XXV

Pisandro era teso come la corda di un arco, pronto a scattare. Tuttavia il peso della battaglia con Kanagos e le ferite che ne erano derivate ,lo avevano assai indebolito e successivamente la musica di Apofis, che pure gli era arrivata confusa, distorta, lo aveva ancor più fiaccato. Sapeva che avrebbe avuto bisogno del pieno vigore della sua energia vitale, ma era stata duramente fiaccata nei precedenti scontri. Se solo avesse potuto disporre di più tempo per recuperare almeno parte delle forze su cui era solito fa conto! Ora l’unica cosa che poteva fare era resistere fino all’arrivo degli altri cavalieri. Se Apofis ed Eaco, che si era qualificato come un pari di Minosse, erano giunti fin lì, voleva dire che il grosso dell’esercito non avrebbe tardato e giunto che fosse per il Santuario ci sarebbe stato poco da fare.

"Apofis!" disse Eaco "Vai avanti e issa il segnale per le nostre truppe. A questo morto che cammina penserò io."

"Frena la lingua." esclamò Pisandro. "Per il Sacro Leo!"

Eaco neutralizzò il colpo con facilità estrema. "Ben poca cosa, invero! Tutta qui la tua forza? Mi stupisco che cavalieri tuoi pari abbiano potuto impensierire Minosse!"

"Bada, Eaco!"

"Badare a te? E perché mai? Sei già avviato verso il Tartaro, non te ne rendi conto?"

Pisandro replicò con magnanimità, com’era sua consuetudine: "Quand’anche fosse così potrebbe anche accadere che tu mi faccia da guida."

"Ridicolo. Non sai quel che dici." lo commiserò Eaco.

Pisandrò caricò di energia il suo pugno. Raccolse tutte le forze di cui disponeva, anche se gli pareva di non percepire più con chiarezza i suoi e le voci attorno a lui, mentre anche la vista a tratti si annebbiava. Ah Asclepio, se potessi aiutarmi, concedendomi una rapida guarigione e un pronto recupero, pensava mentre gli tornavano alla mente i giorni trascorsi ad Epidauro assieme al fratello. "Zanne del Leone!" e la sua scintillate e calda energia si sprigionò.

"Lampo di Garuda!" rispose Eaco.

I due si scontrarono a mezz’aria, mentre lampi e saette luminosi li avvolgevano, sfrigolando sulle rispettive armature. Poi il potere di Eaco prese il sopravvento e Pisandro fu scaraventato a terra, con violenza.

Si alzò, barcollando, e cercò di mettere a fuoco il nemico davanti a lui, ma seppe che non avrebbe avuto la forza di portare un altro attacco. In quegli attimi, più che la paura della sconfitta o della morte, fu la delusione il sentimento che si fece breccia nel suo animo, la delusione e il dolore nel constatare la propria impotenza davanti al nemico.

"Come vedi è tutto inutile, Pisandro. Il tuo colpo, come vedi non ha…" Ma in quella Eaco avvertì una fitta e dovette portare una mano al torace, sopraffatto dal dolore. "Assurdo, come hai fatto in quelle condizioni?"

"Eaco, non a caso Atena sceglie i suoi cavalieri!" disse orgoglioso Pisandro, seppur con un filo di voce.

"Poco male, è stato il tuo ultimo affondo. Ma questo tu già lo sapevi, vero?" disse fissando non senza ammirazione il giovane davanti a lui, che attendeva il suo affondo, pronto alla difesa. Affondo che non volle ritardare oltre: "Lampo di Garuda!"

Il cavaliere del Leone fu investito ma incrociando le braccia davanti a sé trovò la forza di resistere ancora, ancora e ancora, mentre gli pareva di riuscire a trarre energia da ogni angolo del suo corpo, dal profondo dell’animo, dalla pura forza di volontà, dall’attaccamento alla vita, a suo fratello, ad Atena. L’attacco cessò ed egli cadde in ginocchio, sfinito e ansimante, le braccia doloranti al punto da essere diventate insensibili.

"Sono ammirato, una resistenza degna di una grande combattente! Meriti di essere finito con una tecnica degna del tuo valore, Pisandro del Leone! Ed è quello che intendo fare perché un Giudice degli Inferi sa rendere il giusto omaggio a chi si batte con fierezza e valore."

Si avvicinò a Pisandro che ora non aveva nemmeno più la forza per rimettersi in piedi. Gli mise una manto tra i capelli e gli sollevò la testa in modo da poterlo guardare bene in viso: "La tua parabola terrena termina ora, con una parabola celeste. Addio, Pisandro, non mancherò di renderti omaggio quando, vinta questa Sacra Guerra, tornerò a dimorare in Ade dove il tuo spirito errerà in eterno."

Pisandro non ebbe tempo di riflettere sull’arcano significato di quelle parole che Eaco, con la sola forza del braccio, lo sollevò strattonandolo per i capelli, mentre espandeva il suo cosmo vitale e poi, con un colpo deciso, proiettandolo in altro, gridò: "Ali di Garuda!"

Pisandro fu lanciato in alto e l’ultima cosa che vide, o che gli parve di vedere, fu in Tempio della Dea, sotto di lui. Rivide in un baleno suo fratello, i suoi genitori, chi non c’era più, i luoghi che lo avevano visto crescere e infine il volto della dea, sorridente come in quel giorno di primavera in cui per la prima volta l’avevano veduta. Poi solo vento, freddo e la velocità crescente, fino all’impatto con la dura terra che infine lo accolse.

"Bene, gli Ateniesi se ne sono andati tutti e l’Acropoli è deserta." meditava Lisandro. "Appena in tempo, percepisco chiaramente un’oscura presenza che avanza da occidente."

In quella avvertì qualcosa elevarsi, lontano, e riconobbe il cosmo del fratello. Caldo e fiero, ma malinconico. Guardò istintivamente nella direzione del Santuario, quasi potesse vedere il gemello là, sulle soglie del recinto sacro, a combattere. Ma l’illusione cadde e il cosmo di Pisandro si spense. Lisandro avvertì il battito del suo cuore accelerare, il respiro farsi affannoso, le dita contrarsi, le braccia e le gambe irrigidirsi, e qualcosa esploderli dentro, come a volerlo dilaniare. Un ultimo guizzo di serenità lo raggiunse, come un saluto, poi tutto ebbe fine. La tensione lo vinse e cadde in ginocchio, portandosi una mano sul viso, mentre le lacrime cadevano copiose.

"Pisandro no, maledizione!" gemette Callimaco lanciandosi all’impazzata verso il punto dove aveva avvertito per l’ultima volta accendersi il cosmo del compagno d’armi. Attraversò l’arena dei tornei e si ritrovò nell’ambio spazio del recinto sacro. Il grande cancello era stato nuovamente abbattuto e un’ombra si stagliava nella notte.

"Dove credi di andare, cavaliere?"

Callimaco si arrestò di colpo. "Dov’è Pisandro, che ne hai fatto?"

In tutta risposta giunse una risata agghiacciante. "Il grande Eaco, a quanto mi è dato intuire, lo ha spedito tra le stelle. Ma non temere, ora dev’essere già precipitato nel Tartaro e le sue sofferenze sono quindi terminate."

"Taci, maledetto!" urlò mentre la tragica realtà cominciava a farsi strada nella sua mente.

"Che ti importa? Tra poco lo raggiungerai! Il Santuario sarà presto nelle nostre mani."

Callimaco, dando col pensiero un ultimo saluto all’amico caduto, e conscio della gravità del momento, sollevò un braccio e mostrando il taglio della mano disse con determinazione: "Non finché Excalibur lo difende! Sarai tu a precipitare nel Tartaro."

"Signora, porto un messaggio per voi."

Che avesse a che fare con quanto stava accadendo nell’Attica, meditò la figura esile mentre la pioggia continuava a cadere di sbieco sulle tegole, sul frontone e sulle colonne di tufo. L’uomo, che si copriva alla meglio dalla pioggia con un vecchio mantello, era rimasto immobile in attesa sui gradini inferiori. "Venite dentro." disse perentoria.

Poco dopo, nell’adyton del tempio, in piedi presso il tripode sacro al dio, ella ascoltava quanto le veniva riferito.

"E’ arrivata poco prima dell’alba, da sola, e già questo è strano. Ha chiesto, come prima cosa, di poter visitare il vecchio tempio…"

"Il vecchio tempio..." Meditò un attimo, immersa in arcani pensieri. "E avete acconsentito?"

"Lo ha chiesto in modo tale che era impossibile rispondere di no, anche volendo." disse l’uomo, quasi a volersi giustificare.

"La sua venuta pare coincidere con questo innaturale scatenarsi degli agenti atmosferici, quasi che gli Olimpici siano adirati con il mondo intero. Credo sia il caso che io le parli al più presto."

"Era molto stanca, non credo salirà volentieri quassù."

"In questo caso, sarò io a scendere. E intendo farlo subito."

"Con questo tempo, signora?"

"Certo. Ci sono cose che si apprendono per bocca del dio, altre che sgorgano come l’acqua da Castalia, che gli Olimpici amano manifestarsi in vari modi e con aspetto di volta in volta diverso e nuovo. Ma quando accade, pronte devono essere la nostra mente, attenti i nostri occhi e le nostre orecchie." L’emissario la guardò, senza comprendere a cosa alludesse.

"Apofis hai detto?" disse Callimaco turbato.

"Hai inteso benissimo."

"Allora tu sei quel maledetto che è costato la vita del prode Pelopida!"

Apofis rise divertito: "Sì, sono quel prode e ho preso la vita dello sciocco Pelopida. E poco fa, non fosse stato per il mio conterraneo Kanagos, che lo ha paradossalmente favorito ferendolo, avrei preso pure la vita del suo dannato allievo Pisandro, che si fece beffe di me alle Meteore. Quasi lo condussi a morte, in entrambi i nostri incontri, ma ora è caduto, come merita, per mano di Eaco. Il Fato pone ora te sul mio cammino. Peccato. Avrei voluto piuttosto ritrovare Kyriakos e chiudere i conti pure con lui, in modo da potermi gloriare, a guerra vinta, di aver causato la caduta di ben tre dei Cavalieri d’Oro di Atena. Mi farò bastare te."

Callimaco non poteva tollerare oltre la tracotanza del suo nemico. Riuscì tuttavia a trattenere la rabbia che lo aveva pervaso al ricordo di Pelopida e la rabbiosa tristezza per la caduta di Pisandro, che fino a poco prima era stato al suo fianco.

"Tre Cavalieri d’Oro di Atena…"

"Sì, tre! Tu sarai il terzo! Dimmi il tuo nome, che poi possa riferirlo ai miei comandanti."

Callimaco soppesò le parole, poi gelò l'avversario: "Io credo invero che tu non abbia sconfitto nessun Cavaliere d’Oro! E tantomeno sconfiggerai Callimaco."

"Che cadano per mia mano o semplicemente per causa mia, poca differenza fa. Apprenderai presto, Callimaco, che per sconfiggere i miei avversari non ho bisogno di sporcarmi le mani!" replicò stizzito.

"Taci, miserabile!" Callimaco scattò in avanti per colpire Apofis che presto si ritrasse. Affondò un paio di colpi, ma l’avversario li evitava con facilità, muovendosi rapido. "Dovrebbe essere stanco per i combattimenti sostenuti e per il lungo tragitto dalle terre del nord fino a qui, invece sembra essere appena sceso in battaglia. Come può essere tanto vigoroso?" pensava Callimaco che della velocità di esecuzione aveva fatto una delle sue armi vincenti.

"Risparmia le energie, stolto!" lo irrise Apofis.

La distrazione gli fu quasi fatale perché in quella il devoto di Atena lo raggiunse con un fendente al braccio, al di sotto del copri spalla, causandoli una ferita, anche se solo superficiale.

"Sono stanco di giocare, è tempo di far sul serio!"

Callimaco comprese che il loro scontro stava per entrare nel vivo e qualcosa gli faceva pensare che bisognasse battere in nemico in velocità, che era necessario colpire per primo e a fondo. Non ebbe tuttavia tempo di realizzare questi propositi che un suono si diffuse nell’aria, facendolo trasalire, poi un arpeggio leggero lo inchiodò dov’era. In quella si avvide che il suo avversario aveva messo mano ad uno strumento a corda, che pareva essere una lira di forma alquanto bizzarra.

"Cosa significa questo?" esclamò Callimaco cercando invano di muoversi.

Apofis rise: "Che giungerai presto alla fine. La mia melodia non lascia scampo, la musica penetra inesorabile la tua mente, fiacca la tua volontà. Inoltre blocca muscoli e membra! Non ti sottrarrai alla mia presa e non commetterò l’errore già compiuto contro Pisandro e i suoi tristi compagni. Il tuo corpo è immobilizzato: ti infliggerò subito il colpo di grazia! Muori!" Seguì un accordo più violento degli altri, che costrinse Callimaco in ginocchio, le braccia rigide, inerti, le mani contratte. L’oscura malia sembrava scoppiargli nella testa. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie, ma riusciva a malapena a contrarre qualche muscolo delle braccia, senza che esse rispondessero alla sua volontà, e lo stesso era per le sue mani. Era in trappola e scrutava con preoccupazione l’espressione soddisfatta e il sorriso sarcastico del suo nemico, conscio che doveva avere in mente qualcos’altro, qualcosa di terribile. Lo leggeva nei suoi occhi, dai quali traspariva odio e disprezzo.

"Prova a colpirmi, Callimaco!" urlò sarcastico "Non sei immune alla mia musica come quello sciocco di Pisandro, cui troppe cose sono andate bene! No, sei alla mia mercé, l’armonia fatale che senti ti raggiungerebbe pure se riuscissi a tapparti le orecchie, quindi non darti pena nel provarci. Tre Cavalieri d’Oro ho tenuto in scacco prima che mi aggirassero con l’inganno! Cosa pensi di poter fare da solo?"

"Mi basterà un colpo, uno solo per vincerti!" gridò Callimaco, che raccogliendo tutte le sue energie stava tentando di sottrarsi a quella presa mortale, dolce ed effimera al tempo stesso.

"Non potrai mai lanciarlo. Ma voglio evitare di correre rischi. Che sia fatto strazio delle tue carni. Giudizio di Anubi!"

La musica divenne più cupa e gli accordi gravi. Callimacò avvertì forti fitte di dolore, soprattutto al petto. Sentì il cuore sussultare in modo innaturale. Che stesse per cedere? Che fosse la fine?

"Il tuo cuore si poserà ora sulla bilancia di Maat, per essere sottoposto al rito della pesatura. Sarai dannato o graziato? Poco importa dell’esito. Non sei un’ombra nel regno dei morti, quindi in ogni caso morirai dissanguato!" sentenziò Apofis con tono euforico.

Callimaco riuscì con uno sforzo estremo a portarsi una mano al petto, una mano tremante, insicura, irrigidita. Gli spasmi lo stavano tormentando sempre più e pareva che il cuore dovesse esplodergli nel petto da un momento all’altro. La vista gli si annebbiò.

"Tre contro uno? Ma maestro, è naturale che abbiano vinto!"

Il maestro sorrise bonariamente al ragazzo. "Non sempre essere superiori di numero garantisce la vittoria. Sono le abilità individuali, la strategia, la tecnica, l’accortezza e naturalmente il coraggio in battaglia che di solito fanno la differenza. Talvolta può capitare di imbattersi in avversari che eccellano in tutto questo, nel qual caso uno solo potrà tener testa a molti."

"Ma la forza interiore, il cosmo? Possibile che un guerriero solo ne possieda uno di ampiezza tale da contrastarne tre?"

"In questo caso era principalmente la tecnica d’attacco a risultare vincente. Solo bloccando l’avversario prima che potesse agire avrebbe potuto vanificare ogni suo attacco. E nell’episodio che ti stavo narrando i tre devoti di Atena erano messi in difficoltà più dalla tipologia d’attacco che dall’espansione cosmica del nemico la quale, come narrano, era tuttavia molto potente."

Il ragazzo restò in silenzio un momento. "Ed è per questo motivo allora che Callicrate, Pelope e Aristarco dovettero usare…"

Il maestro, con uno sguardo severo, gli aveva imposto il silenzio ed egli si era prontamente arrestato. "La dea sì pentì presto di aver loro accordato il permesso di usare una tale tecnica." disse il maestro con voce solenne. "L’onore dei suoi guerrieri ne usciva compromesso. Ella, che aveva fondato il suo ordine sulla lealtà, si era vista costretta a concedere l’uso di una tecnica d’attacco che era sì risultata vincente, ma che aveva violato i principi dell’onore in battaglia."

Timidamente l’allievo azzardò: "Ma non era forse più importante sconfiggere Siren, che già tanti dolori aveva inflitto ai combattenti della dea?"

"Sì, lo era." disse il maestro sedendosi accanto al ragazzo "Tuttavia pensi che potresti vantarti di una vittoria ottenuta in quel modo? Rifletti: sarebbe come se uno dei Cavalieri d’Oro ti sfidasse a duello, qui nell’arena, indossando la sua armatura e tu, aspirante cavaliere non ancora addestrato, cercassi di opporti. Potrebbe costui vantarsi di averti sconfitto?"

"Certo che no, maestro!" rispose con slancio.

"Dunque converrai che la decisione di Atena fu saggia e giusta. In quella battaglia Callicrate, Pelope e Aristarco dovevano sconfiggere Siren al più presto, certo, e vittoria ebbero e vendicati furono i loro compagni caduti. Tuttavia non si trattò di una vittoria completa. Si può vincere sul campo ma perdere nello spirito, perdere nel cuore. Capisci cosa intendo dire?"

Guardò l’allievo che annuiva e seppe che aveva compreso. Era un giovane sveglio e dotato ed era sommamente soddisfatto che fosse stato assegnato a lui per l’addestramento.

"Riprova!"

Il braccio e la mano gli dolevano. Quanti colpi avrebbe ancora dovuto portare per riuscire a fare quello che gli era stato chiesto?

"Sono stanco, non credo di farcela…" rispose a bassa voce.

"Non credere che in battaglia si possa sempre essere freschi e riposati!" fu la severa risposta.

Era vero. Ma allora perché ostinarsi a puntare sulla precisione invece di usare un solo colpo, netto e potente, tale da mettere fuori causa l’avversario? Non capiva. Per anni era stato addestrato a controllare il potere del cosmo, a svilupparlo, ad amplificarlo e ad assumerne il controllo. Poi si era dedicato a potenziarlo, ad aumentarne la resistenza e la portata. Mesi e mesi di allenamenti diversi, di colpi di durata, di potenza, di fendenti lanciati in corsa, da seduto, da varie angolazioni. Perché ora il maestro si era intestardito a fargli provare dei colpi che parevano ridicoli rispetto a quelli che ormai aveva imparato a padroneggiare con sicurezza? Perché? Una ragione doveva esserci, ma lui non riusciva ancora a contemplarla.

"Coraggio." gli stava dicendo. "Riprova, Callimaco!"

Il braccio e le dita erano rigidi, pesanti. Guardò il maestro, che lo osservava con espressione grave, in attesa di un risultato. Un risultato che, Policrate lo sapeva, sarebbe arrivato.

Callimaco cercò dentro sé la forza e i suoi occhi puntarono il minuscolo bersaglio.

"Cuore di Callimaco! Poniti sulla bilancia!"

Le sue dita sapienti calarono inesorabili sulle corde dello strumento, per suonare l’accordo fatale. Con suo disappunto, che divenne presto sgomento, l’armonia che ne uscì fu sgradevole e dissonante.

"No! Che succede?" disse incredulo. La risposta stava in un filamento che poco prima era teso ed ora penzolava inerte dallo strumento. "Com’è potuto accadere!"

Callimaco, ansimante per lo sforzo, si rimise in piedi approfittando del momento di tregua. "Neanche ti sei accorto che ho colpito, vero Apofis?"

"Menti! Eri immobilizzato, non potevi lanciare nessun attacco!"

"Non di quelli che lancio abitualmente, certo." disse Callimaco, ancora provato dallo sforzo sostenuto. "Non ho potuto far uso del consueto cosmo di Exclaubur perché, non potendo muovere le braccia, non potevo sviluppare fendenti. Tuttavia mi è bastato un dito per sconfiggerti."

Rabbiosamente Apofis scattò in avanti: "Ti prendi gioco di me!" E nel contempo suonò lo strumento, che ora era però un’arma spuntata e infatti Callimaco, seppur a fatica, riuscì a evitare l’avversario e a replicare con un fendente vero, seppur non troppo violento. Il collo di Apofis si rigò di sangue.

"La prossima volta potresti non essere così fortunato." disse a gran voce Callimaco.

Il nemico si stava passando la mano sulla ferita, ancora incredulo per essere stato nuovamente beffato da uno dei Cavalieri d’Oro. "Come hai fatto?"

"Un fendente di energia sprigionato dal mio dito. Un colpo di ben scarsa potenza ma che se usato con precisione può essere molto efficace. Il cosmo della spada Excalibur si manifesta di solito in fendenti ad ampio raggio e di grande portata, che sfruttano il movimento della mano e del braccio. Ma tagli più sottili, più rapidi, quasi impercettibili, necessitano di molto meno. Difficile è portare un attacco di questa natura, sono necessarie forza e precisione al massimo grado e oggi sono ben grato al mio maestro per aver insistito nel farmi sviluppare questa tecnica. Questo è il colpo che ha reciso una delle corde del tuo strumento, rendendolo di fatto inutilizzabile."

"Non hai ancora vinto!" sbottò Apofis abbozzando una melodia utilizzando le corde supersiti, ma poco poté. Con orrore altre corde si tranciarono sotto le sue dita.

"Ben fatto, Apofis." lo irrise Callimaco "Tieni bene in vista il tuo strumento così che lo possa neutralizzare una volta per tutte."

Una smorfia di rabbia si dipinse sul volto dello Spettro e nei suoi occhi si accese un desiderio di rivalsa, di odio smisurato, di cieca vendetta.

"Non credere che la musica fosse la mia sola risorsa!" sibilò con tono feroce mentre la sua aura cosmica si espandeva a dismisura. "Mai avrei pensato di dover usare questa tecnica contro uno dei guerrieri di Atena, razza inferiore che solo con l’inganno può riuscire a trionfare. Ebbene, se per avere ragione di tale genia di combattenti bisogna ricorrere a colpi estremi, sia! La potenza di Apopi, il grande buio, il terribile serpente che porta con se le tenebre ti cancellerà dalla faccia della Terra. Sappi che nessuno sfugge all’abbraccio delle tenebre. E’ un colpo che ben volentieri avrei riservato al vostro Grande Sacerdote o alla vostra dea, empia divinità che si abbassa a confrontarsi con gli uomini." La sua espressione si era fatta terribile, il volto trasfigurato. "Muori Callimaco! Stretta di Apopi!" gridò muovendo le braccia a mimare la poderosa morsa di un serpente.

Apofis fu avvolto da una nera tenebra, che presto passò oltre, dirigendosi verso Callimaco e assumendo le fattezze di un enorme serpente con le fauci spalancate. Il cavaliere non poteva nemmeno pensare di evitare quella gigantesca presenza che lo avvolse e lo inghiottì.

Tutto si fece buio intorno a lui. Tenebra che si aggiungeva a tenebra, notte a notte, pensò Callimaco con un pensiero al Sole che quel giorno nessuno aveva ancora visto. Tuttavia non ebbe paura, perché si rese conto in quel momento che il nemico era ricorso alla sua tecnica estrema perché ormai privo di altre risorse. Se avesse resistito a quell’attacco, se non si fosse smarrito nei meandri della notte, la vittoria sarebbe stata sua. Avvertì quel nero cosmo avvolgerlo, farsi opprimente e stringere sempre più. Nell’oscurità sentì l’armatura farsi pesante e la sua energia vitale indebolirsi. Cosa poteva mai vincere quella presa micidiale e diradare la tenebra? La risposta si affacciò senza fatica nella sua mente, chiara e scintillante, come l’aveva veduta la prima volta, qualche anno addietro. Se aveva vinto l’insidia della musica, un potere cui i cavalieri di Atena erano poco avezzi, perché mai doveva temere la tenebra, che da sempre, dai tempi del mito, essi erano stati addestrati ad affrontare?

Apofis guardò soddisfatto le nere spire avvolgere il suo nemico. Tutti! Li avrebbe schiacciati tutti quegli insolenti cavalieri di Atena! Si apprestò con feroce soddisfazione a sferrare il colpo risolutivo. "Giudizio di Apopi!" urlò stringendo i pugni e proiettando il suo nero potere davanti a sé. In quella tuttavia accadde qualcosa di inatteso. La tenebra davanti a lui fu squarciata da un lampo e un raggio di luce, sottile e brillante, lo investì. Urlò di dolore, mentre l’armatura andava in pezzi in più punti e qualcosa faceva strazio delle sue carni. Con un velo di sangue sugli occhi vide a malapena Callimaco sfrecciare verso di lui e colpirlo con violenza inaudita. Poco dopo cadde supino, prossimo alla fine, con il rancore e la rabbia, misti alla sofferenza, a sfigurare il suo volto.

Callimaco si avvicinò e rivolse al nemico caduto queste parole: "Empio sei tu, schiavo di Ade! Tu che con tecniche subdole cerchi di aver ragione dei tuoi avversari non offrendo loro uno scontro corpo a corpo. Tu che ti sei fatto beffe di noi e celato dalle tue note gioivi delle nostre sofferenze. Tu sei empio, che non conosci onore e lealtà in battaglia. Tu sei empio e ingannatore per aver abbandonato le tue divinità di origine al fine di porti al servizio di Ade. Chi nutre un odio così profondo per Atena, prole dell’Olimpo, non può che servire Ade, il quale è al pari di Zeus figlio di Crono, soltanto per ambizione e sete di gloria. Pelopida, il quale mi augurò, un lontano giorno, non lontano dalle Meteore dove è eroicamente caduto, di ricevere al più presto l’investitura e con essa Excalibur in virtù dell’aiuto che gli avevo offerto, è infine vendicato. E proprio quella stessa Excalibur, che meritai, così ritenne la Dea, proprio dopo quell’impresa, è l’arma che ti ha condannato. La lama della giustizia, forgiata per splendere anche dove le tenebre del delitto, dell’ignoranza e della sopraffazione sembrano imperare, ha brillato pure nel ventre dell’empia divinità da te evocata. Non credessi io, al pari dei miei compagni, che la luce della giustizia sempre brilla nel buio, anche negli angoli e negli anfratti più remoti dell’ecumene, non ti avrei vinto. Ma così non è stato, che troppo forte e radicato è in me e nei miei compagni il senso della giustizia e dell’equità, quelle virtù che accendono la sacra lama di Atena e spazzano via la notte, per quanto buia possa essere. Perché sappi, Apofis, che se vi è anche un solo modo, una sola occasione, un solo istante, che ci conceda di far splendere ancora la luce del Sole sui volti degli uomini e delle donne di questo modo, noi sapremo trovarlo. E ti assicurò che lotterò fino alla fine perché così avvenga!"

Lisandro contemplò il tempio di Atena, sagoma scura che si stagliava sulla sommità dell’acropoli; di là da quello il più modesto l’edificio dedicato a Cecrope ed Eretteo, che ricordava i primordi della città. Le pietre bianche e lucide, consumate dal continuo calpestio, rendevano chiara la via sacra pur in quell’alba di tenebra, fino ai margini del pianoro, dove si tuffava in basso, verso la città. Giù, nella piana, dove si trovavano l’agorà e le abitazioni, qualche tremula fiamma di lucerna si accendeva, appariva e scompariva tra le strade, segno che ormai la maggior parte degli Ateniesi se ne era andata per mettersi in salvo, seguendo il suo consiglio e arringata da Solone. Appena in tempo. Già sentiva avvicinarsi, da occidente, delle presenze oscure. Non molte, in verità, ma una in particolare appariva temibile e vigorosa. Si concesse un attimo di tregua per provare a contattare mentalmente il fratello. Nulla. Come un paio di giorni prima Pisandro sembrava scomparso. No, doveva controllarsi, si disse. C’era una battaglia da combattere ed era imminente. Non poteva concedersi distrazioni. Pisandro se la sarebbe cavata, come sempre. Il dubbio tuttavia lo attanagliava.

Un rumore lo riscosse. Poi una voce, dura. "Cominciamo dall’altura sacra! Al tempio!"

Passarono pochi istanti. Dalla modesta area di propilei un paio di figure avanzarono furtive verso il tempio di Atena Parthenos. "Facciamolo a pezzi e poi che il fuoco avvolga tutta la città! Fuoco Nero!" L’urlo fu seguito da un’emanazione cosmica che accese fiamme scure, che fulminee si propagarono in direzione del tempio. Tuttavia chi le aveva generate ebbe l’amara sorpresa di vederle subito disperse. "Chi osa?"

Lisandro fece brillare il suo cosmo e si parò di fronte a lui. "Eccomi, servitore di Ade!"

"Una cavaliere di Atena. Uno solo?" rise sarcastico.

"Non avremo problemi nello spazzarlo via." gli fece eco un’altra voce.

"Pazzo se spera di fermarci da solo." commentò un terzo.

Solo una figura, in disparte, rimase silenziosa e assorta, come attendendo gli eventi. Chi le fosse stato vicino avrebbe potuto vedere un sorriso accendersi sul suo viso.

"Muori maledetto! Fuoco Nero!" gridò il capofila, mentre gli altri si lanciavano con lui all’attacco.

Lisandro sollevò il braccio, parando il colpo con lo scudo e con l’altro sferrò un colpo di risposta. "Colpo del Drago Volante!" Come acqua che trattenuta da uno sbarramento forma un lago placido e immoto a vedersi, e che liberata da un cataclisma si riversa in una valle, allargando la breccia via via da cui fuoriesce, spazzando via tutto ciò che incontra sul suo cammino, così il colpo di Lisandro si abbatté sui tre Spettri di Ade, annientandoli all’istante.

"Se siete tutti combattenti di tal fatta, eccessiva è stata la mia preoccupazione per Atene."

In risposta a questa sua affermazione il quarto Spettro replicò in modo divertito: "Cavaliere, davvero osi sperare che l’esercito di Ade sia composto solo da guerrieri modesti come quelli che hai sconfitto or ora? Eppure non mi sembri così sciocco."

"E non lo sono." disse fiero Lisandro "Tu, piuttosto, chi sei?"

"Lycaon è il mio nome, della Stella del Cielo Misterioso!"

"Lycaon…" mormorò Lisandro "Un nome che ho sentito fare parecchie volte, da bambino, quando ascoltavo raccontare i miti riguardanti gli antichi sovrani dell’Arcadia e alcune loro inquietanti facoltà."

"Non sei lontano dalla verità, mi compiaccio! Dunque non serve che ti illustri a cosa sono legati i miei poteri, né la sorte che ti aspetta. Come un daino che sia ormai alla portata delle fauci di un lupo, sceso solitario e affamato dal monte, così tu ti ergi di fronte a me, che sono pronto a ghermirti su questo spoglio sperone roccioso, prima di riversare la mia furia su queste costruzioni e sulla città cara alla nemica del mio signore. Non hai boschi né anfratti nei quali nasconderti, a meno che tu non voglia riparati nel tempio. Cosa che però non ti basterebbe contro di me. Prima, tuttavia, dimmi il tuo nome, che sappia chi sarà la mia vittima."

"Sei sicuro di te, demone. Attento a non dovertene pentire." fu la replica al nemico, che era minaccioso e tuttavia parlava senza animosità, senza apparente malvagità, come fosse davvero una belva spinta solo dall’istinto a fare quello per cui è nata. Le sue parole, inoltre, risuonavano fiere. "Hai di fronte Lisandro di Micene, cavaliere di Libra."

"Lisandro di Micene…" ripeté sottovoce lo Spettro e le immagini di una notte di caccia gli si riaffacciarono nella mente. "Non sarà…" disse tra sé. Tuttavia subito abbandonato quel pensiero, si preparò alla lotta. La città doveva cadere quanto prima e quindi doveva sbarazzarsi di Lisandro nel più breve tempo possibile.

"Sei pronto Lisandro? Che lo scontro abbia inizio!"

La testa gli doleva. I piedi, immersi nelle gelide acque, erano freddi e insensibili. Sassi e pietre, sui quali era adagiato, contribuivano a trasmettergli una sensazione di freddezza. Ripensò al colpo ricevuto. Un moto di rabbia gli salì dal cuore, ma subito lo temperò con il suo orgoglio guerriero. Se un nemico era stato capace di colpirlo con tanta violenza significava che di un degno avversario si trattava. Ora, dal momento che era sopravvissuto, aveva la possibilità di rifarsi al più presto. Sopravvissuto, pensò… Sì, in fondo cosa importava il come e il perché? Non c’era forse una guerra da vincere? Avversari, che aveva scoperto essere alla sua altezza o quasi, con i quali misurarsi? Non era tempo di prestare soccorso ai compagni, che certo dovevano essere impegnati in duri combattimenti? Era ora di tornare sul campo di battaglia, a dimostrare il suo valore, a far cadere i nemici uno ad uno, come era abituato. Levandosi in piedi, avvertì, lontane, due presenze amiche, la cui energia vitale già splendeva e ruggiva. Poteva egli mancare alla battaglia finale? Ripensò alla sua signora, che tanto aveva fatto per lui. Non l’avrebbe delusa. Un’onda più lunga delle altre bagnò i suoi schinieri ed egli guardò verso il cupo orizzonte. Qualcosa attrasse la sua attenzione e sorrise.

"Ci siamo quasi, Archita. Presto saremo a fianco dei nostri compagni."

"Non hai visto qualcosa di strano?"

"Che cosa, amico mio?"

"No, nulla, forse mi sono sbagliato."

Anassilao lo guardò con aria interrogativa.

"Non è strano? La città è avvolta nelle tenebre e dovremmo vedere, essendo ormai vicini alla costa, delle luci."

L’amico spinse lo sguardo laddove sapeva sorgere la città cara ad Atena. "Hai ragione. Vedo luci solo in prossimità del porto."

"Tutto ciò è strano."

"Come se la città fosse stata abbandonata…"

Un pensiero simultaneo attraversò le loro menti. "L’attacco è già iniziato!"

In quella un cosmo aggressivo si manifestò e l’occhio attento di Archita vide qualcosa increspare le acque, come se una nave immateriale e invisibile viaggiasse a folle velocità verso la loro.

"Attenti, ci attaccano! Gridò a gran voce ai marinai che, già sgomenti per le tenebre, non capivano a cosa il loro passeggero si riferisse. "Tenetevi, ci sarà un duro impatto!" Si portò nei pressi della murata. "Muro di Cristallo!" La barriera fu eretta appena in tempo. L’imbarcazione ondeggiò paurosamente mentre l’equipaggio, atterrito, si tratteneva come poteva per non essere sbalzato fuoribordo. La nave ondeggiò ancora per un po’, mentre Archita si era voltato in direzione del compagno e i due sei erano scambiati uno sguardo d’intesa.

"Tu pensa ad alzare le difese, a scovare questo maledetto penserò io!" disse sicuro di sé Anassilao.

Un altro colpo, più rapido del precedente, si stava già avvicinando. "Muro di Cristallo!" Questa volta la nave ebbe uno scarto molto brusco, l’albero si spezzò a causa del contraccolpo e per poco non travolse un paio di uomini che stavano aggrappati ai lunghi remi; lo scafo era nel frattempo percorso da sinistri scricchiolii.

"Anassilao, individualo, presto! Il Muro di Cristallo ci protegge dal colpo diretto, ma il contraccolpo alla lunga può essere fatale per la nave!"

"Me ne sono accorto! Colui che ci attacca è dotato di un potere fuori del comune."

"Rispondigli da par tuo, cavaliere di Gemini."

Un sorriso di compiacimento comparve sul volto di Anassilao mentre si portava a prua. "Non temere, amico. Ho visto chiaramente da dove è arrivato il secondo colpo. Preparati, maledetto, so come attaccarti!" Urlò al vento distendendo le braccia. "Esplosione Galattica!"

La trireme fu quasi spinta indietro quando il colpo di Anassilao si sprigionò dalle sue mani. La prua, la polena e la sagoma del cavaliere si illuminarono nella notte. Nel contempo un raggio di energia, che turbinava a gran velocità a volando sulle acque, come un lampo raggiunse la costa, dove un bagliore divampò improvviso seguito da un crepitio.

Dopo alcuni, interminabili momenti di silenzio il cavaliere disse: "Credo di averlo colpito, anche se non so con quali risultati. Ad ogni modo credo lo scopriremo presto."

"Artigli del Lupo!"

"Colpo del Drago Volante!"

Due ombre sfrecciarono l’una contro l’altra nel buio dell’acropoli, di fronte alle mute colonne del Partenone.

"Sei veloce, Lisandro di Libra!"

"Pure tu, Lycaon. Vedremo se ciò ti basterà."

"Vedremo! Sei pronto per un altro assalto?" Le mani del guerriero sembrarono per un attimo diventare davvero gli artigli di un lupo dei boschi, pensava Lisandro. O si trattava soltanto della suggestione di antichi racconti, che aveva udito da ragazzo, e della tensione per quella battaglia in difesa della città?

"Artigli del Lupo, colpite nel segno!" Questa volta il colpo fu più rapido, il reticolo di onde baluginanti nel buio assai più fitto rispetto ai precedenti e infatti il ragazzo di Micene non riuscì ad evitare tutti i colpi e si ritrovò con tagli sulle parti del corpo che l’armatura lasciava scoperte.

"Ben presto ti stancherai!"

"Non sperarci troppo!"

Lycaon rise: "Non ti illudere, non ho ancora sfoderato a pieno il mio potere. Hai detto di essere di Micene, quindi quasi certamente conosci quello che si racconta dei lupi dell’Arcadia, e in particolare in merito ad un determinato sovrano."

Lisandro non poté che ammettere che era così. Spesso la sera, pur di fronte al fuoco, quei miti lo avevano impressionato e ricordava che più di una volta le loro ombre di ragazzi si erano strette le una alle altre. A quel pensiero si sentì solo, solo come non si era più sentito da quell’alba tragica di molti anni addietro.

"Artigli…"

La crudezza della battaglia lo riportò alla realtà. Questa volta, complice l’attimo di esitazione, fu ferito più in profondità.

"Perdi colpi, mio povero Lisandro. La tua caduta è prossima."

"Che non sia la tua ad esserlo." replicò senza scomporsi.

"I tuoi colpi del drago poco mi preoccupano. Non è pure la Pizia caduta per mano di Apollo? Ebbene sappi che anche il lupo dell’Arcadia non teme certo i draghi."

"Mi spiace deluderti, ma di natura diversa sono i colpi del Drago che mi sono propri."

"Cosa vuoi dire?" disse Lycaon incuriosito.

"Il mio maestro, Archita di Thera, mi ha insegnato a padroneggiare questa tecnica, che egli apprese a dominare durante il suo addestramento. Fu un uomo venuto dal mare, a quanto mi disse, un uomo dagli occhi sottili, giunto da una terra ai confini del mondo, dove nasce il sole, maestro di saggezza e di meditazione, a erudire Archita e ad insegnarli questa tecnica d’attacco. Certo, il mio maestro è giustamente celebrato più per la barriera difensiva che usò per la prima volta nel corso della guerra sacra contro Ares, tecnica che egli poté sviluppare grazie a profonde e ripetute sedute dio meditazione che gli permisero di plasmare il suo cosmo e di renderlo duttile tanto in attacco quanto in difesa. Ebbene, dicevo, tra le altre tecniche il saggio maestro ne possedeva una legata ad un drago benefico, legato alla terra dalla quale proveniva. Ed è quella la tecnica che il mio maestro mi insegnò e che io imparai a padroneggiare e ad utilizzare in battaglia."

"Interessante. Ma sarà altrettanto efficace come quella, ad esempio, di Kanagos, mio compagno d’armi, originario della valle del Nilo al pari, come intuisco, del maestro cui fai menzione?"

"Ti sbagli. Non dall’Egitto proveniva il maestro di Archita, ma da una terra ben più lontana. Ti ho già detto che si tratta di una terra ai confini del mondo, ben al di là, a quanto mi disse il maestro, del paese di coloro che vivono nella terra dai due fiumi."

"Capisco, cavaliere. Fatto sta che ciò non cambierà l’esito della battaglia. Sei già coperto di ferite, cosa puoi fare se non soccombere alla lunga?" E si lanciò in un altro affondo.

Questa volta Lisandro aveva tuttavia deciso di mutare il proprio attacco, utilizzando un colpo più potente dei precedenti, portato a tutto braccio. "Colpo del Drago Nascente!" Lycaon fu preso alla sprovvista e nemmeno con un agile salto riuscì ad evitare il colpo. Fu centrato alle gambe e cadde in avanti, con una smorfia di dolore. Tuttavia prontamente si rialzò.

"Devo ammetterlo, sei un degno avversario. Ma pure io ho qualcosa in serbo per te! Zanne del Lupo!" Due fendenti attraversarono l’aria ma, con gran delusione da parte di Lycaon, si infransero sullo scudo di Libra.

"Non oltrepasserai questa difesa con un attacco così circoscritto!" disse con fermezza Lisandro.

"Ebbene, non mi resta che tornare agli Artigli del Lupo!" urlò l’avversario ripartendo all’attacco. Il devoto di Atena riuscì tuttavia a evitare gran parte di quelle rasoiate, in parte usando lo scudo, in parte muovendosi con rapidità. Solo pochi colpi coglievano nel segno. Ora doveva passare al contrattacco, prima di affaticarsi troppo.

Attese che l’avversario fosse sopra di lui e si preparò a lanciare il suo colpo ma in quella Lycaon rinnovò l’attacco. "Zanne del Lupo!" "Colpo del Drago Nascente!" Le braccia dei due contendenti si incrociarono nell’aria. Lycaon fu respinto indietro, sputando sangue, ma pure Lisandro su colpito da due zanne biancheggianti di luce che lacerarono la coscia, laddove non era protetta dallo schiniere. Il cavaliere dovette soffocare una smorfia di dolore.

Lycaon si stava rialzando, impaziente e furioso: "Devo chiudere i conti con te, ho una missione da portare a termine!"

"Non te lo permetterò!" replicò Lisandro mentre appoggiava una mano sulla ferita. "Atene sarà risparmiata dalla tua furia."

Lycaon sorrise beffardo: "Invero tu non sai ancora nulla della furia devastante di un lupo che scende dai monti per ghermire la sua preda. Non lo sai ma, purtroppo per te, stai per scoprirlo."