X

 

I pescatori, fino a quel momento chini sulle loro reti e intenti a riporre il pescato in ceste di vimini, alzarono gli occhi ai nuovi venuti. Pure un uomo anziano, la pelle scura arsa dal sole e dal sale, intento a cuocere alcuni pesci, posò il suo sguardo indagatore sui due che stavano scendendo dall’imbarcazione. Fu forse il profumo intenso delle carni che arrostivano, o la spessa coltre di fumo che, portata dal vento, a volte l’avvolgeva, ad attirare su di lui l’attenzione del primo dei nuovi venuti quando pose piede sulla spiaggia di sabbia e sassi neri e grigi.

"Adrasto!" esclamò "Sì, sei proprio tu." Tra i pescatori si alzò un mormorio.

Il vecchio, con una smorfia che poteva essere un sorriso, lo apostrofò così: "Gli anni passano ma vedo che la memoria non ti tradisce, piccola canaglia! Dove diavolo sei stato tutto questo tempo? Mi raccontarono che te ne eri andato in Attica e da allora non ti si è più visto."

"Ti hanno detto il vero. Sono stato per anni in Attica, ad Atene."

"E da ladro cosa sei mai diventato? Un oplita? E ben pagato per di più, sembrerebbe, al vedere i tuoi schinieri dorati." disse accennando all’equipaggiamento che il lungo mantello lasciava intravedere."

"Per gli dei, chi è costui? Lo conosci Adrasto?" fece uno dei pescatori con gli occhi colmi di sorpresa.
L’oplita avanzò tra le barche tirate in secco fino a trovarsi di fronte al vecchio: "Ladro io? Il pesce che prelevavo dalla tua barca era solo un prestito, lo sai bene." disse ridendo.

"Oh certo, piccolo furfante! Le lische infatti poi me le restituivi tutte! Ma la pancia piena era la tua e quella degli altri piccoli furfanti. Vi mandavano qui per aiutarci a districare le reti e a ripararle e ve ne approfittavate per riempirvi la pancia!"

"Questi soldati sono forse dei nostri compatrioti, buon Adrasto?" fece un altro giovane.

"Questo qui, sì. L’altro non l’ho mai visto, almeno così mi pare. Fatti vedere, ragazzo." L’uomo dai lineamenti sottili si avvicinò e il pescatore parve esaminarlo con cura quando improvvisamente proruppe con un: "Odisseo!!!"

Qualcuno tra gli astanti si stava già chiedendo se quello fosse davvero l’eroe del mito e in molti avevano gli occhi sbarrati dallo stupore. L’esaminato, dal canto suo, era non meno sorpreso. Ora però Adrasto si era girato di scatto e urlava come un ossesso: "Odisseo, bestiaccia, posa subito quel pesce!" all’indirizzo di un grosso gatto nero dagli occhi color smeraldo che se la stava filando con un pesce di modeste dimensioni.

L’oplita non riuscì a trattenere una risata: "Adrasto, un tempo eravamo noi ragazzi ad infastidirti, ora sono i gatti ad averci rimpiazzato. Forse che ora lo inseguirai come facevi con noi? Non hai più l’età per queste cose."

"Per gli dei!" fece il vecchio "Non so se mi sia più odioso quell’astuto demonio di Odisseo che, nonostante gli regali tutti gli avanzi, prende sempre più del dovuto, o l’essere preso in giro da un furbastro approfittatore come te." Poi addolcendosi all’improvviso: "Ora lascia che ti abbracci. Mi sei mancato, Archita."

"Pure tu mi sei mancato, mio saggio zio."

"Dimmi, ragazzo, come mai ti fai vivo dopo anni, così all’improvviso? E chi è il tuo compagno?"

"Il mio nome è Anassilao, vengo da Naxos." fece l’altro.

"Pure tu un oplita? E quale tiranno può permettersi delle corazze tanto splendenti come le vostre? Certo devi aver fatto fortuna!"

Pensare ad Atena che veniva associata a un tiranno strappò un sorriso ai due cavalieri. Archita disse: "Nessuno tiranno, Adrasto. Quanto alla fortuna, quella sì, direi che ci ha arriso, anche se non nella maniera che intendi tu. E pure se fai fatica a crederlo credo noi ci si possa sentire assai più ricchi che se uno dei tiranni ci avesse assoldato ricoprendoci d’oro. Ci sono ricchezze che saziano gli appetiti, che ci aiutano a toglierci numerose soddisfazioni, che ci permettono di circondarci di beni e persone, ancorché adulanti e ipocrite, ma ci sono ricchezze assai più grandi, che saziano la mente e lo spirito. Di queste noi siamo stati beneficiati."

"Ho capito, ho capito." fece il vecchio brusco "Non vedrò una dracma. Per il possente Poseidone, ho un nipote che scompare per anni e quando riappare e speri che porti ricchezze… Niente! Bhè, almeno hai portato a casa la pelle e su una barca voi giovani e forti saprete senz’altro guadagnarvi la pagnotta e sarà sempre meno rischioso che stringersi a falange."

"Veramente non siamo qui per restare, Adrasto." Poi, manifestando preoccupazione, Archita proseguì: "Ascolta, zio, mi devi dire se negli ultimi giorni sono accaduti dei fatti spiacevoli, se qualcosa che vi ha turbato…"

"Qualcosa che possa essere segnale che gli dei sono adirati con l’isola o con i suoi abitanti." Si intromise Anassilao volendo restare il più vago possibile.

"Che Zeus Tonante ci protegga!" fece il vecchio e i pescatori cominciarono a parlottare fitto tra di loro e in quel momento, scrutando i loro volti, i cavalieri lessero nei loro occhi una paura recente.

Adrasto guardò il mare, poi il profilo dell’isola e storse la bocca. "Se ondate improvvise, strani brontolii dentro la montagna, rumori di pietre che rotolano nella notte vi sembrano segnali che gli dei sono adirati, allora sì. Oggi siamo tornati alla pesca dopo giorni di angoscia e paura. Poseidone dev’essere in collera per scuotere così tutta l’isola."

I cavalieri si diedero una rapida occhiata. "C’è altro?" disse Archita.

"No" rispose Adrasto "ma ora vai a trovare i tuoi parenti. E passa dai miei figli, ti rivedranno volentieri."
"Perché non sono qui?"

"Hanno rischiato di affogare quando il mare si è ingrossato l’ultima volta e la loro barca si è sfracellata sugli scogli."

"Archita" disse Anassilao con pacatezza "se lo desideri visita pure il tuo villaggio, il resto dell’isola lo ispezionerò io." Avuto un gesto d’intesa e congedatosi dai presenti si allontanò a passo svelto.

La giornata si annunciava afosa e i raggi del sole cominciavano a farsi sempre più caldi. Vicino al fuoco scoppiettante era riapparso il grosso gatto chiamato Odisseo che sembrava reclamare una nuova preda. Il nipote stava raccontando allo zio di Atene e gli astanti non si perdevano una parola. La maggior parte di quei pescatori non era mai sbarcata sulla terraferma. Il loro mondo, il loro universo, si sarebbe detto, era costituito dalle Cicladi.

D’improvviso Odisseo il gatto si mise a soffiare e il pelo gli si rizzò. Quasi contemporaneamente Archita ebbe un oscuro presagio e un brivido gli corse giù per la schiena. Nel frattempo il felino aveva abbandonato gli avanzi di pesce ed era sparito correndo verso la montagna. "Oh grande Poseidon!" fece una voce e poi molti dei pescatori cominciarono a fuggire dalla battigia. Coloro che si trovavano ancora sulle barche, nei pressi del bagnasciuga, si tuffavano cercando di raggiungere la terraferma a nuoto. Coloro che invece stavano rientrando verso il porticciolo si gettavano urlanti e terrorizzati su remi e pertiche per guadagnare l’attracco il più presto possibile. Archita fu colpito da un uomo corpulento che quasi lo travolse nella fuga e nel contempo udì suo zio gridare. "Accade di nuovo! Presto fuggite! Il mare scatena la sua ira!" Il suo sguardo puntò Adrasto e poi spaziò oltre, verso il mare racchiuso nell’abbraccio di Thera, e stentò a credere ai suoi occhi. La superficie del mare si stava visibilmente sollevando a formare un’onda che ora puntava veloce verso la costa mentre un rumore sordo, che pareva provenire dalle viscere della terra, scuoteva tutto l’arcipelago.

"Fuggiamo, Archita!" gridò Adrasto con il terrore negli occhi.

L’uomo però non si muoveva. Urlò per sovrastare il boato e le grida di panico: "I pescatori sulle barche non ce la faranno a fuggire, l’onda li travolgerà. Scappa, zio, io resto."

Il vecchio, terreo in volto trovò la forza di arrestarsi un attimo e gridare a sua volta. "Nipote, il mare ti inghiottirà, sei forse impazzito? Vieni via!"

Nel frattempo quasi tutte le imbarcazioni avevano raggiunto la riva e pescatori urlanti e tremanti, che si muovevano con foga e disperazione, stavano cercando di guadagnare la salvezza. Ma pareva ormai troppo tardi, l’onda si era ingrossata avvicinandosi alla costa e ora incombeva sugli sventurati. Archita con un balzo si lanciò in acqua mentre alcuni uomini come impazziti gli passavano a fianco fuggendo in direzione opposta. Adrasto vide il nipote spalancare le braccia e, non credeva ai suoi occhi, una luce dorata che si sprigionava dal suo corpo. L’orrore di quella visione, del nipote e dell’immensa onda lo inchiodò al suolo e rimase lì, in attesa della fine.
"Muro di Cristallo!" urlò con forza Archita poco prima che l’onda lo colpisse. Uno strano riflesso balenò di fronte a lui, si estese alla sua destra e alla sua sinistra e l’acqua sembrò scontrarsi con un’invisibile barriera, che arrestò la furia dell’onda che mugghiò in modo sordo e sinistro. Poi la forza delle acque, erodendolo dal basso, si aprì un varco oltre quel muro e Archita di Thera venne proiettato all’indietro, sempre tenendo le braccia spalancate. Il mare lo travolse, così come gli altri fuggenti, ma ormai la forza dell’ondata era pressoché esaurita e dopo qualche secondo le acque si ritirarono lasciando persone che tossivano e barcollavano mentre si rialzavano zuppe, con il terrore ancora negli occhi.

Adrasto si guardò attorno sbigottito. Tra le molte persone lo colpì la sagoma rilucente d’oro che si stava or ora rialzando. Una corazza dorata e rilucente rivestiva suo nipote Archita il quale, fatti pochi passi, stava raccogliendo il suo mantello.

"State tutti bene?" gridò il giovane. Per un attimo fu il silenzio poi alcuni cominciarono ad inneggiare alla clemenza degli dei che li aveva salvati.

"Tutto a posto zio?" disse Archita, ora completamente padrone di sè.

Il vecchio pescatore rispose tremante: "Stiamo bene ed è un prodigio… Non gli dei, ma tu ci hai salvati… nipote… tu… chi sei?"

Il giovane sorrise e disse pacatamente: "Sono tuo nipote, Archita di Thera, cavaliere di Aries."
"Tu hai compiuto un prodigio… sei forse diventato… divino?

"Ti debbo una spiegazione, Adrasto." rispose sorridendo "Sappi che non sono affatto diventato un semidio, sono solo una piccola canaglia che rubava del pesce allo zio e che ha avuto l’enorme fortuna di incontrare sulla sua via qualcuno che gliel’ha illuminata. Ti racconterò presto come avvenne. Ora però pensiamo agli altri."


Su un’altra isola, molto più a nord, un terzetto di cavalieri era sbarcato da poco e si stava guardando attorno con aria circospetta. La bellissima spiaggia sulla quale erano approdati, la limpidezza della acque e il cielo terso non bastavano a trasmettere loro quella gioia e quella serenità che avrebbero dato ad un altro viaggiatore che avesse avuto la ventura di porre piede su quei lidi.

"La bellezza può ingannare, può celare tranelli e indurci alla rovina, come ben insegnano i miti." disse Plistene con tono grave.

Callimaco si guardò attorno ancora un po’ e poi aggiunse. "Allora facciamo in modo da non farci ingannare dalle apparenze e di non finire come i compagni di Odisseo al cospetto di Circe, ma cerchiamo di essere piuttosto avveduti come lo stesso figlio di Laerte quando si imbatté nelle Sirene. L’insidia può essere dietro l’angolo."

"Se serve qualcuno che ti trattenga, Callimaco, ci penserò io." fece con tono leggero Lisandro. Il gemello sembrava non perdere mai il suo buon umore. A prima vista il suo atteggiamento sarebbe potuto apparire fuori luogo in quel frangente, tuttavia, al di là del suo modo di porsi lieve e scanzonato, il giovane era molto riflessivo e posato, come ci si sarebbe in effetti aspettati da un allievo di Archita.

"Chissà che starà facendo il maestro." mormorò.

Nell’udire quelle parole Plistene portò la mano alla corazza e fece apparire il rosario che aveva ricevuto in dono dalla dea e cadenzando bene le parole disse: "Sembra che la battaglia sia iniziata, amici. Guardate."

Gli occhi di Lisandro e Callimaco si posarono sul rosario e videro che alcune delle perle, da color ambra, si erano fatte scure, d’una tinta violacea.

"Alcuni degli Spettri di Ade hanno cominciato a cadere, questo vuol dire che i nostri compagni già si misurano con il nemico. Potrebbe toccare presto pure a noi." disse Plistene.

"Qui però non si avverte nessuna minaccia." replicò Callimaco.

"Per ora. Dovremo setacciare l’isola." aggiunse Lisandro "Pensate che sia conveniente separarci?"

"Questo ci farebbe guadagnare tempo." fu la risposta di Plistene.

"E allora sia!" disse sicuro Callimaco "E vediamo se Limnos ospita davvero i servitori del nostro nemico. E in quel caso prepariamoci ad incrociare le armi con loro."

Plistene abbassò il capo pensoso, poi esordì dicendo: "Non sovviene anche a voi quale mito è legato a quest’isola?"

"Quale?" chiese Lisandro.

Plistene proseguì: "Si narra che qui Hera abbia precipitato Efesto bambino e che qui il dio abbia dimorato. Efesto, che secondo quanto ci è stato dato da intendere da parte di Atena, è colui che ha avuto una parte rilevante nella costruzione delle armature dei Cavalieri e in particolare nella forgiatura di alcune delle armi di cui essi si fregiano, ad esempio l’arco e la freccia di Sagitter, la spada Excalibur, le armi di Libra."

Lisandro sorrise: "Allora questa terra dovrebbe esserci propizia!"

"Speriamo lo sia." replicò Callimaco "Coraggio, non indugiamo oltre."

Poco dopo i tre si separavano e procedevano ognuno in direzioni diverse.


Il caldo cominciava a farsi sentire. Lo schiumare delle onde del mare era lontano e si udiva ormai solo il frinire delle cicale che copriva tutti gli altri rumori, fatto salvo quello dei passi del cavaliere che procedeva tra campi, sterpaglie e distese rocciose. Solo qualche piccola abitazione o qualche muro a secco in lontananza testimoniava che sull’isola vi era presenza umana. Giunto ai piedi di un picco roccioso il giovane si arrestò un attimo e si tolse l’elmo. Il calore stava diventando insopportabile. Un rivolo d’acqua sgorgava dalla roccia e si depositava in una conca che mani umane avevano scavato e modellato. Callimaco sì chinò e bevette.

Il tempo sembrava essersi fermato, come se il meriggio dovesse durare per sempre, tra il canto delle cicale, l’arsura del sole e l’apparente immobilità di flora e fauna. D’un tratto qualcosa attraversò la mente del ragazzo. Un’ombra oscura, su di lui. D’istinto schizzò verso l’alto e vide qualcosa calare sopra il bacino dove poco prima aveva bevuto e mandarlo in pezzi mentre l’acqua gorgogliava disperdendosi sul terreno riarso.

"Perché non sei rimasto immobile, cavaliere? La tua testa sarebbe stata un bellissimo trofeo!" disse con voce rude un gigante di quasi due metri coperto da una surplice nera come la notte.

Senza scomporsi troppo Callimaco rispose: "Approfittare di qualcuno e coglierlo alle spalle non è un comportamento molto leale. Ma potevo aspettarmi un diverso modo di agire da un immondo servitore di Ade? E’ stata mia l’imprudenza, avrei dovuto avvertire la tua presenza già da un po’."

Il gigante rise: "Il tuo misero cosmo non ti avrebbe permesso di sentirmi arrivare dal momento che mi celavo nelle profondità della terra! Peccato, l’agguato era quasi riuscito. Ora però il tuo elmo è mio e tra un po’ lo sarà pure il resto della tua armatura, visto che a chi prende la via degli Inferi essa non serve più."

"Perché invece non togli il tuo, che veda il tuo volto, prima di darti l’addio!" replicò il cavaliere.

"Ti accontento subito!" e così dicendo si tolse l’elmo mostrando il suo volto dai lineamenti duri e capelli neri come la sua corazza. "E perché tu non dica che noi Spettri di Ade siamo dei vigliacchi ti affronterò senza indossarlo, tanto l’esito dello scontro è già segnato. Non possono che cadere le teste di chi ha la sventura di imbattersi in Gorgia del Minotauro, Stella del Cielo Prigioniero."

Il cavaliere di Atena guardò la fenditura nella roccia e poi si rivolse al suo avversario. "E così, Gorgia, saresti solito menar fendenti?"

" La Grande Ascia non lascia scampo, povero sventurato!"

"Ebbene, sappi allora che Callimaco, cavaliere di Capricorn, custodisce Excalibur. Vedremo presto qual è la lama più affilata."

Nel sentire pronunciare quel nome il demone si adombrò un poco, ma subito dopo rinnovava la sfida. "Fatti avanti, soldato di Atena! Scopriremo presto se la tua spada è affilata come dicono."

Callimaco si preparò allo scontro. Per quanto potesse sembrare strano, quasi ridicolo, si sarebbe confrontato con un servitore del signore degli Inferi in pieno giorno, sotto un sole cocente. Per di più si sarebbe misurato con chi padroneggiava una tecnica assai simile alla sua. Il momento di far tesoro di quanto appreso al Santuario era dunque giunto.

"Grande Ascia!" Il colpo del demone arrivò con una velocità impressionante. Sottili linee blu si allargarono verso di lui, ma con un salto il cavaliere d’oro le evitò. Aveva appena toccato terra quando un altro fendente calò verso di lui. Saettò di lato mentre la terra di apriva con fragore.

"Non mi sfuggirai per sempre! Grande ascia!" urlò Gorgia. Un grosso ulivo si schiantò, mentre Callimaco balzava alcun metri più indietro. "E’ velocissimo, sta cercando di stancarmi." Pensò il ragazzo. Poi rivolto all’avversario: "Volevi misurarti con la sacra spada della dea Atena? Ti accontento subito. Excalibur!"

Il fendente dorato tagliò l’aria in direzione di Gorgia che però all’ultimo sembrò sparire. Con una rapidità impressionante aveva infatti scansato il colpo proprio all’ultimo.

"Sei sorpreso?" ghignò lo Spettro.

"Affatto!" rispose Callimaco ma era evidente che mentiva.

"Se vuoi vincermi dovrai misurarti in un combattimento ravvicinato. Così!" Gorgia balzò in avanti e tutta la sua mole piombò su Callimaco che fece appena in tempo a incrociare le braccia sopra a testa. Il braccio teso dell’avversario si abbatté sugli avambracci ed egli sentì le ossa scricchiolare. Poi le ginocchia cedettero e si ritrovò a terra con il peso del nemico che lo schiacciava.

"Sei già finito, miserabile. La tua spada sarà anche un’arma micidiale ma difetta di forza e peso nell’attacco. Una buona lama non basta se non le si sa imprimere l’energia necessaria. Ad ogni modo diventerà anch’essa un bel trofeo da esibire al mio signore." E con rapidità fece cadere un altro fendente sulle braccia del cavaliere.

Callimaco era gravato dal peso di quell’attacco e dalla mole dello Spettro, ma soprattutto erano le sue certezze a vacillare. Ma come, lui, che si era guadagnato la stima della dea fino ad essere degno della sacra spada, era ora in balia di un avversario che non gli dava il tempo né di sferrare un attacco degno di chiamarsi tale né quello di replicare alla sua boria? Cosa avrebbe detto di lui Policrate se si fosse trovato lì? E Atena? Ripensò al giorno in cui la dea gli aveva consegnato Excalibur e l’immagine del volto sorridente della ragazza e quello compiaciuto del maestro rinnovò il suo ardore e diede nuova linfa alla sua determinazione.

"Gorgia del Minotauro!" disse deciso "Dici che serve più forza nell’affondare i colpi? Ebbene, ti dimostrerò che forse le cose non stanno esattamente così."

"Ridicolo. Nell’attacco ravvicinato l’efficacia del tuo attacco diminuisce. Perché mai credi che ti abbi spronato ad avvicinarti?"

"Dunque prima mentivi, maledetto?"

Gorgia mostrò un sorriso sinistro: "Certo che mentivo. Ma non credere che attaccandomi da lontano ti sarebbe stato facile vincermi. Certo, Excalibur può infrangere la mia surplice, ma io sono uno tra i più veloci nell’esercito di Ade e colpirmi sarebbe stata dura impresa. Ora però…" e così dicendo sferrò un altro colpo al cavaliere che inchiodato a terra non riusciva a divincolarsi "sei costretto a subire passivamente. Prima ballavi come un dannato, ora sei come una pietra piantata per terra che la forza della mia ascia sgretolerà poco a poco."

"Staremo a vedere!" L’armatura del Capricorno avvampò di luce dorata e Callimaco, facendo forza sulle ginocchia, riguadagnò la posizione eretta.

Gorgia tuttavia non si fece sorprendere e sferrò un rapido colpo al fianco sinistro del cavaliere, che si piegò per il dolore, ma fu solo un attimo perché con il braccio destro portò un attacco all’avversario colpendolo all’addome, anche se solo di striscio.

"Sei troppo lento, cavaliere di Atena."

E assestò un nuovo colpo, mirando alla testa. Stavolta però fu il giovane di Corinto a stupirlo per la sua rapidità e Gorgia si trovò sbilanciato in avanti con il braccio a fendere terra e ghiaia.

"Sono some un pietra piantata a terra, così dicevi poco fa, vero?" disse ora sicuro il cavaliere portandosi rapidamente dietro di lui.

"Stolto! Dovevi approfittarne per allontanarti, non sarai così fortunato questa volta!" fu la risposta del gigante che si girò fulmineo pronto per calare una nuova mazzata. Callimaco però si chinò in avanti e, rotolando sulla schiena, passò rapido tra le gambe del proprio nemico e, da lì, con la massima spinta si elevò dietro di lui, agganciandolo con i piedi sotto i coprispalla. Gorgia, con orrore, si sentì sollevare. Stentava a credere a ciò che stava accadendo. Poi d’un tratto, con uno slancio della gamba sinistra, Callimaco completò l’azione proiettandolo verso l’alto.

"Salto di Capricorn!" fu il grido che risuonò nell’aria.

Gorgia volò alto, poi cominciò a ricadere e con orrore vide che Callimaco, sotto di lui, si preparava per l’attacco definitivo.

"Dovevo mettere distanza tra me e te, ricordi? Credo che questa sia sufficiente. Excalibur, colpisci!"
Lampi di luce proruppero dalla sua mano destra e investirono lo Spettro che, cadendo, non ebbe la minima possibilità di evitarli. Poco dopo rovinò a terra mentre la surplice andava in pezzi, tagliata in più punti dalla sacra spada. La terra si arrossò del sangue di Gorgia che, faccia riversa al suolo, riuscì a dire, prima di spirare: "La Grande Ascia… la mia rapidità… perché ho fallito? Tu… dannato… mi hai giocato…"

Callimaco si era portato nei pressi dell’acqua gorgogliante e stava raccogliendo il suo elmo. Voltandosi verso il luogo dove giaceva l’avversario disse: "Non ti ho giocato. Semplicemente mi hai dato l’occasione di portare a compimento un colpo che io e il maestro stavamo studiando da tempo. Siamo soliti utilizzare una tecnica d’attacco che mira a colpire da lontano e per questo motivo era necessario predisporre anche un colpo d’attacco fisico." Ripensò alla discussione avuta tempo prima all’arena di Atene, assieme all’amico Archelao, al di lui maestro Astylos e a Policrate. L’efficacia e i limiti dei colpi portati da lontano e quella dei colpi fisici. Dopo quella sera lui e Archelao avevano pensato e ripensato in quale modo potessero dare più efficacia alle loro azioni e i loro maestri si erano volentieri adoperati nel guidarli in questa ricerca.

"Sembra che ce l’abbia fatta, amico mio." pensò Callimaco.

Quello che ancora Callimaco non sapeva era che, seppure per vie e in forme diverse, anche Archelao aveva ormai ovviato al problema.


Un colpo di scudo raggiunse il guerriero in pieno volto e lo fece stramazzare a terra, poi un colpo energetico lo centrò all’addome. Un altro frattanto era alle prese con oscure presenze che gli danzavano
attorno per poi aggredirlo e farlo cadere, la corazza in pezzi.

"E questo dovrebbe essere l’ultimo." disse placido Plistene che pareva non aver compiuto il minimo sforzo per sostenere quell’attacco.

Lisandro appariva invece più provato, ma ciò era dovuto al fatto che per lui quello era il primo vero combattimento sul campo, anche se era durato ben poco. Sul suo volto fiero non vi era infatti un’eccessiva soddisfazione.

"Se questa è la potenza delle armate di Ade potremmo sgominare il suo esercito, oserei dire, quasi con facilità. Ma credo si tratti solo delle avanguardie, giusto?"

"Credo che sia così." fece Plistene meditabondo. "Tuttavia questi otto Spettri non possono essere coloro che ci hanno attratti qui. C’è qualcun altro, temo." Alzò gli occhi verso l’entroterra: "Callimaco…"

In quel mentre avvertirono provenire dalle colline al centro dell’isola un’esplosione cosmica.
"Non sarà…" fece Lisandro.

Plistene fissò il profilo delle colline. "Andiamo, presto. Sembra che la ricerca di Callimaco sia stata più fortunata della nostra."

"Speriamo che ne abbia lasciato qualcuno anche per noi." disse in un sussurro Lisandro.
Dietro di loro uno degli Spettri, non udito, mormorò agonizzante al loro indirizzo: "Correte, correte pure… arriverete comunque tardi dove c’è bisogno di voi."

Poco dopo, Lisandro e Plistene arrivarono sul luogo dove un nemico vinto giaceva e un amico li salutava, stanco ma soddisfatto.

"Sembra che abbiamo finito qui." disse Lisandro.

"Così pare." rispose Callimaco.

Plistene tuttavia era pensieroso: "Eppure non così dovrebbe essere. Cos’è che ci sfugge, amici?"
Tre sguardi si incrociarono, come a cercare delle risposte che non c’erano. Le cicale continuavano cantare, il sole splendeva alto.