Capitolo 49: Desideri e doveri
Le immense e verdi pianure delle Highlands erano solite essere calpestate dai possenti zoccoli di imperituri destrieri, cavalli al servizio di guerrieri, come anche di nobili, nei tempi antichi; ma vedere una donna avanzare salda sulla propria cavalcatura con un’abilità ormai persa nei tempi moderni, avrebbe di certo sbalordito qualunque inconsapevole osservatore che, ancora di più si sarebbe stupito nel veder scomparire da dinanzi ai propri occhi quell’abile cavallerizza.
Nessuno infatti, se non coloro capaci di avvertire la potenza del cosmo, era a conoscenza delle vie note ai guerrieri celti che in terra di Scozia avevano la loro patria. E proprio quella cavallerizza era una degli ultimi guerrieri celtici ancora vivi, era Rhiannon del Fico.
La Tree Monk aveva avvertito l’esplosione d’energia cosmica verificatasi prima nel lontano Oriente e poi, dopo alcune ore, anche nel più vicino Mediterraneo, lì dove una potenza senza pari stava lentamente risvegliandosi, una forza che la guerriera celtica mai aveva avvertito in vita sua, per maestosità, se non quando aveva avuto modo di avvertire i cosmi dei quattro Horsemen.
Rhiannon, dopo quasi un anno di pace, si era trovata impaurita, ma non per la vastità del cosmo che ora avvertiva, bensì per cosa ciò implicava: la necessità di guerrieri che affrontassero questa minaccia e già la celtica combattente sapeva che il suo unico compagno d’arme ancora vivo si sarebbe prontamente gettato nella mischia.
Proprio per dimostrare, o negare, tale certezza, la guerriera del Fico raggiunse il luogo in cui riposavano gli altri Tree Monks: lì, vicino alle tombe di nobili guerrieri quali Dagda, Nuada ed Ogma, erano state riposte le vestigia del Fico e del Nocciolo, ma, delle due, solo la prima si trovava ancora al suo posto.
"E’ partito dunque, s’è diretto verso un’altra battaglia…", fu l’unica cosa che la fanciulla poté dire al suo destriero, "spero solo che torni, così da potergli dire quanto è stato sciocco!", concluse fra se, sedendosi fra i sepolcri dei compagni caduti, in attesa di rivedere l’ultimo di loro, o di dare anche a questo l’estremo addio.
Taranis del Nocciolo era immobile dinanzi al nemico che aveva tanto apertamente sfidato, in attesa di vederne le reazioni e saggiarne le virtù belliche, prima di attaccarlo con le proprie, ma tutto ciò che il Tree Monk ottenne fu una risata di scherno da parte del figlio della Bestia.
"Dunque un piccolo ed insulso mortale vorrebbe vincere me? Ladone, il mitologico guardiano del Giardino delle Esperidi, dai dorati pomi! Quale sciocca superbia ha invaso di recente il genere umano per tentare tanto! No, cavaliere, non potrai fare niente più di ciò in cui già riuscirono i due feriti che vedi lì al suolo. Nemmeno vedermi ti sarà concesso!", concluse l’Essere del mito, espandendo il cosmo dorato, prima di scagliarlo con violenza contro il nemico.
Lesto il Signore delle Guerre celtiche si spostò sulla sua destra, evitando il primo attacco, ma già un secondo era in arrivo, un attacco che costrinse Taranis ad indietreggiare, per evitarlo, lasciando che si perdesse sulle macerie, lì, fra le profondità del continente di Mu.
"Sei sciocco se pensi che un simile attacco possa avere di me ragione. Ed ancora più lo sei se credi che quella luce che t’avvolge ti renda inarrivabile!", avvisò allora il guerriero celta, estraendo la frusta che già più e più volte aveva usato in battaglia, lanciandola prontamente contro la fonte di quella luce dorata.
L’arma sinuosa volò fino alla proprio meta e ben presto, il sordo rumore della frusta che s’avvolgeva a qualcosa lasciò intuire come il bersaglio fosse stato raggiunto. Ma, quando Taranis tirò a se l’avversario, non ricevette alcuna risposta: nemmeno la sua pronta forza riusciva ad aver ragione del Mitologico Guardiano, che pareva immobile, come piantato al suolo… cosa che ben presto tutti avrebbero visto corrispondere a verità.
Un bagliore avvolse infatti la frusta, simile al ramo di un albero che si piegava, come soggetto ad una volontà propria, avvinghiandosi a ciò che gli è prossimo e tale presa fu talmente forte e formidabile, che il Tree Monk del Nocciolo non poté far altro che venirne travolto, oltrepassando la barriera di luce e scontrandosi con ciò che questa nascondeva.
Stupefatti furono tutti nel vedere dopo pochi attimi, il guerriero celtico ricadere a terra, con la frusta spezzata nelle mani e l’elmo danneggiato in più punti, ma, il loro stupore, come pure Taranis ben presto capì, era dovuto al fautore di tali ferite, ciò che si nascondeva dietro la luce, anzi, più precisamente, ciò che generava quella luce: un albero d’oro.
"Ma questo cosa…?", si domandò Helyss stupita, interpretando anche il pensiero dei suoi compagni, mentre osservava quello che, all’occhio di un esperto, sarebbe risultato un melo completamente fatto d’oro, dalla corteccia fino all’ultima delle sue foglie, tutto dorato, se non per due vuote pupille che s’intravedevano fra le fronde più alte.
"Non conosci forse, piccola seguace di divinità minori, il Mito delle Esperidi e la bellezza dei suoi alberi d’oro? Di quei luoghi ero custode e di quei luoghi sono ormai l’ultima reminiscenza, oltre che il portatore dell’antico e dorato germe di meli sacri ad una divinità infima come Era." , esordì una voce, celata dal tronco splendente. "Questa è la difesa ultima di cui sono dotato, l’Albero d’Oro, una protezione che perfettamente si confà alla mia natura divina, io, che un tempo ero dotato di un corpo resistente alla forza d’ogni misero uomo mortale…", spiegò con tono soddisfatto Ladone che, ormai era chiaro a tutti, si celava dietro quella magnifica barriera a forma di Melo.
"Belle parole le tue, mostro ellenico, ma davvero pensi che quella difesa sia sufficiente ad impedirmi di abbatterti? Sul serio credi che possa bastare così poco per vincermi? Ebbene, ora avrai modo di provare su di te la potenza delle restanti quattro armi del Signore della Guerra!", avvisò Taranis, ormai rialzatosi e già pronto ad attaccare con l’argentea sfera chiodata.
"Fatti pure avanti, mortale, scoprirai a tue spese quanto sia inutile cercare di abbattermi con queste tattiche!", replicò baldanzoso il figlio di Tifone, mentre già il suo avversario partiva alla carica. Con rapidità Taranis si spostò sulla destra del nemico, roteando prontamente la sfera chiodata, prima di lanciarla contro la barriera difensiva del mostro che, inamovibile, nemmeno evitò il colpo, poiché questo presto cozzò contro la corteccia dorata, ma non ne fu sbalzato, bensì, il guerriero celtico vide la sua stessa arma caricarsi del luminoso cosmo avverso, prima che, come un proiettile impazzito, la stessa si scagliasse contro di lui.
Taranis dovette prontamente abbandonare la presa sul proprio strumento di battaglie, che rapido si scagliò contro di lui, guidato dall’esterna volontà del figlio di Tifone, "Stai attento alle armi che usi su di me, cavaliere!", lo derise divertito Ladone, mentre gli altri osservavano il Signore della Guerra fronteggiare una sua stessa arma.
Prontamente il guerriero celtico s’abbassò, evitando una spazzata della sfera chiodata, scartando poi di lato, per impedire che il manico lo colpisse, ma ciò non bastò: ben presto l’arma roteò su se stessa, cambiando nuovamente traiettoria, dirigendosi verso il suo bersaglio e padrone, pronta a colpire il volto del Tree Monk con indicibile potenza.
Fu allora che Taranis sollevò il proprio scudo, estraendolo con indescrivibile prontezza, ma, quando già la difesa pareva aver effetto, il guerriero sacro alle divinità della Scozia avvertì un cosmo estraneo invadere persino la sua difesa ultima, così, con un gesto rapido, chinò di lato lo scudo, piegando l’intero corpo verso sinistra, lasciando che la sfera chiodata trovasse un foro in quella tattica in cui passare, uno spazio che prontamente il Signore delle Guerre utilizzò per colpire con un possente pugno la propria arma, allontanandola.
"Non basta ancora, misero uomo, non con così poco si spezza la potenza del mio cosmo!", lo ammonì il mitologico guardiano, mentre ancora la sfera tornava a colpire; questa volta, però, Taranis non scelse per se la fuga, bensì si alzò in piedi, apparentemente pronto a subire l’attacco della propria arma.
"Che vuole fare?", esclamò stupito Bifrost, che ben conosceva il valore di quel guerriero, ma non ne capiva le azioni attuali, "Allontanati, guerriero celtico, presto!", urlò il God Warrior, mentre ancora restava vicino al proprio sovrano.
Inutili furono però quelle parole, Taranis non mosse il proprio corpo, solo la mano destra scattò lesta in avanti, stringendosi con determinazione attorno alla sfera chiodata, chiudendosi a pugno, tanto da bloccarne la corsa, mentre lo stesso Tree Monk, indietreggiava, fronteggiando la volontà insita in quel cosmo dorato a lui nemico.
"Sei un valoroso, mortale!", esclamò divertita la voce del suo avversario, "Mai avevo conosciuto qualcuno così pazzo da tentare di fermarmi con il solo uso della forza bruta, se non quel vile di Eracle, ma egli era un essere divino, poteva permettersi di tentare tanto… tu, al contrario, sei carne e sangue mortale, niente più che una libagione ai miei occhi." , avvisò Ladone, mentre già il dorato cosmo diventava incendiario attorno alla sfera chiodata, brillando sempre più intenso.
Un urlo di dolore scaturì, in tutta risposta, da Taranis, mentre, con uno sforzo infinito, frantumava la sfera chiodata, lasciando che il cosmo nemico l’abbandonasse, per poi far scivolare la propria mano, tumefatta, sul fianco del corpo.
"Incredibile, costui ha avuto il coraggio di distruggere la propria arma al fine di vincere quel nemico… è di certo un valoroso", osservò stupefatto Blat, guerriero oscuro, che ben comprendeva quale terribile peso, anche spirituale, fosse la perdita di un’arma che tante volte era stata compagnia in battaglia.
"Dici bene, Generale Oscuro, egli è un valoroso." , confermò Whinga, indebolito dal precedente confronto, ma ancora cosciente di cosa avveniva attorno a lui, mentre persino Shandowse era immobile ad osservare in silenzio la battaglia.
"Ebbene, guerriero celtico, ora che hai spezzato il mio legame con quella tua arma cosa farai? Andrai avanti a danneggiare le tue stesse vestigia in un’inutile battaglia contro di me?", domandò indispettito Ladone, mentre già Taranis, incurante delle sue parole, sollevava con il braccio sinistro la clava d’argento che gli era propria. "Andare avanti in questa battaglia? No, mostro ellenico, ho intenzione di concluderla con il prossimo attacco!", minacciò il guerriero celtico, mentre già il maglio argenteo brillava del cosmo del Nocciolo, diretto contro il dorato bersaglio.
"Clava Dilaniante!", urlò con tutta la voce che aveva in corpo il Tree Monk, mentre già l’energia cosmica di Taranis cozzava contro la corteccia dell’estrema difesa di Ladone, provocando una serie di bagliori contrastanti che, ben presto, accecarono tutti i presenti, guerriero celtico compreso.
Avvenne tutto in un attimo, poi, il Signore delle Guerre non vide più nulla, se non la luce che lo investiva, sentì una lieve fitta al petto per alcuni secondi, ma fu qualcosa di sfuggente, come tutto il resto, persino il peso della mazza che cozzava contro la difesa nemica era venuto meno: tutto era più leggero, finché la luce non si diradò.
Taranis si ritrovò privo d’armatura, senza più nemmeno una ferita, né tanto meno il proprio nemico, o coloro che era andato ad aiutare attorno a lui, era da solo in un luogo a lui ignoto.
Si guardò per alcuni attimi intorno li guerriero celtico, cercando qualcosa di noto, ma vedeva solo una sottile nebbia, salire dai suoi piedi, mentre un’immensa e bianca atmosfera lo circondava… una stanza bianca e senza fine pareva essere il luogo in cui si trovava.
"Dove sono? Che cos’è successo?", si chiese titubante il guerriero, mentre comprendeva che difficilmente avrebbe avuto risposta a quella domanda.
"Hai compiuto una scelta, Signore delle Guerre, hai scelto ciò che volevi…", esordì una voce alle sue spalle, mentre il celtico guerriero si voltava, trovandosi dinanzi a chi mai avrebbe creduto di rivedere: Gwyddyon del Tiglio.
"Gwyddyon, saggio Mago, come può essere che io ora ti veda? Sono forse morto?", domandò titubante Taranis, "Tu che ne pensi, gigante? Credi d’essere morto? È forse questo che desideravi?", incalzò allora una voce di donna alla sua destra, mentre, voltandosi, riconosceva, già dalle prime parole, Ceridwen dell’Olmo.
"Ceridwen", la salutò con un sorriso il Tree Monk, "E non solo la Regina Guerriera qui si trova, mio vecchio e buon amico!", esordì allegra un’altra voce, mentre anche Nuada del Cedro appariva accanto al guerriero del Nocciolo.
"Amici miei, com’è possibile che io vi riveda?", domandò stupefatto il Signore delle Guerre, "Poiché questo è ciò che hai desiderato, nobile Taranis: rivedere coloro che con te vissero molte battaglie, poter ricordare con loro i tempi passati, non essere più solo, come ti sei sentito durante questo periodo di pace successivo alla sconfitta di Morrigan e degli Horsemen." , spiegò Gwyddyon, con la saggezza che Taranis ben conosceva di colui che aveva preso a modello Shaka di Virgo.
"Ed a tal proposito, Signore delle Guerre, complimenti per la vittoria su una delle sorelle di Morrigan!", continuò sorridendo la Mano d’Argento, poco prima che il suo sguardo tornasse serio, "Ora, però, devi decidere, amico mio, se restare qui, seguendo il desiderio che ti anima da tempo, oppure tornare oltre la nebbia, tornare a combattere….", spiegò con voce affranta, poiché cosciente del bivio a cui obbligava il compagno.
"Come? Ci siamo appena riuniti e già mi chiedete di andare via? Non posso per una volta sola seguire i miei desideri, anziché ciò che tutti richiedono da me?", esclamò infuriato Taranis, che, ancora incapace di comprendere quello che a lui pareva un sogno, sapeva di dover già decidere se seguirlo o abbandonarlo.
"Purtroppo, Signore delle Guerre, gli dei ti hanno posto davanti ad una dura scelta, fra ciò che desideri e ciò che devi fare…puoi restare qui, con i tuoi compagni del passato e lasciar morire coloro a cui hai deciso di dare aiuto, oppure risvegliarti e comprendere che ancora non è tempo per il riposo, ma la solitudine non ti sarà nemmeno d’obbligo, poiché vi è chi vuole seguire un destino di guerriero come il tuo, un destino in cui potresti essergli maestro e guida…", spiegò la voce di Ogma, che d’improvviso era apparso in mezzo ai Tree Monks lì presenti e con una mano aveva aperto uno squarcio nella nebbia, squarcio da cui lo stesso Taranis poteva ora vedere ciò che accadeva intorno a lui, lì dove ancora si trovava, fra le rovine della città di Mur.
Era infatti ancora lì il corpo di Taranis, impugnava fra le mani i resti della possente clava, andata in pezzi a seguito dello scontro, ma questo, per quanto grave, non preoccupava i cavalieri adiacenti al campo di battaglia come ciò che ora germogliava sul petto del Tree Monk: un seme che pareva mettere sempre più dorate radici nel corpo del guerriero celtico.
"Cosa gli hai fatto, mostro?", esclamò preoccupato Whinga, avanzando di qualche passo dalla propria posizione, subito fermato dal braccio destro di Blat, che, con un gesto del capo, suggerì all’Hayoka dell’Oca Polare di non intromettersi in quella battaglia.
"Il seme dell’Esperidi", esordì Ladone, "questo è l’attacco che ho usato su di lui. Quando dissi di avere le ultime reminiscenze di quell’antico bosco, non era la vana gloria a parlare, bensì i fatti. Posseggo ancora alcuni semi dell’antico giardino dorato e, unendoli ai poteri del mio cosmo, posso concedere a chi subisce il loro contatto, di ottenere ciò che più desidera, malgrado ciò, sia ben chiaro, ne immobilizza il corpo, spegnendolo lentamente fra inebrianti gioie…", spiegò il figlio della Bestia, prima di scoppiare in una soddisfatta risata.
"Mostro, ora pagherai per tutte le tue azioni infide… subirai la furia di Shandowse, l’Argenteo Coyote!", minacciò la divinità pellerossa, che già aveva ripreso forma, ampliando un minaccioso cosmo, pronto a scatenarsi contro il nemico divino.
"No, divino Shandowse!", esclamò allora una voce decisa, mentre una figura si faceva avanti fra i quattro a difesa di Freiyr, ancora svenuto.
Grande fu lo stupore della divinità pellerossa e degli altri che osservavano la scena, Ladone incluso, quando videro Blat, privo d’armatura e con l’arma distrutta, portarsi dinanzi all’Argenteo Coyote, intromettendosi nelle sue azioni.
"Non possiamo interrompere la battaglia del guerriero celtico! Egli è venuto fin qui per aiutarci, aiutarlo a nostra volta sarebbe come sottolinearne l’incapacità. Sono più che certo che costui sia capace di superare da solo la trappola mentale a cui quel mostro lo ha assoggettato…", spiegò con coraggio il guerriero oscuro, prima che le risa del figlio di Tifone lo interrompessero.
"Come puoi tu, servo dell’Erebo, che per primo ti saresti dovuto inginocchiare dinanzi a me, credere che quel misero mortale riesca a vincere la presa che uno spirito superiore ha ora su di lui?", domandò divertito il Drago Mitologico, "Perché ho vissuto con uomini del valore di Vize, mio maestro, Grun, Zahn e gli altri miei compagni al servizio dell’Erebo. Eravamo al servizio della divinità sbagliata di certo, un essere che sfruttava gli odi ed i dissapori instauratasi nei nostri spiriti, ma non per questo non ebbi modo di valutare il coraggio e la forza di ognuno di loro; la determinazione che li animava, maligna o benigna che fosse, è stata per me metro nel valutare il coraggio e la virtù di chi ho davanti. Solo coloro che sanno abbandonare i loro desideri per un fine più grande sono i guerrieri più capaci! Noi, Generali Oscuri, siamo rimasti intrappolati nei nostri desideri di vendetta, asservendoci all’Erebo, e questa è stata la causa della dipartita dei miei compagni… solo io e Schon potremo scoprire ora come, rinunciando a ciò che si vuole, si può ottenere qualcosa di ancora più importante." , spiegò il Generale del Pesce Sega Oscuro.
"E cosa mai potrebbe fare costui?", domandò divertito Ladone, "Sconfiggerti ad esempio!", esclamò allora Bifrost, rimasto a difesa del suo Re, "Proprio come ha fatto con un altro essere di natura divina quale era Nemain, sorella di Morrigan." , concluse il God Warrior.
"Quella di cui tu parli è una divinità che m’è di certo inferiore! Nessun essere celeste può, né ha potuto, né mai potrà, paragonarsi con noi, figli di Tifone ed Echidna, noi che serviamo colui che è il nostro Messia, colui che c’innalzerà sul trono del Mondo!", tuonò infuriato il Drago, ancora celato nella dorata corteccia.
"Eppure, tu, figlio della Bestia, sei stato un servo di Giunone, a guardia del Giardino delle Esperidi…", osservò sarcastico Blat, mentre, al posto di una risposta, un urlo di rabbia, confuso con il concentrarsi del dorato cosmo del nemico, proruppero dall’albero in cui si celava Ladone, diretti entrambi contro il Generale Nero.
Fu un lampo, solo un bagliore di luce poterono vedere Blat e tutti coloro che lo osservarono, eccetto Shandowse, sul cui viso si dipinse rapido un sorriso, e Ladone, di cui non fu dato sapere l’espressione, mentre un mastodontico scudo con sopra dipinti due cani si poneva a difesa del Generale Oscuro sorretto dalle pronte braccia di Taranis del Nocciolo, il cui petto era ora libero dal dorato seme che vi si era innestato.
"Tu? Com’è possibile? Nessuno aveva mai avuto la forza di rinunciare ai propri desideri più lieti… anzi proprio per questo i pomi d’oro delle Esperidi avevano scatenato la disputa al matrimonio di Teti…", osservò sbalordito il figlio di Tifone, osservando il guerriero celtico che, incurante delle parole nemiche, accennava un sorriso al giovane Blat, prima di voltarsi verso la dorata corteccia che celava il suo avversario.
"Ti vorrei ringraziare per ciò che mi hai concesso, mostro ellenico: rivedere i miei antichi compagni, sentirne le parole di lode e critica, tutto ciò è stato più che un’incitazione a combattere ancora, è stato quasi un ordine…. Li ho rivisti tutti, da Nuada al saggio Ogma, infine, lo stesso sommo Dagda è apparso dinanzi a me, incitandomi con parole sapienti a tornare qui, fra i compagni che avevo deciso di proteggere e presso il Re di Asgard, che condivide il medesimo destino del mio defunto comandante. Il tuo colpo mi è stato d’aiuto a superare quel vuoto che sentivo nell’animo, il tuo attacco e le parole di questo ragazzo, parole piene di una saggezza che non si direbbe quasi essere propria della sua età." , concluse il guerriero celtico, prima di espandere il proprio cosmo.
"Pensi forse di vincermi, piccolo uomo? Solo perché sei sopravvissuto al Seme delle Esperidi non puoi sperare di battere la mia difesa!", esclamò sicuro di se Ladone; "Al contrario, mostro ellenico, io so che la tua difesa è caduta… ne sono già consapevole ed ora te lo mostrerò con i segugi che non mancano mai la loro preda!", incalzò con decisione Taranis, "Cu Fangs!", tuonò infine il Tree Monk.
L’argenteo cosmo si modellò attorno al maestoso scudo, mentre già i due cani su di esso disegnati parevano pronti a prendere vita con un guaito, che ne rivelò l’aspetto, composto d’energia cosmica, mentre si scagliavano con furente decisione contro il loro bersaglio: il maestoso albero dorato.
Per alcuni interminabili secondi i due fieri cacciatori parvero girare intorno al tronco aureo, poi, come animati da una certezza, i segugi scattarono verso la parte frontale della difesa a forma d’albero, riprendendo la loro naturale forma di sfere energetiche, che, inaspettatamente, penetrarono la corteccia dorata, disperdendosi all’interno della stessa.
Indecifrabili furono le parole di stupore che Ladone emise, mentre già una fitta luce argentea si sviluppava dall’interno della sua difesa, frantumandola e scaraventando il figlio di Tifone al suolo, ormai scoperto dinanzi ai nemici.
"Sei stato incredibile!", esclamò sorpreso Blat, che ancora si trovava al fianco del guerriero celtico, "No, ragazzo, incredibili sono le virtù della mia clava e dello scudo… due armi che, unite, riescono a superare qualsiasi difesa." , replicò soddisfatto Taranis.
"Che intendi dire, cavaliere?", domandò stupito il Generale Oscuro, "L’attacco della mia clava ha creato un foro nella sua difesa nel momento stesso in cui è passato al contrattacco. Nessuno può combinare due tecniche assieme, nemmeno un essere di natura divina: sapevo che attaccandomi aveva indebolito la sua difesa, tanto da permettermi di danneggiarla… è toccato poi ai miei fedeli segugi trovare dove questa crepa si trovasse." , concluse il Signore delle Guerre.
"Ti faccio i miei complimenti, mortale! Alla fine hai saputo far uso della tua saggezza… sei migliore di quell’immondo semidio che mi sconfisse solo grazie alla sua forza. Ora, però, dovrai arrenderti dinanzi all’onnipotenza del mio cosmo divino!", minacciò Ladone, rialzandosi e mostrandosi finalmente ai suoi nemici.
Dell’originario aspetto di Drago, il loro nemico aveva solo l’armatura, maestosa e nera, con riflessi dorati, che si apriva come una serie di scaglie e squame su tutto il corpo, senza però produrvi, lungo il petto e le gambe, delle rilevanti variazioni, quasi fosse più il tronco di un albero che il vero e proprio corpo di un drago serpentiforme. Ciò che più colpiva di quell’armatura erano due gigantesche fronde che si alzavano dalle spalle ai lati del viso, quasi fossero vere e proprie ali dorate su un corpo nero, come nero era anche l’elmo dall’aspetto di drago che celava del tutto il viso dell’innocente uomo del cui corpo il mostro aveva preso possesso.
Le coperture per le braccia, infine, erano anch’esse a scaglie, ma finivano in delle strane forme più simili a dorate mele che a vere e proprie zampe di rettile.
"Non ti temo, mostro ellenico, già una volta ho avuto ragione di un essere divino grazie alla virtù che possiedo ed a ciò per cui combatto!", ribatté sicuro Taranis, "Un essere divino? Una dea al pari dell’infida Era e del suo sciocco marito Zeus, forse! Non di certo un essere come me, un figlio di Tifone!", tuonò infuriato Ladone, mentre già il suo cosmo s’espandeva, "Io ho disprezzo per quelle divinità dalla forma umana… uomini, non siete niente più che libagioni, eppure a voi è concesso desiderare e possedere. Io ho potuto solo richiedere di vedere le estreme bellezze dei boschi dell’Esperidi e restarne padrone, poi, la mia vita è stata di mera schiavitù… mai la libertà, mai la carne fresca di un uomo virtuoso da mangiare! Solo schiavitù!", ringhiò, come impazzito, guardando le mani a cinque dita che possedeva.
"Eppure ora hai un corpo di uomo, mostro ellenico…", osservò con calma il guerriero celtico, "Un corpo che indosso con minor gioia della corteccia dorata che mi difendeva, un corpo che disprezzo e di cui mi ciberò non appena colui che m’è padre e messia ci guiderà al dominio dell’Olimpo ed a riprendere i nostri antichi corpi!", concluse il figlio di Tifone, scattando furente contro il nemico, che già abbandonava lo scudo per gli argentei artigli, sorridendo sornione alla carica avversaria.
Il primo contrasto fra i due fu un portentoso cozzare delle spalliere, che Taranis resse perfettamente, piantando il piede sinistro al suolo, dietro di se, per darsi quindi lo slancio necessario a scagliare un potente gancio sinistro al viso del suo nemico, il quale, però, spostò lateralmente il proprio baricentro, lasciando che il pugno si perdesse contro la vistosa spalliera destra.
Pronta fu la risposta di Ladone che subito scagliò un montante alla bocca dello stomaco del suo nemico, che, inaspettatamente, resse bene il colpo, rispondendo con un violento diretto destro al centro del petto avverso, lì dove la difesa delle due grosse fronde non era presente, né ipotizzabile.
Quell’unico colpo andato a segno bastò per far indietreggiare il nemico, mentre già un secondo e violento gancio sinistro lo colpiva ai reni, subito seguito da un montante destro all’altezza della spalla sinistra nemica, così da far barcollare la posizione del Drago, il cui corpo era ora segnato dai danni che gli artigli argentei erano riusciti a fare, intaccandone l’armatura.
"Anziché desiderare soltanto di tornare nella tua mitologica forma, mostro ellenico, avresti dovuto cercare di comprendere i limiti e le virtù della forma umana, così da capire anche quanto la tua misera forza di uomo fosse inutile contro di me, che presso i Tree Monks ero detto il Signore delle Guerre!", lo ammonì soddisfatto il guerriero celtico, mentre già il cosmo dorato del suo nemico s’espandeva di nuovo.
"Zanne del Drago!", tuonò Ladone, mentre un attacco d’energia, simile ad una gabbia di lame, si chiudeva sul nemico, trovandolo inaspettatamente scoperto ed investendolo con violenza tale da farlo volare al suolo.
"Eccoti, misero uomo, le fauci del Drago figlio di Tifone! Ora hai visto la mia vera potenza e ben presto la proverai nella sua massima forma!", ringhiò l’essere mitologico, mentre ancora caricava il dorato cosmo, pronto ad un nuovo attacco.
"No, sarai tu a provare l’attacco massimo del Signore delle Guerre, mostro ellenico; avrai modo di scoprire quale intrinseca forza si celi nel corpo di un semplice uomo." , sentenziò in tutta risposta Taranis, espandendo il cosmo ardente d’energia, che come un respiro prendeva forma dal suo corpo.
"Zanne del Drago!", urlò Ladone con prontezza, "War Breath!", incalzò il Tree Monk del Nocciolo, espandendo il proprio spirito guerriero sotto forma d’onda d’energia.
I due attacchi cozzarono l’uno contro l’altro, creando scintille al loro confronto. "Come puoi, tu misero uomo, riuscire a contenere il mio cosmo con il tuo?", esclamò sbalordito il figlio di Tifone, "Questa è la forza che si ottiene rinunciando ai propri desideri per un dovere più grande! Questa è la forza che m’è propria!", replicò aspro il guerriero celtico, mentre le due energie s’annullavano a vicenda, lasciando immobili i due contendenti, uno fermo dinanzi all’altro, ormai stremati per l’energia infusa negli ultimi attacchi.
"Non è ancora finita…", stava ringhiando lo stanco essere mitologico, "Invece sì, figlio della Bestia, per te è giunto il momento della sconfitta." , sentenziò una voce alle sue spalle.
A nulla valse il veloce voltarsi di Ladone, già la mano di Shandowse s’era imposta sul suo corpo e potenti le parole della divinità pellerossa liberavano l’uomo dalla mitologica fiera che lo aveva invaso, facendo scomparire il cosmo del Drago e le sue vestigia da quel campo di battaglia sottomarino.
"Ce la potevo fare anche da solo…", fu l’unica cosa che Taranis riuscì ad obbiettare, sorridente, mentre quasi cadeva al suolo, sorretto prontamente dallo stesso dio pellerossa, "Ne sono certo, guerriero di Scozia, ma ci sono doveri più grandi da portare a termine: la vera battaglia ormai si svolge in altro luogo ed io ed il cavaliere d’oro siamo chiamati ad unirci ai nostri compagni lì per fermare l’avvento della Bestia, ormai libera, come il suo cosmo mi fa supporre." , spiegò Shandowse.
"Per ora, però, occupiamoci di recuperare i compagni svenuti ed andarcene da questo luogo di macerie…", ordinò poi la divinità, mentre già Blat, Whinga e Taranis stesso andavano a recuperare Kela, Schon e Zadra, tutte e tre svenute, ed il dio pellerossa si occupava di Kain e Camus, come Helyss e Bifrost s’occupavano di Freiyr.
Assieme, i dodici guerrieri, abbandonarono quel luogo di innumerevoli battaglia avvenute durante la lunga giornata, lì dove sette Generali Oscuri erano stati richiamati da Erebo per vendicarsi, per i loro desideri mai compiuti.
Ora un solo luogo era rimasto dove ancora si combatteva: il Vulcano Etna.