabbracciare Pegasios." Kyriakos annuì.

"Prima, tuttavia, c’è qualcos’altro che voglio fare." Continuò Astylos cambiando espressione.

Sotto gli occhi increduli di Kyriakos incoccò una freccia.

"Astylos, che vuoi fare? Non vorrai usare la freccia senza il consenso della dea? E per fare cosa poi?"

Lo sguardo di Astylos brillò di determinazione e di rabbia. "La freccia del Sagittario è al servizio di Atena e deve essere usata per proteggerla, per essere al servizio dei suoi ideali e di chi si rivolge a lei, giusto? E allora lascia che una delle mie frecce dorate giunga là dove dovrebbe trovarsi Atena. Che importa se Ade ne ha usurpato il tempio e il suo cosmo imperversa in questi luoghi? Ora avrà un segno tangibile che si trova nel luogo sbagliato e che i cavalieri di Atena combattono ancora!"

"Astylos…" mormorò ammirato Kyriakos. Il cosmo del cavaliere del Sagittario brillò nella notte e presto quello del Cancro si unì ad esso.

"Ade!" urlò Astylos "Ammira questo lampo nella notte! Squarceremo presto il velo di tenebra che hai steso sull’ecumene, stanne certo! Per il Sacro Sagitter!"

L’arco si tese e poi la forza accumulata dalla corda si liberò sul dardo, che si accese accelerando nella notte e diventando repentinamente agli occhi dei due cavalieri non più di un punto luminoso che saettava verso la sommità del colle, sorvolando tutti e dodici i templi dello Zodiaco.

Ade e Persefone stavano ancora ammirando quell’angolo cielo quando una stella parve accendersi proprio sopra i templi del Santuario, procedendo a folle velocità verso di loro. Ade scostò la dea giusto in tempo per evitare il colpo.

Dopo aver sibilato a pochi palmi da loro la freccia dorata si conficcò nella viva pietra e vibrò per alcuni secondi, che sembrarono eterni, sotto lo sguardo stupefatto del figlio di Crono e della bella Persefone.

"E’ stata scoccata dalla base del Santuario." mormorò Ade ammirato da tanta audacia. "Quei folli resistono ancora. La loro determinazione è sorprendente, come è sorprendente che questo dardo, scagliato da così lontano e a sfida del mio cosmo, sia giunto fin qui."

"Che superba manifestazione di potenza." esclamò Persefone fissando un punto alla base dell’altura, come a voler individuare chi era stato capace di tanto. Neppure per un attimo era stata colta da paura o timore. "Ora comprendo quanto siano temibili i nostri avversari. Tuttavia, mio signore come avete conquistato il Santuario, sono certo che presto avrete ragione di costoro." E per parte mia, aggiunse mentalmente non volendo rivelare quel pensiero al suo signore, sono ora più che mai convinta che concedere ad alcuni degli Spettri uno speciale privilegio sia stato un sacrificio necessario per vincere questa Sacra Guerra.

Udì Ade dire: "Sarà così. Si va allo scontro risolutivo e saranno quei temerari ad avere la peggio. Minosse! Eaco! Radamante!" I tre Giudici si fecero avanti. "E’ giunto il momento di scrivere l’ultimo capitolo di questa Guerra Sacra." I tre annuirono. "Sapete quello che dovete fare." Persefone incrociò i loro sguardi e sorrise, sicura che tutto sarebbe andato come previsto.

Molto più in basso Astylos e Kyriakos osservavano stupefatti il cielo. Un angolo di stelle si era offerto loro, squarciando quel manto tetro.

"Che sia solo un caso, un capriccio del Fato?" si chiede Astylos riponendo l’arco.

Kyriakos si concesse qualche istante per riflettere. "Lo scopriremo ben presto. Queste tenebre non potranno essere peggio di quelle che ci hanno avvolto durante lo scontro finale contro Ares."

Astylos guardò con ammirazione il compagno, con il quale era stato in prima linea nel corso di quella battaglia. "Sia così anche stavolta allora. Espandi il tuo cosmo, cavaliere, dobbiamo trovare Atena e raggiungerla!"

***

Avevano camminato per ore e si erano infilati dapprima tra colli dolci, poi in una valle più stretta. Un torrente mugghiava in basso, ingrossato dalle recenti piogge. Guardando verso ovest la catena di monti si apriva e avrebbe lasciato intravedere il mare se solo si fossero trovati ad un’altitudine maggiore e sull’altro versante della valle. Alla loro destra incombevano le solide rocce, i costoni da una sparuta vegetazione e la sagoma scura del monte caro al dio. Solo più in basso, dove il buio era più fitto, si potevano intravedere pini e latifoglie, sollievo dei pellegrini nelle calde giornate estive, quando percorrere quelle vie di pietra che si inerpicavano verso l’alto era assai faticoso e le propaggini del Santuario sembravano non dover apparire mai. Che gioia tuttavia quando, dopo l’ennesimo tratto che si portava sotto la parete rocciosa, si potevano distinguere il recinto sacro, gli ex voto e il tempio cui faceva da sfondo il teatro, ai piedi del Parnaso. E già pareva di sentire l’allegro gorgoglio di Castalia mentre il profumo di resina, talvolta mescolato a quello del mare, di là dai monti, inebriava chi dopo tanti sforzi giungeva ad ammirare il luogo dove il divino Apollo godeva del culto più fortunato e celebre di tutto il mondo greco. Accadeva allora che molti scoprissero solo una volta giunti là che, prima di accedere al santuario del dio, si transitava nei pressi di un altro recinto sacro, ai piedi della celebre Delfi, cantata dai poeti: si trattava dell’area sacra dedicata ad Atena Pronaia e là era diretto il drappello che da tante ore avanzava nelle tenebre.

Policrate si fermò, a scrutare un attimo nell’oscurità. "Ci siamo, finalmente." Callimaco si sentì sollevato, Elettra si strinse a Metoneo, il quale fece ardere il suo cosmo per trovare Atena. Stavano per ricongiungersi alla dea.

***

I tre caddero pesantemente e ruzzolarono tra pietre affioranti e piccoli arbusti, arrestando la loro corsa l’uno sull’altro. I loro sguardi si incrociarono, increduli, mentre respiravano affannosamente a bocca aperta, a prender fiato, negli occhi ancora la grande luce che li aveva avvolti per sprofondarli nelle tenebre. Era tuttavia evidente che non si trovavano nel Tartaro. Sottili ciuffi d’erba verde e piccoli fiori di montagna, le cui corolle erano chiuse, testimoniavano che si trovavano ancora nel mondo dei vivi. I loro cuori battevano all’impazzata, ma il battito si andava normalizzando mentre si guardavano attorno, guardinghi.

Restarono per alcuni istanti senza rivolgersi la parola. L’uno dopo l’altro si tirarono in piedi, ancora provati per lo sforzo, ma nei loro sguardi vi era la gioia di chi si credeva morti e si scopre vivo.

"Sembra che siamo vivi."

"Non so spiegare come, ma pare sia così." disse il cavaliere dai capelli più chiari.

"Non osavo sperare tanto. Pare che la nostra difesa congiunta abbia funzionato." Plistene parlava con affanno. Era il più provato dei tre.

"Che intendi dire con difesa congiunta?" chiese Anassilao stupito.

"Lascia che ti spieghi." disse Archita respirando a fondo. "Quando il colpo di Ade è calato su di noi istintivamente ho alzato il Muro di Cristallo e credo che Plistene abbia fatto lo stesso con la sua barriera difensiva."

"Esatto, Archita, ma non osavo sperare funzionasse!" disse d’un fiato Plistene. "Credevo sarebbe andata in pezzi all’istante."

Anassilao si guardò attorno. Vi era ancora qualcosa di poco chiaro. "Siamo scampati al colpo di un dio, e ciò è prodigioso, ma c’è qualcosa che non mi spiego. Come siamo finiti in questo luogo? E soprattutto dove siamo?"

Plistene diede la sua interpretazione: "Dopo aver alzato il Kahn ho avvertito la potenza di quel cosmo e il suo calore. Ci avrebbe uccisi all’istante, le nostre difese stavano già cedendo. Ho allora usato la mia facoltà di recarmi sul limitare dell’Ade. L’istinto di sopravvivenza" continuò con imbarazzo "mi ha spinto a fuggire e ad abbandonarvi…"

Ad Anassilao sfuggì una risata: "Plistene non ti crucciare! Era quello il luogo dove saremmo dovuti approdare!"

"Sì, ma da morti. Io volevo arrivarci da vivo. E invece eccoci qui. Come sia stato possibile, non lo so dire."

Anassilao lo rincuorò: "Non posso certo prendermela perché hai cercato di fare quanto in tuo potere per sottrarti alla morte. In quel frangente, se ci pensi bene, ognuno di noi era solo anche se eravamo assieme." Fece una breve pausa e la sua voce si fece un sussurro. "Ognuno è solo davanti alla morte."

Archita si avvicinò a Plistene. "Cavaliere, forse ho capito cos’è accaduto e se le cose stanno come credo siamo salvi per merito tuo." Plistene lo guardava fisso negli occhi. Archita continuò: "Da tempo cercavo di elaborare una tecnica che permettesse di spostarsi nel mondo sensibile nello stesso modo in cui tu e Kyriakos vi spostate tra il mondo sensibile e l’oltretomba. Non ero mai approdato ad alcun risultato." Plistene sgranò gli occhi e annuì, illuminato. "Hai indovinato, amico mio. I nostri tre cosmi, tesi all’infinto nell’attimo fatale, l’uso delle nostre barriere, che ci isolava dal mondo circostante e forse, chissà, una risonanza tra i nostri cosmi, hanno fatto sì che quando tu hai usato la tecnica della trasmigrazione tutti e tre venissimo portati lontano dal Santuario."

Anassilao era senza parole. "Stupefacente è il vostro potere! Sono ammirato e quanto mai onorato di combattere al vostro fianco." Detto questo cercò di distinguere la valle che si apriva sotto di loro. "Avete idea di dove siamo capitati?"

"Sì." disse sicuro Plistene "Quello che vediamo di fronte a noi è il Parnaso, quindi siamo nella valle di Delfi. Credo che Atena non sia lontana."

Archita e Anassilao, illuminati dalle parole dell’amico, riconobbero anch’essi quei luoghi che avevano già visitato in passato, seppur mai sul far delle tenebre e a quell’altitudine.

"Coraggio allora! Raggiungiamo il Santuario di Delfi e forse lì troveremo chi cerchiamo." disse Archita indicando l’altro versante della valle, che avrebbero raggiunto solo attraverso impervi sentieri. Gli altri due annuirono, pronti a muoversi.

"Dove credete di andare?" Una voce risuonò decisa e aspra nell’oscurità.

"Il vostro cammino si ferma qui!" fece eco un’altra.

Due ombre si piantarono davanti a loro, come fossero apparse dal nulla. "Radamante aveva dunque visto giusto. Bravi cavalieri che ci avete gentilmente indicato come arrivare da Atena! Ora possiamo pure avvertire il nostro signore, che possa piombare qui. Intanto noi scriveremo la parola fine sulle vostre esistenze, così come il nobile Radamante ha fatto con quella del vostro forzuto amico!"

Anassilao replicò a tono. "Saremo noi a scrivere la parola fine!"

"A chi alludi quando dici forzuto amico, spettro?" intervenne Archita.

Quello rise sguaiatamente. "Credo si chiamasse Alcmene. Ma che importa? Vi rivedrete presto!" L’espressione sardonica che comparve sul suo volto era quanto di più irritante si potesse immaginare.

In un batter d’occhio i tre cavalieri passarono così dalla gioia della salvezza allo sconforto per la perdita di un amico.

"Alcmene, sarai vendicato…" mormorò Archita, sudando freddo e stringendo i pugni.

"Risparmia il fiato, sciocco. State per lasciare questo mondo." disse lo Spettro che aveva parlato meno. "A voi l’aroma letale dell’Elleboro Nero!" Un afflato acre e mortifero impestò l’aria. "Questo veleno vi farà dormire per un bel po’. Tuttavia non sarò io, Ascalafo della Stella della Terra dell’Abbondanza, a finirvi. Lascerò quest’onore al mio fido compagno, Busiride, della Stella della Terra Demoniaca."

Presi alla sprovvista e spiazzati da una tecnica così insolita, i tre non ebbero il tempo di reagire. Plistene riuscì solo a pensare di usare il Kahn che la vista gli si annebbiò e cadde privo di sensi. I postumi della battaglia con Aletto e il recente sforzo per sostenere l’attacco di Ade avevano prosciugato le sue energie. Archita resistette appena un attimo di più. Il Muro di Cristallo aveva fatto il suo dovere ma pure lui aveva agito con ritardo e quindi gli effetti del veleno erano stati solo attenuati. Si ritrovò a terra, la bocca e il naso come fossero in fiamme, i movimenti intorpiditi e la vista appannata. Solo l’udito non gli era precluso. Anassilao, che stava dietro di lui, aveva retto meglio proprio in virtù della distanza che lo separava dal nemico. Piegato sulle ginocchia provava a mettere a fuoco i due che li avevano attaccati e a concentrare il cosmo nelle mani, che tuttavia gli rispondevano a fatica.

Una risata agghiacciante e Busiride disse ad Ascalafo: "Ben fatto! Ora mi occuperò subito del biondino, questi altri due sono ormai ridotti a poco più che larve. Avanzamene uno, voglio vendicare i compagni caduti!" Scattò in avanti e con un calcio colpì Anassilao in pieno volto, facendogli sputare sangue.

"In piedi, feccia greca! Sarebbero dei rammolliti come te coloro che hanno vinto i miei conterranei Apofis e Kanagos? Stento a crederlo." E sferrò un altro calcio, che Anassilao riuscì solo in parte a contenere sollevando un braccio. "Ti strapperò questi orridi capelli chiari uno ad uno!" E la sua grottesca risata risuonò ancora. "Non lo sai che il destino dell’uomo è destino di dolore e sofferenza, che la vostra vita è effimera e vi conduce alla morte tra amarezze, sofferenze e dolore? No? Non te ne eri ancora accorto? Voi stolti sembravate persino contenti della vostra sorte quando vi siamo apparsi davanti. Cosa ci può essere di soddisfacente nelle vostre ridicole esistenze? Ve lo siete mai chiesti? Siete destinati a cadere sotto i colpi del Supremo Ade, così come quelli che osano porsi sul nostro cammino. Consolati, tuttavia, perché a differenza dei comuni mortali, che trascinano le loro vite negli stenti ma talvolta resistono a lungo prima che il filo della loro vita sia reciso, tu e i tuoi compagni non dovrete più patire fame, freddo, né fatica, né sventura, né affanni perché la vostra esistenza cessa ora per mano mia!" Afferrò Anassilao per il collo e godeva nel sentire il suo respiro diventare via via un rantolo. "O forse avresti preferito cadere proprio per mano di Ade? Non meriti questo onore, biondino!"

"Busiride, falla breve e finiscilo! C’è dell’altro lavoro da fare con una certa fanciulla."

"Te ne intendi di fanciulle, vero?" disse malizioso Busiride.

Ascalafo si irrigidì. "Un’altra parola, Busiride, e sarai tu il prossimo a subire l’Elleboro nero. E quanto alla tua ridicola allusione, dovresti sapere che la nostra regina mi apprezzava un tempo."

"Peccato che tu sia caduto in disgrazia." Ghignò l’altro.

"Ringrazio tuttavia Radamante per avermi concesso di partecipare ugualmente a questa Guerra Sacra, così che ella e il Sommo Ade possano ricredersi sul mio conto."

Così dicendo si era avvicinato ad Archita. "Come la rosa fiorisce e in fretta sfiorisce, così la tua vita si spegnerà ora, cavaliere, in un tripudio di essenze infernali."

Archita sapeva che aveva poco tempo, ma non potendo vedere l’avversario, colpì alla cieca. Il nemico lo scansò e si apprestò a finirlo. "Elleboro Nero!" Il cavaliere dell’Ariete brillò nella notte e una barriera si pose a sua difesa.

"Stolto, non ti servirà a nulla. Il veleno che si spande nell’atmosfera supererà questo muro iridescente e arriverà a te comunque, è solo questione di attimi." Tuttavia con suo grande stupore il Muro di Cristallo si incurvò e divenne una cupola che proteggeva completamente Archita, il quale ringraziava mentalmente Plistene per aver avuto l’occasione di osservare da vicino la sua tecnica difensiva e averla saputa imitare, ricorrendo alle energie residue. Tuttavia quanto poteva resistere? E che ne sarebbe stato dello stesso Plistene, svenuto e indifeso? Chi avrebbe salvato Anassilao, del quale poteva udire i lamenti?

Anassilao avvertì una morsa d’acciaio serrarsi attorno al collo. Le parole di Busiride gli avevano stranamente richiamato un volto della sua infanzia. Un volto e uno sguardo. Uno sguardo limpido nonostante tutto. Ripensò a quegli occhi, un lampo di bellezza tra gli sfregi e l’ingiuria del tempo. Un attimo e fu come se l’essenza stessa della luce esplodesse in lui.

Busiride, già certo di averlo vinto, nemmeno si rese conto di ciò che stava accadendo. L’aura vitale di Anassilao gli bruciò le mani, che ritrasse di scatto. Subito dopo fu travolto da un’ondata di energia vasta e incontrollabile. "Esplosione Galattica!"

Tanto Busiride quanto Ascalafo furono spazzati via dall’onda d’urto. Quando si sollevarono videro ritto davanti a loro Anassilao di Naxos, cavaliere dei Gemelli, pronto a dare battaglia, lampi negli occhi e muscoli tesi sotto l’armatura.

Il primo a rialzarsi fu Busiride. Il pettorale e i coprispalla della sua corazza erano stati incrinati dal colpo e l’elmo era volato via. Un rivolo di sangue gli scendeva dal naso. Pazzo di rabbia si diede a guardarsi attorno. "Dove sei, miserabile!"

"Stai cercando me!" disse deciso Anassilao stringendo un pungo. Si sentiva ancora intorpidito ma almeno riusciva a muoversi.

"Pagherai quest’affronto! Ora! Ascia Sacrificale!" Un’aura scarlatta apparve attorno allo spettro e una lama grondante sangue apparve alle sue spalle. Anassilao si gettò di lato ma era ancora troppo lento. Avvertì le carni del quadricipite lacerarsi, in uno dei pochi punti dove l’armatura non lo difendeva.

"La mia specialità è spiccare le teste, ma a te, che hai osato colpirmi, mozzerò prima braccia e gambe, lurido greco, carne buona solo per placare gli dei furiosi!"

"Il mio nome è Anassilao di Naxos! Sono certo che prima che il nostro scontro termini lo avrai impresso nella mente e lo maledirai!" disse l’eroe. Gettò un’occhiata ai compagni e capì di dover agire in fretta, prima che Ascalafo si riprendesse. Non ce l’avrebbe fatta a tenere a bada l’uno e l’altro e questo in virtù delle loro tecniche d’attacco.

"Naxos? Quindi sei uno degli infelici che vive su quegli scogli gettati dell’Egeo, buoni solo a crescere capre! Derelitta razza dei mortali, più miserabile ancora se ha la sventura di nascere in un luogo infame come quello! Ascia Sacrificale!"

Anassilao provò a parare il colpo. Il bracciale della sua armatura si incrinò e, cosa più incredibile, si macchiò di sangue.

"Non è possibile, non puoi aver infranto l’armatura d’oro!"

Busiride rise: "No, non ti crucciare. Questo è il sangue di chi ti ha preceduto, ma presto farò bere alla mia arma pure il tuo. Prima dimmi però a che divinità preferisci essere sacrificato. Non rispondi? Allora sceglierò io per te. Ti sacrificherò ad Atena!" E rise per l’ennesima volta.

"Sono stanco di ascoltare i tuoi vaneggiamenti. Busiride è il tuo nome, giusto? Un nome che è già stato maledetto da un eroe più grande e potente di me. Ebbene farò di tutto per imitarlo e farti fare la fine che meriti!"

"Taci! Ascia Sacrificale!"

Anassilao stavolta era preparato e lo aveva provocato a posta. "Da così vicino sei un bersaglio sin troppo facile." Le sue stelle guida si erano accese già e gli astri ruotavano furiosamente. "Esplosione Galattica!"

Con il braccio sollevato sopra la sua vittima Busiride non aveva considerato che il nemico, ancora intorpidito dall’Elleboro Nero, potesse replicare con tale rapidità. Vide ancora una volta luci di astri e galassie intorno a sé, prima di ritrovarsi a terra, parecchi metri più indietro. Si sollevò con furia e si rimise in piedi. L’odio si manifestava nel suo sguardo, iniettato di sangue.

In quella anche Ascalafo si stava rialzando e Anassilao pensò con orrore a ciò che poteva accadere ad Archita e Plistene. Archita, tuttavia, si stava alzando a sua volta.

"I miei complimenti, cavaliere, gran tecnica difensiva la tua." disse Ascalafo. "Tuttavia non potrà salvarti. Ho diversi modi per finirti e non esiterò a usarli. Prima però dimmi il tuo nome, che possa poi pacificarmi con Ade mentre gli comunico il nome del valoroso che ho sconfitto."

Archita, le cui membra erano ancora intorpidite, cercò di guadagnare tempo e lo spunto gli fu offerto proprio dalle parole dell’avversario.

"Il mio nome è Archita di Thera. Ora dimmi chi sei tu e perché dici di doverti riconciliare con Ade."

Il nemico tacque, pensieroso. Poi cominciò, incredibilmente, invece di attaccare iniziò a raccontare, mentre un altro duello infuriava a pochi metri da loro.

***

Busiride si era rialzato ed era pronto per un altro affondo: "Te la sei voluta, stolto. Ti annienterò con la mia tecnica più potente." La rabbia aveva ceduto il posto ad una fredda determinazione e i suoi occhi erano diventati due fessure sottili. Fiamme scarlatte si accesero attorno a lui. "Fuoco Sacrificale!" Repentine fiamme scaturirono dal terreno ai piedi di Anassilao, avvolgendolo. Il ragazzo arse e lanciò un grido. D’istinto si coprì il volto e provò a togliersi di lì, ma le fiamme parevano essersi propagate all’intero pendio, bruciando arbusti, muschi e piccoli fiori dalle corolle chiuse. Incespicò su una roccia e cadde, mentre le fiamme lo divoravano.

"Vedessi che bella pira sei diventato, Anassilao!" esclamò Busiride, ebbro d’ira. "Cosa credevi ti riservasse il destino, gloria e onori? O ti saresti accontentato di felicità e amore? Folle e presuntuoso! Il destino dell’uomo è destino di sofferenza, la vostra vita è un cammino tra i patimenti, le sofferenze e le delusioni. Vi illudete che una vita vissuta con moderate soddisfazioni sia degna di essere chiamata tale, ma vi ritrovate stanchi e vecchi, affamati o ammalati, resi inerti e spesso ebeti dalle ingiurie del tempo. Da giovani siete fardello per i genitori, da adulti vi dovete caricare della soma di delusioni e fatiche per sostenere voi stessi, i vostri figli e i vostri genitori e da vecchi, infine, tornate ad essere fardello di chi vi deve accudire. Vivete di stenti, vi nutrite male e male vi vestite, sempre esposti al pericolo e ai capricci cel Fato, che a voi non risparmia certo malanni e disgrazie. Che bella esistenza, vero? Puoi solo ringraziarmi, uomo, perché sto per liberarti dal tuo destino di lento disfacimento per trasformarti in una bestia sacrificale che certo sarà gradita alla dea che servi!" Sorrise, mostrando le gengive sanguigne, e nel suo sguardo vi erano soddisfazione e orgoglio come in chi, pronunciata un’orazione, si mostra soddisfatto delle sue convinzioni e del modo in cui le ha espresse. "Ed ora occupiamoci degli altri due miserabili."

Anassilao, terrorizzato come qualsiasi creatura vivente che sia circondata dalle fiamme, aveva udito il peso di quelle parole e si sentiva come il metallo incandescente che da ragazzo vedeva percuotere con forza nella bottega del fabbro del villaggio. Le cose stavano davvero come aveva detto Busiride? Egli stesso aveva veduto la sofferenza, il dolore e le disgrazie, tanto nella nativa Naxos quando ad Atene. Come capitava probabilmente agli uomini fin dalla notte dei tempi si era interrogato sul significato della vita, sul destino, sulla sofferenza e sul dolore. L’incontro con Atena e l’esser diventato suo cavaliere avevano solo in parte fornito risposte e quietato i suoi dubbi esistenziali. Dolore e sofferenza avevano continuato a esistere nel mondo attorno a lui, nelle agorà, nei campi, sulle sponde del vasto mare. Stava dunque già scivolando nell’oblio quando un’immagine gli si affacciò nella mente. Un volto e uno sguardo. Uno sguardo limpido, lo stesso che si era affacciato alla memoria poco prima. Lo sguardo della nonna.

Da bambino, lo ricordava con chiarezza, amava andare dalla nonna nelle calde giornate di sole, quando il mare brillava celeste e gareggiava a confondersi col cielo, non fosse stato che al largo si striava di inteso blu, per poi tornare di nuovo al celeste in prossimità delle rive della vicina Paros. La nonna usciva poco dalla sua casupola, che stava nella parte del villaggio riparata dal vento. Spesso la trovava coricata, talvolta invece intenta a cucinare qualche focaccia, che mangiava inzuppandola nel latte di capra perché ormai faceva fatica a ingerire cibi solidi. La sua pelle era raggrinzita e i capelli, contorti e annodati, erano una nuvola grigia, come quelle che talvolta portano la pioggia arrivando dal mare. Corporatura scarna, viso scavato, andatura incerta. Si avvicinava a lui stringendo un bastone con la mano rinsecchita e amava offrirgli quel poco che riusciva ancora cucinare, in particolare i dolcetti al miele, quello che i pastori le offrivano. Vi era però in lei una porta spalancata verso la giovinezza, verso il cielo, verso il Sole. La nonna aveva gli occhi azzurri, limpidi come il mare. Da giovane, gli aveva raccontato qualche vegliardo dell’isola, la nonna era bellissima. Suo nonno l’aveva portata con sé di ritorno da una delle sue peregrinazioni sul mare. Era stato via oltre due anni e si diceva si fosse perso nel Ponto e che non sarebbe più tornato. Invece aveva fatto ritorno, come Ulisse, e si era portato appresso quella ragazza che, così diceva lui, proveniva dalle terre oltre quel grande fiume che alcuni tra i Greci chiamavano Istro. Tutti erano sbalorditi dalla bellezza inusitata di quella fanciulla, che aveva i capelli del color delle spighe mature e gli occhi di color del mare. I capelli di Anassilao ricordavano moltissimo quelli della nonna e forse non era un caso che ella, tra i suoi numerosi nipoti, avesse un debole per lui.

Il ricordo della nonna fece scattare qualcosa dentro Anassilao. Si rivide là, in quella casupola, a guardare la nonna negli occhi. Quella donna anziana, sofferente, piegata dall’età. Ma c’era qualcosa, qualcosa che non sapeva definire, qualcosa che lo aveva fatto sempre stare bene pur non avendone mai compreso il motivo. La nonna se ne sarebbe andata di lì a pochi anni, poco prima che lui partisse per l’addestramento, ma fino agli ultimi giorni, in quegli occhi vi era qualcosa, qualcosa che sapeva leggere solo in parte. Ora, rivedendo quegli occhi come se fossero lì, finalmente comprese. Non vi era in quello sguardo né tristezza né rammarico. Vi erano la dignità, la serenità e in alcuni momenti la gioia di chi è stato piegato dagli anni ma non dalla vita, di chi ha perduto tanto di sé ma ha guadagnato tanto di sé donandosi agli altri. Capì che la vita può essere una strada faticosa ma trova sempre il modo di ritagliarsi degli scenari e delle prospettive che, se non sempre sono meravigliose almeno sono amabili.

In quel medesimo istante Anassilao abbandonò quel sogno meraviglioso e con quella consapevolezza nuova, tornò alla realtà. Decise allora che avrebbe regalato al suo avversario un incubo tanto orrendo quanto splendido era stato il ricordo che gli era stato regalato per sempre. Le stelle guida dei Gemelli baluginarono, si accesero e poi esplosero. Castore e Polluce squarciarono le tenebre e, incuranti delle fiamme, trassero fuori il cavaliere che era Anassilao.

Busiride non credeva ai propri occhi. L’avversario mosse un paio di passi, incerti, e poi si scaglio su di lui. "Demone dell’Oscurità!" urlò puntandogli contro un dito.

Seguì un breve silenzio, subito rotto dalla risata di Busiride: "Compi l’impresa sovraumana di liberarti del mio rogo sacrificale e già, ti confesso, comincio a preoccuparmi, e poi mi attacchi con un colpo ridicolo, sferrato con un solo dito? Fai pena!" Le risate gli morirono in gola.

Davanti a lui Anassilao si era spogliato dell’armatura e i suoi muscoli si erano gonfiati e la sua statura era aumentata a dismisura. Busiride pensò con orrore ai racconti riguardanti il terribile Apopi, che lo terrorizzavano quand’era bambino. A mani nude il gigantesco Anassilao lo aveva afferrato e gli aveva strappato le membra. Perso nell’orrore del proprio incubo Busiride stava lì, con le gambe tremanti, mentre Anassilao ne fissava lo sguardo vitreo. Gli passò una mano sul volto e a quello parve che quella stessa mano, quelle dita, fossero fiamme ardenti che lo sfiguravano. Gridò strabuzzando gli occhi. Poi rimase così, in preda a spasmi, di fronte al proprio nemico.

Anassilao gli rivolse per l’ultima volta la parola.

"Spettro di Ade, sappi non ho vinto tanto perché sono più forte di te, ma perché riguardo il significato della vita e il destino degli uomini tu mentivi e io lo sapevo." Lo toccò appena e quello cadde, morto. "Era destino che io trionfassi. Era scritto che tu cadessi."

Si allontanò, e solo allora avvertì il dolore per le bruciature sulle mani, le braccia e le gambe laddove l’armatura non lo proteggeva. Ma nonostante il fastidio e il dolore nel suo cuore vi era un’antica dolcezza e lui, che pochi al Santuario avevano mai visto piangere o anche solo intristirsi, sentì una lacrima bagnargli una guancia e restare lì, sospesa. "Grazie, nonna." mormorò asciugandosi il viso.

***

Ascalafo, in risposta ad Archita, aveva iniziato a raccontare. "Fui generato dal grande Acheronte e dalla Notte e, dacché esiste l’Ade, sono stato giardiniere del signore degli Inferi. Certo, in epoche remote avrei ambito pure a ricoprire l’incarico che è appannaggio di Caronte, ma in fondo il Fato mi ha concesso qualcosa che mi gratificava e di dilettava maggiormente che non dover traghettare ombre per l’eternità. Se dai credito ai miti certo saprai che l’Ade non è solamente un luogo di desolazione. Vi sono zone fertili e piante e fiori abbondano, soprattutto in quel luogo che è noto come campi Elisi. Là solevo svolgere il mio ufficio. Tutto cambiò con l’arrivo di Persefone. La madre di lei, Demetra, la rivoleva indietro e ciò fu quanto concesse Zeus. Ermes venne a reclamare la fanciulla ed Ade fu costretto ad accettare quella decisione, sebbene una profonda rabbia lo avesse pervaso. Non era però certo offuscata la sua mente. E dunque prontamente disse ad Ermes che avrebbe lasciato andare Persefone, a patto che ella non avesse mangiato nulla nel regno degli Inferi, così come vuole il decreto divino. La figlia di Demetra aveva rifiutato qualunque cosa, pure il pane sponsale che lo sposo le offriva. Non aveva toccato cibo nemmeno nei giorni seguenti, quindi il suo ritorno pareva certo. Fu allora che mi feci avanti e dissi che avevo veduta Persefone, preda della sete, mangiare sei chicchi di melograno. Ade guardò me, poi Ermes. Era trionfante perché ciò costringeva Demetra a rinunciare alla figlia. Pareva dunque che Ade potesse trattenere Persefone per l’eternità ma un nuovo consulto tra i Cronidi, sollecitato dall’insistente Demetra, stabilì che la fanciulla, che in fondo aveva mangiato solo parte del frutto, dimorasse per sei mesi in Ade e sei presso la madre. Il ciclo delle stagioni, come ben saprai, origina da quel fatto." Archita annuì e lasciò che l’altro seguitasse a raccontare. "Ade non si diede per vinto e volle che testimoniassi ancora davanti ad Ermes. Mi chiese se fossi certo che ella avesse mangiato solo alcuni chicchi e non invece la melagrana intera. Io ribadì quanto avevo visto. Andatosene Ermes Ade mi incalzò, chiedendomi perché non avevo voluto mentire. Nessuno avrebbe osato contraddirmi, non essendoci altri testimoni del fatto. Risposi che mentire non era mio costume, quantunque io sia figlio della Notte, e che ad ogni modo forse per Persefone era meglio così. Non me l’ero sentita di condannarla ad un eterno soggiorno in Ade con la mia delazione. Ade non mi perdonò mai e per questo caddi in disgrazia. In seguito, fuggiasco, fui trovato da Demetra che, per vendetta, mi trasformò in civetta." Rise, ed era una risata piena, sonora. "Non è buffo? Io sono stato l’animale che ora è tanto caro alla vostra dea!"

"E com’è che ora combatti nuovamente per Ade?" chiese Archita.

"Devo questa grazia proprio a colei che ho dannato e salvato al tempo stesso. Intercesse presso la madre e io riebbi le mie spoglie umane e una corazza che della civetta ha le fattezze." Tale infatti si presentava l’armatura, notò Archita. "Ora combatto per riguadagnare il mio posto tra le schiere di Ade."

"Per combattere fianco a fianco con carogne come quello?"

"Busiride?" Ascalafo ebbe un moto di disprezzo. "Mi ha concesso di combattere con lui solo perché nessuno acconsentiva ad accompagnarsi con sanguinario blasfemo suo pari. Nemmeno i tre Giudici lo apprezzano, anzi fanno di tutto per assegnarlo l’uno alla schiera dell’altro." Fece una pausa e poi disse: "Sembra che il tuo amico se la passi male…"

Archita vide un fuoco scarlatto divampare sempre più vigoroso e comprese in quel momento dove fosse finito Anassilao. Istintivamente si lanciò in quella direzione ma qualcosa lo trattenne. Gli arbusti parevano aver preso vita e rinserravano con forza le sue caviglie.

"Non così in fretta! Hai ascoltato la mia triste vicenda, ma ciò non vuol dire che io ti possa riservare un trattamento di favore." disse placido Ascalafo. Archita si mise sulla difensiva. Il nemico continuò: "Dal momento che hai già provato l’Elleboro Nero, ti concederò il privilegio di soccombere sotto i colpi di un’altra delle nobili piante che ero solito coltivare nei giardini dell’Ade. Simile a dardi ti colpirà la sua essenza." Il suo cosmo divenne viola intenso. "Aroma d’Aconito!"

"Muro di Cristallo!" replicò Archita.

"Inutile, questa mia tecnica non si limita ad usare le essenze ma agisce sotto forma di dardo che penetra qualsiasi difesa!"

Da dietro il muro Archita replicò con una smorfia: "Non esserne così sicuro!" Il Muro di Cristallo tremolava sotto i colpi del nemico e laddove i dardi colpivano aloni violacei si allargavano e si udivano fastidiosi sfrigolii. La difesa tuttavia non cedette.

Ascalafo sgranò gli occhi, sorpreso. "Non avrei mai detto che la tua difesa potesse essere così efficace, ma so come aggirare l’ostacolo."

"Hai la memoria corta!" Lo irrise Archita che, un po’ alla volta, stava recuperando il pieno controllo di sé.

"E tu, cavaliere, sottovaluti il fattore tempo. Sto saturando l’aria con l’Aconito e quando tu non riuscirai più a reggere la tua barriera sarai investito dal nembo mortifero e sarà la fine. Posso permettermi di attendere." Guardò alla sua destra e Archita seguì il suo sguardo. "Posto che i nostri cosmi siano pari, non sono io quello che ha un compagno di battaglia che sta ardendo in una pira!"

Quest’ultima affermazione per Archita fu come una pugnalata. Continuando a restare sulla difensiva non poteva far molto, né per se stesso né per Anassilao. La tecnica di attacco di Ascalafo era infida e costringeva a restare passivi e lui non aveva ma avuto a che fare con nulla di simile. Era certo che con la Rivoluzione Stellare avrebbe potuto spazzarlo via, ma nello sferrare il colpo si sarebbe esposto a quel profumo mortifero. Avesse agito con la massima rapidità possibile avrebbe potuto anche limitare il danno, ma ugualmente ne sarebbe uscito con i sensi intorpiditi, come era accaduto poco avanti. A quel punto che ne sarebbe stato di Anassilao e di Plistene? Doveva decidere in fretta e decise per l’azione, incurante del rischio che stava per correre.

Il Muro di Cristallo andò in pezzi e la voce di Archita risuonò potente: "Per il Sacro Ariete, Rivoluzione Stellare!" Urlò sollevando il braccio.

"Pazzo!" replicò Ascalafo ponendosi in posizione di difesa "Hai decretato la del nostro scontro!" Non riuscì ad aggiungere altro che la potenza del colpo di Archita lo fece arretrare, prima lentamente, poi sempre più rapidamente, nonostante gli forzi per opporsi. Tuttavia sentì ben presto l’attacco indebolirsi e intravide Archita vacillare e poi arretrare, per sottrarsi agli effetti degli strali di Aconito. "E’ inutile, ormai ne hai respirato l’essenza, non ci sarà scampo per te."

In quella, poco lontano, un rumore sordo squassò l’aria e la vampa di fiamme che avvolgeva Anassilao di dissolse. Nel giro di pochi istanti il devoto di Atena passò al contrattacco, sotto lo sguardo esterrefatto di Busiride, che restò per alcuni istanti immobile davanti al suo avversario. Poco dopo giaceva al suolo senza vita.

"Pazzesco!" commentò Ascalafo. "I miei complimenti, cavaliere. Grande prova di resistenza la tua. Peccato che ora sarò io a doverti finire."

Anassilao lo fissò, con disprezzo, quasi con noncuranza. La spossatezza per lo sforzo sostenuto e il dolore delle bruciature ebbe il sopravvento e si trovò in ginocchio. Un capogiro ancora e perse definitivamente i sensi.

"Ora sarà anche troppo facile." mormorò Ascalafo avvicinandosi.

"Ti dimentichi di me!" ruggì Archita, che se ne stava ritto con gli occhi chiusi e con un pugno serrato, in gesto di sfida.

"Ancora resisti, Archita?" disse stupito una volta di più. "Notevole, lo ammetto, ma non sprecare parole. L’Aconito ti ha già privato della vista e tra un po’ il senso di vertigine non ti permetterà nemmeno di reggerti in piedi. Senza vedere il tuo avversario non puoi combattere alla pari e quindi lo scontro è segnato. Debbo tuttavia ringraziare te e i tuoi compagni poiché, grazie alla triplice vittoria su di voi, potrò riscattarmi agli occhi del mio signore ed essere reintegrato a pieno titolo nelle sue schiere. Non sarà una grande vittoria per il modo in cui l’ho ottenuta, ma è una vittoria di peso, dal momento che credo voi siate degli avversari di valore, la cui mancanza si farà certo sentire nelle file di Atena."

"Non illuderti che sia finita." replicò calmo Archita.

"Ma è finita, cosa altro puoi fare, se non cadere? Addio! Aroma d’Aconito!"

Ancora una volta fu il Muro di Cristallo a frapporsi tra i due, ma la difesa era indebolita e vibrava vistosamente, incrinandosi in più punti. "Quanto resisterai ancora?"

Archita doveva escogitare qualcosa, nonostante il crescente senso di vertigine, nonostante i suoi occhi non potessero più distinguere ciò che stava davanti a lui. Il buio aveva molte sfumature e certo quella che era stata riservata a lui era tra le meno comuni. Tuttavia non ci mise molto nel ricordare che vi è una luce che in un devoto di Atena non si spegne mai, una luce il cui fulgore sovrasta qualsiasi forma di oscurità perché inesauribile è la fonte da cui trae origine. Possibile che fosse davvero quello il segreto per vincere quella Guerra Sacra? Che ciò di cui avevano bisogno fosse in realtà sempre stato con loro, dentro di loro? Per quanto potesse sembrare assurdo non poteva che essere così. Le nozioni più elementari sono la base della forza di un cavaliere, gli avrebbe detto con tono di rimprovero il maestro. Come poteva non averci pensato prima? Le stelle guida delle costellazioni non potevano essere in alcun modo sopraffatte. Si trattava solo di attingerne la forza ed era quello che Archita aveva intenzione di fare. Doveva salvare Anassilao e Plistene. In fondo non era nuovo a salvataggi di quel genere. Era già capitato con Astylos e pure quella volta aveva dovuto dare il meglio di sé per togliere d’impiccio il compagno ferito. Il pensiero di quella precedente Guerra Sacra gli richiamò alla memoria il volto di Callistrato, il cavaliere di Virgo che tanti consigli aveva dispensato agli apprendisti cavalieri quando erano giunti al Santuario, in un tempo che ora pareva appartenere ad un'altra vita. Aveva sempre considerato Callistrato un punto di riferimento, così come ora lo era Kyriakos, che al defunto cavaliere di Virgo era stato legato da una solida amicizia. Il pensiero di quello che era stato per lui come un secondo maestro gli diede lo spunto decisivo per trovare il modo di aggirare l’ostacolo che il suo avversario gli aveva posto innanzi.

"Ascalafo! E’ tutta qui la tua forza, progenie del Tartaro?" disse con voce sicura.

"Risparmia il fiato. Il veleno che spando presto potrebbe toglierti la facoltà della parola, così come ha già fatto con la vista. O forse ti toglierà la percezione del mondo esterno. Avverti ancora la nuda terra sotto i tuoi piedi?"

Archita ebbe un brivido. In effetti si sentiva intorpidito e provando a tastare la propria armatura non ne percepiva la sensazione di freddo e la superficie liscia, che soleva lucidare dopo ogni battaglia.

"Il tuo Muro di Cristallo è notevole, ma non può difenderti oltre. Stai per conoscere il potere che mi deriva dal sottosuolo, dalla terra fertile dove germogliano i semi, e dal quale i docili steli e i teneri virgulti traggono vigore." Il suo cosmo si accese. "Fiorisci, Nobile Tasso!"

Come se il tempo avesse accelerato il suo corso, come se le leggi di Crono fossero state rotte, nel giro di pochi istanti ai piedi di Archita e tutt’intorno a lui germogliarono, crebbero e si irrobustirono piante di tasso, le cui foglie si fecero affusolate e scintillanti. Poi, a un cenno di Ascalafo, esse saettarono come dardi verso Archita, che ne avvertì il tocco mortifero.

"Come ti avevo detto, cavaliere, la tua barriera è una difesa eccellente, pressoché invalicabile, ma essa, come avevo capito, non può difenderti da attacchi che provengano dal sottosuolo. A ragione veduta mi potrò gloriare della tua caduta dal momento che, ne sono convinto, pochi tra gli Spettri di Ade, forse solo i Tre, avrebbero potuto aver ragione di te e delle tue difese."

Archita non percepiva più il peso dell’armatura su di sé, capì di essere in ginocchio solo perché le dita riconobbero per un istante pietrisco e sabbia, poi più nulla.

"Mi potrò gloriare assai meno della fine dei tuoi compagni, che dovrò eliminare mentre sono svenuti, ma questa è la guerra."

Il cavaliere avvertiva ora pure un sapore aspro e pungente in bocca, così forte da toglierli il fiato. Il Muro di Cristallo tintinnò e cedette, essendo venuto meno il cosmo che lo sosteneva.

Ascalafo si avvicinò. "Ti concedo l’onore di finirti con le mie mani. Chissà che non ti riveda, vaga ombra nelle lande dell’Ade. A te verrò una volta che, grazie alla tua caduta, avrò recuperato il posto che mi spetta. Addio, Archita di Thera!" Sollevò il braccio per colpire quell’uomo che giaceva a terra, tutto raccolto in se stesso.

Il lampo e l’esplosione di luce che seguirono furono talmente repentini che quasi non ebbe il tempo di realizzare quanto stava accadendo.

"Onda di Luce Stellare!" Archita non aveva nemmeno avuto bisogno di muoversi. Il colpo era scaturito direttamente dall’armatura, almeno così sarebbe parso a chi avesse potuto osservare la scena. Misteriosa l’origine di quel potere, manifesti e terribili gli effetti. La corazza di Ascalafo si disintegrò quasi completamente e schizzi di sangue sprizzarono in tutte le direzioni. Poi fu silenzio.

Solo dopo un tempo che parve eterno qualcosa si mosse. Anassilao si stava rialzando. Nel buio distinse un corpo martoriato a terra, coperto di sangue e scosso da un tremito. Udì una voce rotta dire a fatica: "Che meravigliosa vittoria… sarebbe stata… quella ottenuta… su chi possiede… tale potenza!" Un braccio si sollevò e una mano liberò ciò che rimaneva di un cosmo mortifero. Anassilao agì di istinto. Si alzò, incespicò, cadde, si rialzò e fu su Archita. Lo sollevò di peso, lo trascinò per alcuni metri e si lasciò rotolare sul fianco della montagna. L’ultimo attacco di Ascalafo morente non era tuttavia rivolto al cavaliere dell’Ariete, ma questo purtroppo Anassilao lo capì solo un attimo prima di abbandonare il pianoro.

***

Forse gli dei avevano placato la loro ira, pensava il ragazzo che dal mare risaliva verso la città alta. Quell’insidiosa mistura di salsedine e fango che ricopriva buona parte delle lastre della via principale rendevano ogni passo un insidia. Aveva incrociato forse una decina di persone, per lo più marinai e pescatori, che sfidando le intemperie si erano recati alle imbarcazioni quando la pioggia era calata d’intensità e il vento che si incuneava nel golfo aveva concesso tregua. Fradici e impacciati da quanto potevano portare in salvo dalle imbarcazioni flagellate dalle onde e dal vento, si muovevano incerti e sovente cadevano a terra, senza contenere le imprecazioni. Pure lui era caduto e, che beffa, ciò era avvenuto quando ormai la pioggia non cadeva più. Perché fosse sceso fin là, non lo sapeva. O meglio, avrebbe voluto non saperlo. Avrebbe voluto non vedere il mare in quello stato, avrebbe voluto non vedere le imbarcazioni più piccole e più leggere sbattute più volte sulla banchina, capovolgersi e talvolta andare in pezzi. Che poteva accadere a chi si trovava in mare in quel momento? Al solo pensiero un brivido gli corse lungo la schiena.

"Vai a casa, ragazzo." mormorò una voce.

Vide un pescatore vestito di una logora tunica azzurra, i capelli grigi gocciolanti, che portava sottobraccio quel poco che si era salvato dalla sua barca da pesca, semiaffondata. La scorza dell’uomo di mare, che per una vita aveva sopportato e sfidato la grande distesa che Poseidon governa, si era rotta al cospetto di quella catastrofe mai vista e infatti egli giurò di aver visto una lacrima solcare il viso di quell’uomo che aveva perso tutto o quasi. Che il dio dei mari aveva altre volte scatenato la sua ira ma mai, prima di allora, si era portato via pure il Sole, così da rendere le giornate un unico, infinito crepuscolo.

Si avviò verso casa. La madre e la sorella certo erano in pensiero. Sferzato dal vento avvertiva i brividi sotto le vesti bagnate. Scivolò un paio di volte e si trovò a terra. Vedere dove mettere i piedi era un’impresa e non vi erano luci che lo aiutassero. Porte e finestre erano come occhiaie vuote. Alcune erano state sbarrate alla meglio. Perché stupirsene? Chi poteva si trincerava nel cuore della propria dimora, lontano dalla furia degli elementi.

Fu stupito nel vedere una luce filtrare da sotto una porta. Riconobbe subito quella bottega, davanti la quale sostava ammirato ogni volta che i lavori dei campi gli davano tregua. D’improvviso la porta si aprì e il volto pacifico e mite di un vecchio gli sorrise.

"Mi pareva di aver udito dei passi. Vieni avanti!"

Cratilo, con la prospettiva di sedersi vicino ad un focolare e di vedere da dentro la bottega dell’artigiano, non se lo fece ripetere due volte.

"Che ci fai in giro con questo tempo orribile?"

"Cercavo un amico…" rispose il ragazzo incerto.

Il vecchio colse la sua tristezza e annuì grave. Poi si sedette, prese in mano uno stilo di legno e riprese il lavoro che aveva interrotto.

"Siediti, coraggio." gli disse mentre si metteva all’opera.

Cratilo osservò il vecchio incidere la superficie dell’argilla e tracciare un profilo maschile. Le figure maschili, lo sapevano tutti a Corinto, ma probabilmente anche in polis lontane, erano la sua specialità. Ammirò poi le opere già terminate, che tanto lo affascinavano quando erano esposte fuori dalla bottega, nelle giornate di sole; tutte erano marchiate con la sigma, l’iniziale del nome del vecchio maestro.

"Ti piacerebbe apprendere quest’arte?" Cratilo sussultò, preso alla sprovvista. Gliel’avesse chiesto in un’altra occasione avrebbe fatto salti di gioia, ma in quel momento era stupito della proposta, non potendo concepire che agli occhi del vecchio tutto quando accadeva all’esterno sembrasse lontano e sembrasse non riguardarlo.

"Mi piacerebbe però…" azzardò.

Il vecchio sollevo lo sguardo dal suo lavoro e lo squadrò. "Immagino che il lavoro dei campi di lasci poco tempo."

"Sì. E inoltre devo badare a mia padre e a mia sorella."

"Sei un uomo responsabile." Cratilo sorrise a sentirsi definire uomo.

"Posso chiederti una cosa?" Il vecchio lo fissò in attesa della domanda, che però tardava ad arrivare. Prese l’anfora e la ruotò leggermente, per proseguire la sua opera. Finalmente la domanda arrivò. "Ma tu non sei preoccupato per quello che accade fuori? Cioè, voglio dire, tu continui a lavorare come se non fosse accaduto nulla…"

"E cosa sarebbe accaduto di così grave?" replicò il vecchio guardandolo con occhi indagatori.

"Ma come… la tempesta, il sole… sembra che gli dei…"

"Gli dei sanno quel che fanno." disse grave il vecchio. "O almeno speriamo che sia così." aggiunse subito dopo ridendo, ma a quelle parole Cratilo fu turbato. Il vecchio se ne accorse. "Il Fato domina tanto gli uomini quanto gli dei, non te lo hanno insegnato ragazzo? Perché dovremmo darci pena per quello che deve accadere se non è nelle nostre possibilità evitare che avvenga? Dovrei rinunciare a lavorare e abbandonarmi alla disperazione? Credo piuttosto che sia più soddisfacente impegnare il mio tempo in quello che amo fare." Fece una pausa. "Ma forse queste sono solo le farneticazioni di un vecchio…" Sollevò lo sguardo di nuovo. "Cratilo, giusto?"

"Sì, quello è il mio nome." E restò in silenzio a meditare sulle parole appena udite. Poi i suoi occhi furono attratti dal soggetto che l’anziano stava incidendo sulla superficie del manufatto.

"Qual è il soggetto?" chiese.

"Non lo riconosci? E dire che sosti spesso davanti alla mia bottega. Sono certo che a tuo modo sei un esperto di figure rosse e figure nere."

"Dovrebbe essere…" azzardò Cratilo in imbarazzo. "una divinità. Forse Poseidon, colui che in questi giorni ci sferza con furore." disse infine cercando di darsi un tono.

Il vecchio sorrise, allungò una mano e gli scompigliò i capelli. "Non sei lontano dalla verità. Questa, a dire il vero, è una divinità che non si raffigura tanto spesso, forse perché tanti sono convinti che porti male. Ma io ormai mi avvio a grandi passi verso il regno delle ombre, dunque perché, alla mia età, dovrei temere di raffigurare Ade, signore degli Inferi?"

Cratilo rabbrividì. Chi mai vorrebbe trovarsi di fronte quella divinità, anche solo raffigurata?

"Hai paura?"

"No è che… non lo so… mi fa una strana impressione. Sarà che quello che succede in questi giorni mi fa fare certi pensieri."

"Tu allora cerca allora di osservarne il lato artistico dell’immagine che sto tracciando, se ti riesce. Per dire, chi dovrei disegnare adesso, seduto al suo fianco?"

"Immagino dipenda dal mito, dal soggetto che vuoi raffigurare."

"Bene Cratilo! Ecco, guarda qui, a fianco al terribile signore degli Inferi. Riconosci questa figura?"

"Non saprei dire." disse Cratilo.

"Se ti dico Minotauro?" suggerì il vecchio.

"Teseo!" disse trionfante il ragazzo. "Allora forse ho capito: Teseo e Piritoo che si recano negli Inferi per rapire Persefone. E’ quello il soggetto?"

"I miei complimenti, Cratilo." E riprendendo ad incidere disse: "Ecco, cominciamo dunque a dar forma alla bella Persefone. Poi intendo aggiungere altre figure, ad esempio Hypnos e Thanatos, o magari Ker…"

"Povero Teseo, che brutta fine lo attende!"

"Vero. Tuttavia prima o poi arriverà il prode Eracle a trarre lui e Piritoo d’impiccio, non è così?" E continuò a narrare e a disegnare, mentre Cratilo lo guardava estasiato, dimentico di quanto era accaduto in quelle giornate.