XXIII
Melissa si alzò di scatto e il suo cuore ebbe un sussulto. Un tuono, lontano. Poi un altro, più vicino. Nel giro di un attimo le cataratte del cielo si aprirono e una pioggia torrenziale si riversò su Corinto mentre il vento cominciava a soffiare sempre più forte e le onde a sferzare con forza l’istmo. Nella casa il vento cominciò ad entrare con sempre maggior violenza, portando con sé profumo d’erba e di terra.
"Madre, Melissa!" urlò suo fratello Cratilo.
In un attimo, si ritrovarono tutti nei pressi del focolare, spaventati e tremanti. La vecchia Antimaca teneva lo sguardo basso e mormorava. "Poseidon deve essere parecchio infuriato, non ho mai sentito una tempesta come questa…"
Cratilo si dette da fare per puntellare la porta, Melissa intanto cercava di tener vivo il fuoco. Cominciava già a far freddo, molto freddo. Antimaca si avvicinò alla figlia.
"Cerca qualcosa per chiudere le finestre." le disse.
La ragazza poco dopo stava in equilibrio precario su uno sgabello di legno per ostruire le due modeste aperture che davano luce al locale. Gettò uno sguardo fuori, nella tempesta. Non vedeva che a pochi metri da sé, e nonostante l’alba dovesse essere vicina la luce diminuiva sempre più. Eppure, pensò con sgomento, neppure le nuvole potevano oscurare a tal punto un’alba estiva. Si fece ancora più buio, ed ebbe paura.
"Cratilo, vieni a vedere."
Fu la madre a rispondere, mentre accendeva una lucerna e diceva grave: "Scendi di là, figlia. Dubito ci sia qualcosa da vedere. Oggi non vedremo il Sole."
Melissa, a quelle parole, fu presa da un sgomento, come se davvero il Sole potesse sparire davvero. Guardò fuori un’ultima volta. "Callimaco! Dove sei?"
***
Adrasto si era alzato presto, come consuetudine. Neppure quel giorno, tuttavia, nessuno sarebbe uscito per la pesca. Qualcosa, ad occidente, stava oscurando il cielo. L’alba era spuntata timida ma ben presto una nera ombra l’aveva contrastata e infine vinta. E non si trattava di un fortunale estivo. Il mare era livido e una brezza fredda soffiava sui visi dei pescatori che già si davano da fare per tirare in secca le loro barche. In molti era vivo il ricordo del terremoto e un nuovo terrore ora si stava impadronendo di loro.
Adrasto tuttavia, riusciva a non pensare a tutto questo e a non vedere i volti pallidi e gli sguardi sgomenti dei suoi concittadini. Scrutava il mare, oltre le isole, pregando gli dei che proteggessero il nipote e quel suo amico, che si erano messi in mare e che forse non erano ancora giunti a destinazione.
Scoprì di non essere il solo a pensare a loro. "Adrasto, il mare li risparmierà, vero?" disse una voce flebile e dubbiosa.
Il vecchio pescatore si voltò e, sorpreso, vide una ragazzina avvolta solo di un lacero chitone, che si appoggiava ad un bastone. "Perché sei qui? Non dovresti sforzare la gamba ferita!" le disse aspro.
"Non mi fa male." disse lei orgogliosa.
"Scendere fino a qui, nelle tue condizioni…" replicò bonariamente il pescatore.
"Non mi importa. Volevo solo vedere se Anassilao e Archita erano tornati."
"Perché dovrebbero tornare? Sono diretti ad Atene, lo sai."
"Ma oggi il mare è cattivo e Apollo dev’essere infuriato! Come faranno ad arrivare?"
Apollo, meditò Adrasto. Il carro del Sole quel giorno pareva fiacco, molto fiacco. "Sta tranquilla" disse soppesando le parole. "Mio nipote Archita da bambino ha imparato a conoscere il mare e le sue insidie, vedrai che se la caverà."
"E Anassilao?"
"Pure lui è un tipo in gamba."
Sì, era un tipo in gamba e lei lo sapeva, pensò rincuorata.
***
A Delo l’oracolo alzò lo sguardo al cielo e scosse la testa, chiedendosi in cosa potessero aver mancato al figlio di Latona per meritarsi un simile castigo. L’oscurità avanzava da occidente e si propagava a oscurare il Sole nascente. Febo Apollo quel giorno sembrava tornare sui suoi passi, negando agli uomini il nuovo giorno. A stento trattenne il suo orrore davanti al fenomeno. In basso, tuttavia, già si levavano alte strida di disperazione.
Nello stesso momento, a Delfi, la Pizia guardava la pioggia cadere da un cielo nero come la notte appoggiata ad una delle colonne di tufo del tempio. A differenza di quanti si trovavano nel Santuario ella aveva coscienza del fatto che non di una tempesta insolita si trattava ma di qualcosa di assai più grave. Qualcuno, proprio in quell’istante, stava accorrendo al tempio, incurante della pioggia; giunto nei pressi del colonnato scorse la Pizia ed ella si rese conto che stava cercando lei.
Ad Atene, sull’Acropoli, numerose persone scrutavano lontano, incerte e spaesate. Il mare era appena visibile in lontananza, ma via via la luce, anziché aumentare, diminuiva. Nel resto della polis il panico già dilagava. Alcuni si abbandonavano alla disperazione, alcuni gridavano, altri, timidamente, si recavano dentro il tempio per chiedere ad Atena Parthenos di intervenire in loro aiuto. I semplici cadevano preda della disperazione, i saggi dell’incredulità. Le donne versavano lacrime, gli uomini si sentivano annichiliti. Ragazzi e bambini, già svegli, restavano muti e attoniti ad ammirare quello strano fenomeno, preda di una tremante meraviglia.
Scene non dissimili si stavano verificando nel Peloponneso ad Argo, Nemea, Corinto, Olimpia, Epidauro e Sparta, e in Beozia, a Tebe, e nel nord, a Dodona e alle Meteore. Ad Eleusi tutto taceva. Notte e pioggia e temporali si alternavano nei cieli dell’Ellade. Nemmeno le isole erano risparmiate: sferzate dai venti e dai marosi che portavano paura e sgomento da Paro a Nasso, e da Sifno a Cnido, e ancora a Mikonos, e a sud fino Melo, fino a Thera. E pure le lontane Samotracia nel nord, e Chio, Samo, Lesbo, e più a sud Koos e Rodi, erano interessate dallo stesso fenomeno, seppur attenuato. Ansia a sgomento si facevano largo pure a Mileto, Efesto e in tutte le città della costa asiatica.
Il sole veniva negato agli uomini e una tenebra che tutto avvolgeva si stendeva sull’ecumene.
***
Callimaco si alzò, portando tra le braccia Archelao. Lacrime rigavano il suo volto e una rabbia sorda gli era scesa nel cuore. Pegasios stava immobile vicino a lui, terreo in volto. Il cavaliere del Capricorno si avviò verso il Tempio dell’Ariete. Pegasios, meccanicamente, lo seguì.
"Cosa volete fare?" chiese con voce rotta Alcmene.
"Lo voglio portare al Tempio dello Scorpione e onorare la sua caduta." fu la risposta. Pegasios annuì.
Alcmene scosse la testa: "Callimaco, sai che ti asseconderei, ma non in questo momento. Il cosmo di Ade si sta impadronendo del Santuario, non lo avverti? Non so se riusciresti ad arrivare…"
"Non lo trovi buffo, Alcmene?" sbottò Callimaco girandosi di scatto. "Proprio il dio degli Inferi ci impedisce di onorare un defunto! Vorrei trovarmelo di fronte…" Ma subito le parole li morirono in bocca, colpito dall’enormità di ciò che stava per dire.
In quella percepirono due cosmi elevarsi, là in alto, al terzo Tempio. Poi, d’improvviso uno si affievolì e si spense.
"Pisandro!" gemette Pegasios.
"No, quello che è sparito era un cosmo oscuro." lo rassicurò Alcmene. "Ascolta, Callimaco, non facciamo pazzie e componiamo Archelao assieme agli altri caduti qui, al Tempio dell’Ariete. Temo che una nuova battaglia sia imminente."
Callimaco guardò il volto di Archelao, sereno nell’abbraccio della morte. Si sarebbe aspettato quasi che l’amico si svegliasse e lo apostrofasse con una delle sue spiritosaggini. La nostalgia e il rimpianto presero lentamente il posto della cieca rabbia. "Sei saggio, come saggio era il tuo maestro, Alcmene. Non facciamo mosse avventate. Ma quando giungerà il momento i compagni caduti saranno vendicati e la loro memoria onorata a dovere."
"Sono con te, Callimaco." disse Pegasios con gli occhi lucidi.
"Il loro spirito ci guiderà alla vittoria. Lo dobbiamo a loro e alla dea Atena." aggiunse Alcmene.
Atena, pensarono all’unisono subito dopo averla evocata, incerti del destino che le era toccato.
***
Odisseo se ne stava accoccolato sulle sue ginocchia, incurante delle onde che schiumavano lungo le fiancate, del vento che soffiava impetuoso su quel mare livido e del cielo cupo. Aveva ragione Adrasto quando aveva dichiarato che era un gatto da pescatore in tutto e per tutto. Solo di tanto in tanto sollevava il muso e i suoi occhi verdi scrutavano l’orizzonte verso occidente. Restava in contemplazione per un po’ ma poi, ogni volta, rizzava il pelo e soffiava.
"Ci deve essere qualcosa che non gli piace laggiù."
Il gatto ricevette una buona dose di carezze, poi chi lo aveva coccolato alzò gli occhi su chi aveva parlato e disse: "A te piace quello che percepisci ora?"
L’espressione dell’interlocutore diceva tutto. "Troppi segnali negativi, amico mio, troppe luci che si spengono. E noi costretti a solcare il mare solo per scoprire che probabilmente il pericolo è nel luogo dal quale siamo partiti." Seguì una pausa pesante. "Sono preoccupato per i nostri compagni."
Il compagno taceva, assorto.
"So cosa pensi, Archita. A Thera non c’è più pericolo ora. Non devi temere per la tua gente."
"Mi tornano alla mente le parole di Adrasto, amico mio. Eppure non bastano a tranquillizzarmi. Temo che gli Spettri possano tornare."
"Non credo ci riproveranno dopo il trattamento che hai loro riservato."
Archita abbozzò un sorriso. "Tuttavia non ne abbiamo la certezza."
Anassilao non volle insistere. Ad ogni modo qualcosa gli diceva che a Thera non vi era più nulla che potesse interessare i loro nemici dopo che avevano fatto a pezzi le nere navi individuate nei pressi della caletta dalle rosse sabbie. Il dominio sul mare cui sembrava aspirare Ade sarebbe restato un’utopia, ora però bisognava mettere al sicuro le terre sotto il vasto cielo.
"Marinaio, quanto impiegheremo ad avvistare le coste dell’Attica?" chiese.
"Ci vogliono quasi due giornate di navigazione con venti favorevoli, e navighiamo da poco più di una notte. Se saremo fortunati potrete sbarcare all’alba di domani, sperando che sia migliore di questa e che il tempo non peggiori."
Anassilao guardò verso oriente. Una fioca luce filtrava tra le nubi argentee. Verso occidente, invece, sembrava che la notte non solo indugiasse ancora, ma andasse infittendosi.
"Le tenebre avanzano." disse in quel momento Archita. "Dobbiamo fare presto. Il pericolo vero è ad Atene o forse non lontano da lì."
Nel loro cuori si era tuttavia annidato un sentimento di inquietudine. Ancora un giorno, ancora un’alba. Sempre che un’alba fosse ancora possibile.
***
Un fuoco crepitava nella notte. Attorno stavano alcune figure, sedute, per lo più in atteggiamento dimesso. Nell’aria si diffondevano aromi, mentre qualcuno attingeva ad un cratere e passava scodelle fumanti agli astanti. Qualcun altro toglieva in quel momento qualcosa dal fuoco e lo divideva in parti che distribuiva ai vicini. Una testa si piegò all’indietro, nell’atto di bere, poi tornò a piegarsi in avanti a perdersi tra le ombre tremule e fuggenti. Il nuovo giorno non salutava ancora coloro che stavano consumando quel pasto improvvisato. Le stelle, che dovevano pur splendere oltre la coltre di nubi, forse non avevano ancora declinato mentre attorno al fuoco ci si ristorava cercando di allontanare cupi pensieri. Sì perché ognuno lo sapeva, pur non ammettendolo: non vi era giorno e non vi erano stelle. Il buio sembrava essersi ingoiato tutti e il mondo, tutta l’ecumene, pareva aver fine dove aveva fine il cerchio di luce proiettato dal fuoco.
Qualcuno stava chino su un uomo disteso, il volto e le braccia coperti di panni umidi, a voler dar sollievo alle sue ferite. Di tanto in tanto si scuoteva nel sonno e allora una figura dai movimenti aggraziati gli risistemava le bende.
"Non è che è avanzata della zuppa?" disse una voce stancamente.
Qualcuno allungò un kantharos fumante.
"Ma questi sono Dioniso e Arianna! E’ una pittura di un certo valore, perché la vuoi usare come ciotola?"
"Non ho trovato di meglio." Poi irridendolo "Volendo, puoi digiunare!"
Uno di loro si alzò e si diresse verso una figura seduta in disparte, all’ombra. "Ti va un po’ di focaccia e qualche oliva? Purtroppo non son riuscito a trovare di meglio…"
L’altro allungò una mano, stancamente, e afferrò ciò che gli era stato offerto.
"Non è che abbia molta fame… C’è dell’acqua?"
"Certo, amico mio." E gli porse una lekythos. "Bevi alla salute di Eracle!"
L’amico non poté fare a meno di sorridere. "Avremmo davvero tanto bisogno del suo aiuto in questo momento, non ti pare?"
"I legumi e le fave sono pronti. Qualcuno ne vuole?"
Il ferito si era evidentemente svegliato e aveva fame. "Io mangerei qualcosa molto volentieri. Ho una fame da leone. Ma ho più sete che fame, che ne dite di sacrificare qualche pezzo della collezione di Archita pure per me?"
Un paio di loro non riuscì a trattenere una risata. "Non perdi mai il buon umore tu, vero?" disse il più giovane del gruppo, tornando subito serio.
"E cos’altro ci resta, amico mio, cos’altro? L’alba oggi non sorgerà, e questo lo abbiamo capito tutti. Uomini prodi e coraggiosi giacciono composti in modo sommario senza che nessuno ne abbia cantato le lodi funebri. La dea Atena e Policrate sono scomparsi. Il Santuario sta per cadere nelle mani di un tiranno e tutta l’ecumene sarà in questo momento prostrata dal terrore delle tenebre. Abbiamo il dovere di coltivare una speranza e un sorriso con cui guardare al domani. E se non lo faremo noi chi mai potrà farlo?" disse mentre il suo tono si faceva via via più grave. Non gli si poteva dare torto, anche se nessuno poteva in quel momento sapere che almeno riguardo una delle sue supposizioni era errata.
"Coraggio, bevi Pisandro." disse qualcuno portandoli alla bocca una kylix.
"Grazie, Pegasios."
***
"Maestro, è questo il luogo vero?"
Il maestro annuì. "Credo che non ci siamo sbagliati, mio buon Plistene. Chi lo avrebbe mai detto che proprio da questo luogo venuta la minaccia più grande? Vi ho dimorato e meditato per anni, mai avrei pensato che dove si svolgono i riti della fertilità e i misteri della grande madre sarebbe comparsa un giorno una tale minaccia. E’ come se dal sottosuolo, anziché i germogli di una stagione che rinasce, fossero spuntate spighe di tenebra che oscurano il cielo."
Plistene non poté che apprezzare quell’agghiacciante paragone. "Che facciamo dunque? Già si odono le voci dei contadini disperati e delle donne in preda al terrore per il Sole che oggi non sorge, cosa possiamo mai fare davanti a tanta disperazione?" E nel dir questo mise mano al rosario di Atena e si avvide che altre perle che lo componevano avevano cambiato colore. Tante, certo, ma tante altre restavano immutate, ad indicare che ancora altri nemici vi erano da respingere.
"Lo avverto, Plistene!" disse d’un tratto Kyriakos.
Un freddo di morte calò tra i campi aperti e sull’altura del santuario, mentre un’innaturale nebbia autunnale copriva tutto in lungo e in largo, mentre una pioggia sottile cominciava a cadere.
Il Cavaliere di Virgo si guardò attorno e gli parve di essere nelle lande desolate del Tartaro piuttosto che nella fertile piana sulla quale stavano adagiate Atene ed Eleusi.
Improvvisa, accecante, assordante, una colonna di luce di levò alta sopra di loro mentre rocce, detriti, ammassi di terra e alberi divelti venivano repentinamente proiettati in alto. Grida spaventose e raccapriccianti fendevano l’aria di quel nero mattino. I due devoti di Atena, che lo spostamento d’aria aveva fatto cadere, si rialzarono e si scambiarono una rapida occhiata e seppero, leggendolo l’uno negli occhi dell’altro, che la battaglia vera stava per avere inizio.
***
"Ascoltate!" disse Elettra levandosi in piedi.
Il nero giorno si stagliava sopra di loro. Un vento gelido, quasi provenisse dagli abissi del Tartaro, sferzò il gruppo dei Cavalieri che si erano radunati fuori del Santuario. Videro una colonna di luce comparire ad oriente, agghiacciante nella sua luminosità, così sinistra in quel giorno senza sole, in quell’alba senza luce. Le nubi parvero inghiottirla, poi fu di nuovo il silenzio.
"Cos’era?" chiese ansioso Pegasios.
"Non ne ho idea." rispose Metoneo "Sicuramente non si tratta di un segno propizio. Non l’avvertite anche voi? Un’oscura presenza… sembra che abbracci tutta la terra." Le sue ultime parole furono un sibilo appena percettibile.
Alcmene annuì grave, mentre Callimaco aveva lo sguardo fisso ad oriente. Cupi pensieri affollavano la sua mente. Pure Corinto doveva essere in pericolo… Melissa… che ne sarà di Melissa? Strinse i pungi con rabbia prima che una voce nota, anche se stanca, molto stanca, lo riscuotesse e con lui tutti i presenti.
"La vera battaglia inizia ora, temo."
Una figura avvolta in un logoro mantello fece cadere un pesante scudo prima di cadere anch’essa.
"Maestro!" gridò Callimaco precipitandosi a sostenere Policrate.
Il Grande Sacerdote sollevò lo sguardo, stancamente, e accennò un sorriso. In un attimo tutti i presenti, Pisandro escluso, gli si fecero attorno. "Il Tempio di Atena è stato profanato." disse cercando nel contempo di rimettersi in piedi, aiutato dall’allievo. Metoneo si era chinato sul grande scudo rotondo. "L’Egida... se siete ricorso allo scudo di Atena vuol dire che lo scontro è stato violento oltre ogni dire. Le vostre ferite lo testimoniano."
Policrate raccontò che non erano state le ferite inflitte da Ade a ferirlo maggiormente, ma quelle dovute all’impatto, quando, dopo una lunga parabola, si era ritrovato a pochi passi dal mare, ammaccato e pieno di lividi. "Lo scudo mi ha salvato la vita, come prima l’aveva salvata ad Atena…" concluse stancamente.
"Policrate ditemi" fece Metoneo interpretando il sentire comune "lei… la dea… dov’è?"
Seguì un silenzio feroce: "Spero il più lontano possibile!" disse d’un fiato il Grande Sacerdote. "Non è in grado di opporsi ad Ade adesso e non lo sarà ancora per molte ore, forse per qualche giorno. Dobbiamo resistere fino al suo ritorno…"
Nessuno osava parlare. Fu ancora una volta Metoneo dell’Altare a farlo: "Policrate, devo purtroppo informarvi che il Santuario non è più in mano nostra…"
Una smorfia si dipinse sul volto del Grande Sacerdote: "Non fatevene una colpa. Ciò che è accaduto è frutto di una valutazione errata di cui mi assumo la responsabilità. Dite, piuttosto, quanti…" e la sua voce si incrinò.
"Troppi, mio signore, troppi…" sibilò Alcmene. "Il mio maestro, Pelopida, e il nobile Clearco, come ben sapete, e il giovane Archelao… Di Astylos nessuna notizia, il suo cosmo pare scomparso. Realte, Yarios e il prode Dimione sono caduti davanti al Tempio dell’Ariete e ieri sera è stata la volta di Miklos."
Elettra non riuscì a trattenere le lacrime, troppo a lungo represse: "Sono caduti da valorosi e noi non siamo riusciti a difendere i dodici templi dello Zodiaco e il Tempio di Atena. Il signore degli Inferi e il suo esercito si sono impadroniti del Santuario." Si portò una mano al viso e fu sopraffatta di singhiozzi.
Un misto di rabbia e commozione si impadronì dei presenti. Nessuno osava dire nulla. Policrate, pensoso, fissava l’Egida che Metoneo reggeva, di fianco a lui.
"Impadroniti?" esplose a quel punto una voce rabbiosa "Quelle dannate ombre si sono impadronite del Santuario?" Pisandro si era alzato in piedi, incurante delle ferite e dei bendaggi e si stava avvicinando ai compagni. "Sì, ma manterranno per poco le posizioni! O credete che pure loro non abbiano subito grosse perdite? Faremo loro vedere di cosa siamo capaci!" Poi, con più calma "Vi ringrazio per avermi riportato alla dura realtà, fino a poco fa mi sentivo sopraffatto dalla fatica della battaglia odierna e dallo sconforto per la perdita di tanti amici e compagni. Ma ora il tempo dell’inazione è finito. Coraggio, cavalieri di Atena! Non è forse il Grande Sacerdote tornato tra noi? Non è la nostra dea al sicuro, da qualche parte, in attesa di poter tornare al nostro fianco? E’ questo che avete detto, o sbaglio? Coraggio! Andiamo a far piazza pulita di Minosse e di quel manipolo di ombre e riprendiamo ci ciò che è nostro!"
"Pisandro, ragiona." disse Policrate "Il cosmo divino di Ade si sta allargando sul Santuario, come potremo sperare di riconquistarlo?"
"Non lo sapremo mai se non proveremo!" disse Pegasios deciso. "Pisandro ha ragione, dobbiamo agire, e al più presto. Dovessimo riconquistare anche solo un paio di templi sarebbe già un segnale da lanciare ai nostri nemici, oltre che un modo per onorare chi non è più con noi."
"Non servirebbe a nulla!" disse duro Metoneo "Saremmo così accerchiati, con Ade alle case superiori e il resto dell’esercito di Ade che ci potrebbe assediare in quelle inferiori. Non lo avete avvertito poco fa? Il grosso dell’esercito degli Spettri sta per piombare su di noi!"
"Aspetta, Metoneo." disse Elettra, profondamente toccata dalle parole di Pisandro. "Ciò che dici è vero però che possibilità avremmo di resistere qui, isolati? Dentro il Santuario avremmo dei bastioni dietro i quali trincerarci. Non possiamo affrontare l’armata di Ade qui, in campo aperto."
"Maestro, voi che dite?" disse Callimaco "Credo che Elettra non abbia tutti i torti. Se restiamo qui, inoltre, Atena e i nostri compagni sapranno dove trovarci, perché credo che qui si dirigeranno appena sarà loro possibile."
Metoneo si fece presso Callimaco: "Non dimenticare però dobbiamo proteggere non solo il Santuario ma anche gli Ateniesi e chi vive nei campi. Policrate, che dite?"
Il Grande Sacerdote era stanco e confuso e il dubbio gli attanagliava la mente. Che fare? Il rischio era quello di prendere di nuovo una decisione sbagliata, come quando i Cavalieri d’Oro erano stati allontanati in piccoli gruppi. Un’altra strategia errata poteva mettere la parla fine a quello scontro che stava per entrare nella sua fase decisiva. Prima di decidere volle informarsi riguardo Kyriakos, Plistene e Lisandro, nonché Archita e Anassilao, che avvertiva lontani.
"Abbiamo poche alternative." commentò "Se ho ben capito, Kyriakos e Plistene sono già nel cuore della battaglia e non possiamo lasciarli soli, anche se conosco il loro valore e so che potrebbero tender testa da soli a molti nemici. Ebbene, Pisandro ed Elettra resteranno al sicuro al Tempio del Toro. Pisandro, hai bisogno di riposo, non puoi combattere ora. Callimaco, tu resterai con loro. Io proverò a salire alle Case superiori con Alcmene, Metoneo e Pegasios, facendo in modo di allontanare eventuali nemici che ancora indugiassero da quelle parti."
"No!" fece Pisandro "Perdonate, ma che sperate di fare voi da soli?"
Alcmene usò parole più misurate: "Dividerci è un errore che abbiamo già commesso. Dobbiamo restare uniti, solo così abbiamo la possibilità di sfondare le difese nemiche."
"E chi andrà in aiuto di Kyriakos e Plistene?" replicò dubbioso Policrate "Bisogna informarli di quanto sta accadendo qui."
"Vado io." disse decisa Elettra.
"Non se ne parla!" replicò orgoglioso Pegasios "Troppo pericoloso per una fanciulla." E le sorrise. "Per favore, Policrate, mandate me!"
"Te la senti davvero, giovane Pegasos?" Avvertì nel giovane una consapevolezza nuova, una forza che sembrava essere da poco scaturita in lui e che si andava invigorendo sempre più. "E allora sia. So che sono saggi a sufficienza da non affrontare da soli il grosso dell’esercito di Ade. Tu compito sarà di dar loro manforte del rallentare l’azione del nemico, sempre che sia possibile, e di fare un modo che tornino al più presto al Santuario." Pegasios lo fissò pieno di rispetto, grato delle fiducia che gli era elargita e dell’implicito riconoscimento del suo valore, dal momento che era ritenuto degno di unirsi a due così valorosi guerrieri. Le sue parole, prima di congedarsi, furono: "Non vi deluderò! Buona fortuna a voi, cavalieri di Atena! Proteggete il Santuario e non temete: presto in aiuto giungeranno altri amici." E ciò detto sparì nelle tenebre.
***
"Maestro, che cos’è questa forza devastante? gridò Plistene.
"Il Tartaro… si è scoperchiato!" fu la risposta che si perse subito nel vento. "Le oscure forze di Ade presto saranno su di noi."
Un nuovo spostamento d’aria, come un colpo di frusta, fece volare via i due cavalieri, sbattendoli più volte sulla nuda terra e sulle rocce affioranti. L’ultima cosa che Plistene avvertì fu un tuono e poi la pioggia cadere con maggior violenza. Quando si riebbe non sapeva quanto tempo fosse passato, udiva solo una voce chiamarlo. Aprì gli occhi e vide un giovane, chino su di lui.
"Signore, vi prego!" stava implorando "Se siete un oplita o un mercenario fatevi forza e correte in nostro aiuto, essi sono dappertutto, distruggono e uccidono e sono orribili a vedersi!" Profonde lacrime solcavano il suo viso e la disperazione albergava nel suo sguardo. "La dea madre deve essere molto adirata con noi. Non sappiamo in cosa le abbiamo mancato, ma se voi siete qui, con questa ricca corazza e con il vostro aspetto fiero, è segno che forse qualche altra divinità ha avuto pietà della nostra triste sorte e vi ha mandato in nostro aiuto."
Plistene ci mise un attimo a realizzare quello che era accaduto. Istintivamente scrutò le tenebre, fino ad individuare il maestro. "Nobile Kyriakos, destatevi!" gridò. La sua voce fece sobbalzare il giovane contadino i cui occhi però si illuminarono quando vide nell’ombra un altro soldato d’oro vestito alzarsi e farsi avanti.
"Dove sono?" chiese Plistene.
La risposta arrivò tutto d’un fiato: "Sono usciti in massa del recinto scaro di Demetra ed ora stanno saccheggiando la città. E’ orribile…" e scoppiò in lacrime.
Kyriakos si era nel frattempo avvicinato: "Qual è il tuo nome, ragazzo?"
"Nisia, signore."
"Ebbene Nisia, non temere, faremo quanto è in nostro potere per proteggere voi e la città di Eleusi."
"Quale divinità vi manda?" disse il ragazzo fiducioso.
Kyriakos fu sorpreso da quella domanda. Non gli era mai capitato di essere percepito come un emissario degli dei e il solo pensarlo gli pareva strano, sebbene tanto Plistene quanto lui fossero a tal punto vicini ad una dea da poter essere definiti tali. Nella loro modestia, nel loro spirito di servizio, nel loro sentirsi legati alla loro gente e alla loro terra, non si erano mai considerati più che uomini. Dotati di poteri semidivini, certo, beneficiati della vicinanza di una dea e, per certi versi, pure della sua amicizia, ma niente più che uomini.
"Ci manda Atena." rispose con orgoglio. "Non temere, la minaccia sarà presto allontanata da queste terre che amo. Perché vedi, Nisia, pure io sono nato in questa città e darò tutto me stesso per difenderla."
L’ammirazione del ragazzo per quell’uomo divenne in quel momento sconfinata. Plistene si chinò accanto a lui dicendo: "E dove andrà Kyriakos, sappi che sarà anche Plistene! Ora però, cercati un riparo."
"C’è una stalla non lontano da qui."
"Allora corri a rifugiarti là e non temere, quando il pericolo sarà passato verremo a cercarti."
La speranza si riaccese in quegli occhi che violenze e buio e pioggia parevano aver spento. "State attenti, sono molti." disse con un filo di voce.
"Il loro numero è destinato a scemare molto presto." replicò Kyriakos. Sapeva che in realtà sarebbe stato assai difficile sgominare da soli quell’orrida armata di cui avevano percepito la pericolosità, ma il dover difender la propria patria gli aveva infuso una determinazione che aveva percepito ben poche volte prima di allora. "Andiamo!"
"Vai a ripararti, Nisia. Addio!" disse Plistene, correndo appresso al maestro sulla piana che la pioggia aveva resto un enorme acquitrino, cupo e silenzioso in quella notte surreale e silenziosa.
Non dovettero correre molto prima di arrivare nei pressi di un’altura che si intravedeva appena. Fu in quel momento che avvertirono avvampare un cosmo violento, subito seguito da un ruvido rumore di passi e dall’inconfondibile suono di schinieri metallici che picchiavano sulle pietre e sulle rocce affioranti. Poco dopo in quella notte nera una nera sagoma, adorna di sinistre appendici, che era impossibile dire cosa fossero, si parò davanti a loro. Ancora pochi passi e la distinsero chiaramente. Vestiva una corazza che alternava parti nere come la notte e ben lucide, ad altre squamate, come la parte terminale dei bracciali e degli schinieri, nonché copri spalla. L’elmo era costituito da una testa di drago, o almeno a quello pareva somigliare. Il volto era nascosto dall’ombra che il muso della bestia proiettava su di esso. Ciò che nelle tenebre potevano sembrare numerose braccia altro non erano se non quattro serpenti che si dipartivano due a due dalla schiena del guerriero e si piegavano flessuosi al di sopra dei copri spalla, guardando ognuno in direzioni diverse.
"Chi sei, rivelati!" Esclamò con durezza Kyriakos, mettendosi nel contempo sulla difensiva, al pari di Plistene.
"Potresti pentirti di averlo chiesto." replicò una voce inaspettatamente dolce e musicale.
Il guerriero portò le mani alla testa e tolse l’elmo. Capelli rossi ondulati si liberarono cadendo morbidamente sui copri spalle, due occhi verdi e luminosi si accesero in un viso delicato, dall’incarnato chiaro e dai lineamenti morbidi e gentili. Mai tanta bellezza era loro apparsa prima di allora e in quella notte tetra la luminosità di quel volto li colpì oltre ogni dire.
"Una fanciulla…" disse Kyriakos stupefatto.
"Non credevo che tra i servitori del nemico potessero esserci anche delle ragazze." fu il commento di Plistene, alla pari sorpreso e sconcertato.
Ella si avvicinò con un fare aggraziato che strideva con le sembianze cupe e aggressive della corazza. Li osservò per un attimo poi, con occhi ridenti, un largo sorriso e con voce melodiosa, quasi due nature fossero presenti in lei, articolò parole che i due cavalieri di Atena mai avrebbero creduto poter esser proferite da lei.
"Aletto è il mio nome, della Stella del Cielo Assassino, dell’immortale Idra che infuria nel Tartaro incarno le sembianze e indosso le vestigia. Se avete senno e se non volete che sia fatto strazio delle vostre membra, fuggite d’innanzi a me o di voi non rimarrà che il ricordo."
Plistene, con la calma che gli era propria, si avvicinò e replicò a tono: "Non essere così avventata nelle tue dichiarazioni. Altri prima di te sono caduti per mano dei Cavalieri di Atena, tanto in questa quanto nelle passate guerre sacre…"
Non riuscì a terminare la frase che, con uno scatto fulmineo, la ragazza gli fu addosso e strinse con una mano il suo collo. "Attento Plistene!" aveva vanamente gridato Kyriakos, stupefatto da come l’allievo era stato sorpreso, cosa non certo da lui.
Nel frattempo Aletto aveva piantato i suoi occhi in quelli del Cavaliere di Virgo: "E tu speri davvero di avere delle speranze contro di me? Lo volessi, a questo punto ti avrei già atterrato e colpito ripetutamente. Vanti le imprese dei prodi di Atena ma a me pare tu sia rapido solo nel narrare e assai lento all’azione."
Il suo tono si era fatto appena più aspro, ma la sua voce restava, al di là di tutto una dolce melodia.
Plistene sollevò la destra e, delicatamente, si liberò della presa, staccando quelle candide dita che si serravano sulla sua gola, senza distaccare lo sguardo da quegli occhi verdi che lo fissavano da presso. "Se lo volessi, Spettro di Ade, non sarei restato impassibile al tuo attacco. Se l’ho fatto, è stato per avvertirti e metterti in guardia. Non sfidare la sorte con due Cavalieri d’Oro, ne saresti sopraffatta."
"Ti lascio alla tua illusione." rispose passandosi una mano nei capelli, mentre un profumo delicato di liberava nell’aria.
In quel mentre altri cosmi, a decine, si manifestarono poco distante. Kyriakos guardò in direzione dell’altura, preoccupato. "L’orda del Tartaro si sta riversando sulla città…" mormorò.
"Non sbagli, uomo." disse Aletto. "Tra un po’ di Eleusi non rimarrà che il ricordo. Poi la nostra armata punterà dritta sul Santuario di Atene. Stasera Ade si godrà il suo trionfo. Non opponetevi, abbandonate la lotta. Siete troppo pochi per fermarci e per di più divisi. Siete stati avventati e ora ne pagate le conseguenze. Vogliate accogliere il mio magnanimo consiglio e forse, a guerra finita, Ade deciderà di ricompensarvi."
"Taci, demone!" ruggì Kyriakos "Non ti permettere di proporci patti con chi vuole distruggere la terra e far strage di uomini."
"Siete voi, con la vostra sciocca resistenza, a costringerci a questo, non lo capisci? Colpiamo i vostri simili, i più deboli, perché questo vi sconvolge, vi costringe ad intervenire per difenderli, vi divide, di rende deboli ai nostri successivi attacchi. Se non vi ostinaste tanto, risparmiereste loro tutto questo!"
Plistene si rese conto del momento difficile del proprio maestro, combattuto tra senso del dovere e desiderio di intervenire in favore dei propri concittadini. Lesse la sua angoscia e la sua disperazione, che le parole pesanti come macigni della loro nemica non facevano che acuire ulteriormente.
"Andate, maestro! Correte in difesa della città! La affronterò io."
"Nobile allievo…" mormorò "Stai in guardia, il suo cosmo è aggressivo ben al di là di quanto sembri. Ti aspetto al Santuario della Grande Madre."
Plistene annuì, tenendo d’occhio il nemico, mentre il maestro spariva nelle tenebre. Con suo stupore Aletto parve disinteressata a seguire Kyriakos.
"Perché non hai cercato di fermarlo?" chiese.
Lei rispose allargando un sorriso luminoso: "Sei davvero uno sciocco. Se avevate poche speranze affrontandomi in due, quante speri di averne tu da solo? E quante credi ne abbia Kyriakos, che ti compiaci di chiamare maestro, contro l’armata di Ade, da solo? Lo hai mandato a morire, condannando nel contempo te stesso."
"Lo vedremo!" disse Plistene ma un dubbio si allargò nel suo cuore. Egli poteva certo tener testa a uno Spettro, per forte potesse essere, però Kyriakos ne avrebbe dovuti fronteggiare a decine. Era stato uno stupido. Si ricordò delle parole che aveva rivolto al maestro quando si erano incontrati, poche ore prima, sulla via di Eleusi. Gli suonavano ora beffarde. Davvero il Fato sapeva sconvolgere gli eventi in modo imprevedibile, vanificando i buoni propositi, le intenzioni e i progetti, per ponderati e prudenti che fossero. O forse era inevitabile che tutto finisse così, forse davvero la strategia con la quale avevano impostato la guerra era perdente ed ora, stanchi e divisi, erano destinati a cadere per mano dei nemici. In quel mentre il cosmo di Aletto divampò, forte e violento. Egli diede fondo al suo, ma si rese conto solo in quel momento di non poter disporre di energie fresche: la traversata via mare e la lunga corsa nella notte precedente avevano lasciato il segno. Ricordò in quel momento uno dei primi insegnamenti di Kyriakos: per quanto potere, per quanta forza egli avesse imparato a padroneggiare e a sviluppare, la sua natura sarebbe restata sempre quella di un uomo. Simile più a un semidio, per certi versi, ma pur sempre un uomo. In quel momento sperimentò a pieno la veridicità di quelle parole, nel mentre si accingeva, lo intuiva, a sostenere una delle battaglia più difficili della sua carriera.
Aletto si era rimessa l’elmo e un’ombra era calata sul suo viso. Per un attimo i due restarono a guardarsi, senza muoversi, senza proferir parola, quasi senza respirare. La pioggia non era calata d’intensità e tintinnava sulla armature e pareva essere l’unica cosa viva in attesa che qualcosa accadesse. E infatti qualcosa accadde.