Capitolo 42: La Bestia
Nelle profondità della terra, lì dove la voragine intrappolava la Bestia, la figura avvolta dal nero mantello sembrava agitata dall’ormai lunga attesa: era passata quasi un’ora da quando i suoi figli, e la Gorgone sua alleata, erano partiti per l’accampamento Hayoka.
"Madre", esordì allora l’altra figura che si aggirava per quelle caverne, "non sono riuscito a prendere quelle tre creature metalliche, ma penso che non ci potranno essere di pericolo alcuno, fin troppo misero è il loro potere offensivo, inoltre si sono nascoste in un’altra delle caverne di questo luogo, che io stesso ho provveduto a sigillare con una frana", affermò con tono rassicurante l’individuo, "Bene, Chimera, ottimo lavoro, ma non erano quelle parvenze di esseri intelligenti a preoccuparmi, né prima, né ora", replicò seccamente l’altra figura, voltandosi verso la voragine, mentre una scarica elettrica le illuminava il volto.
Era una donna, il viso delicato e pallido, gli occhi iniettati di sangue, i lineamenti eleganti, ma qualcosa dava un aspetto più feroce ed animalesco a quella bellezza, un cambiamento compiuto di certo da colei che aveva preso di quel corpo: era infatti priva di capelli, rasati dalla sottile testa, dove ora risaltavano solo due feroci tatuaggi tribali, proprio sopra le orecchie.
"Abbi pazienza, mio sposo, ben presto sarai di nuovo fra noi", sussurrò con inaspettata delicatezza e sottomissione, quasi parendo di capire l’origine di quella scarica di luce.
Un gruppo di cosmi, proprio in quel momento, riempì la caverna scavata nel terreno, mentre quattro figure dalle nere vestigia, condotte da Steno, entravano al cospetto della donna, inginocchiandosi pochi passi prima della voragine.
"Dov’è Avvoltoio Nero?", domandò la figura avvolta nel mantello, "Caduto, mia Imperatrice", sussurrò con timore la Gorgone, non ricevendo risposta alcuna, se non un disumano urlo che, prorompendo dalle labbra della donna, raggiunse la desertica superficie, espandendosi come un tuono nel cielo.
"Non temere, madre, io stesso mi sono occupato di vendicare la sua morte, eliminando l’insulso umano che osò tanto", affermò uno dei quattro inginocchiati dietro Steno, quietando così l’ira della donna.
A quelle parole, la creatura trattenne le proprie urla, ispirando con fare rabbioso, finché non parve tornare la calma sulle sue tempie, "Bene, figlio mio, hai compiuto il gesto più atto a ricordare tuo fratello", si congratulò, prima di voltarsi verso Steno con sguardo interrogativo.
"Anche noi abbiamo ucciso uno di quei miseri uomini", continuò un altro dei quattro, impedendo alla Gorgone di parlare, "Ben fatto, Cerbero, ma ora un’altra cosa mi preme sapere… Steno", concluse la donna, zittendo tutti con quell’ultimo nome, quasi urlato.
La sorella di Medusa fece un passo avanti e prese dalla propria folta chioma le quattro Chiavi, "Ho ucciso Mudjekewis e portatovi ciò che chiedevate, mia Nera Imperatrice, potente Echidna", sussurrò la Gorgone, senza rivolgere lo sguardo alla mitologica creatura, che con fare impaziente avvicinò le mani alle quattro ancestrali sfere.
"Benissimo", sussurrò Echidna, prendendo fra le mani le quattro Chiavi, riavvicinandosi poi alla voragine.
"La grande madre Gea ci ha risvegliato per questo momento, figli miei, perché noi potessimo richiamarlo ed Egli generasse un mondo migliore, non corrotto da uomini e dei; già quarant’anni fa cercò di risvegliarsi, ma i sigilli che lo imprigionavano non si ruppero e solo lo spirito e l’energia cosmica, prive di un corpo, poterono rivelarsi, per essere subito ricacciate nella voragine da un cavaliere d’oro", ricordò la Nera Imperatrice, guardando verso la gabbia di fulmini.
"Oggi, però, sarà diverso!", esultò ancora la creatura mitica, dopo una breve pausa, "Oggi, figli miei, il mio Sovrano, l’essere con cui vi ho generati, il nostro Messaggero, colui che darà origine alla nuova e gloriosa era, come, ai tempi del mito, avrebbe dovuto fare; Egli risorgerà e noi saremo le sue schiere nella via che porterà al nuovo inizio", esclamò, mentre le sei figure, poiché ai cinque appena arrivati si era unito anche Chimera, gioivano per quelle parole.
"Impediremo che qualcuno riesca a scacciare di nuovo il suo spirito nella terribile voragine dove l’avido Zeus lo imprigionò, daremo un corpo che ospiti, per ora almeno, il nostro Sire", concluse, mentre due dei figli si allontanavano, portando poi, nella sala, un giovane umano, incatenato e prossimo ad un terribile destino.
Echidna non si curò del mortale che stava giungendo dinanzi alla voragine, intenta nel posizionare le Quattro Chiavi.
"Per prima, la chiave che si trovava a Cartagine, il Sigillo di Fuoco, che doveva spegnere le fiamme del nostro Messaggero, fiamme che, nelle urla di dolore e nella distruzione, avrebbe annunciato la nascita di un nuovo ordine", affermò, gettando la prima sfera dentro la voragine, sfera che si posizionò nella zona meridionale.
"Per seconda, la chiave custodita nel Regno dei Mari, il Sigillo delle Acque, quelle forze torrenziali che il nostro Signore sa animare per mondare le terre emerse e quelle sommerse da tutte le infime vite che vi abitano, una forza che purificherà tutto, dopo aver investito ogni bersaglio con furia", continuò, gettando la seconda Chiave, che si portò sul versante occidentale della voragine.
"Di seguito, la chiave che Odino, alleato di Zeus, custodiva: il Sigillo del Vento, che soffierà ad ogni ordine del nostro Imperatore, portando via le carcasse impure di chi cadrà ai suoi piedi, non appena egli tornerà a camminare nel mondo degli uomini; nessun impuro mortale, o immortale, potrà reggere dinanzi alla sua grandezza, sarà costretto a scomparire, portato via dalla corrente del respiro che egli domina", aggiunse, gettando la terza sfera, che si portò sul bordo settentrionale della voragine.
"Infine, la chiave che custodiva Atena, il Sigillo della Terra, quello che lo rinchiuse in questa voragine, Egli, che era nato dalla Terra e dal Tartaro, si ritrovò intrappolato fra il padre e la madre, una beffarda ed ignobile punizione che le divinità, che tanto lo temevano, gli diedero, per sigillarne, oltre l’immenso potere, anche la volontà; quella stessa volontà che ora ci guiderà tutti verso il Cielo, l’Olimpo, il Vahalla, le valli dell’Oltretomba, il Nirvana, nessun luogo sarà più sicuro per le divinità e per gli uomini, poiché il mio sposo monderà dalla loro presenza ogni piano dell’esistenza", concluse lasciando scivolare anche l’ultima sfera dentro nella parte destra della voragine.
L’esplosione d’energia che seguì quel semplice gesto fu d’incredibile potenza, nessuno, se non Urano, o gli Horsemen, aveva mai sviluppato un così potente cosmo nel mondo degli uomini: la terra tutta si scosse, la maestosa voragine si riempì di fiamme, la caverna, e l’intero vulcano in cui si trovava, sembrarono quasi prendere vita, mentre un’eruzione scoppiava all’esterno; persino gli uomini che niente sapevano del cosmo, nel mondo intero, avvertirono qualcosa di terribile per quell’unica esplosione d’energia; ma oltre tutto questo, ci fu ciò che Echidna, Steno e gli altri presenti nella caverna, videro: una creatura di pura energia cosmica, la sua testa era composta di draghi, confusi in una lunga chioma nera, le braccia ed il petto erano tempestati di piume e dalla cinta in giù era simile ad un serpente.
Quell’essere saettò maestoso all’esterno della voragine, dirigendosi verso lo spaventato uomo destinato ad ospitarne il potere e penetrando nella sua pelle dalla bocca urlante e dagli occhi… pochi attimi, poi, il silenzio, mentre tutti attendevano.
Nessuno aveva il coraggio di emettere un suono fra le mitiche creature inginocchiate dinanzi a quello che al momento pareva un semplice uomo, poi, quando l’ultimo urlo morì in gola a quel giovane ed il suo sguardo, ora scarlatto e brillante, incontrò quello di Echidna, la donna si prostrò ai suoi piedi, mentre quel cosmo imperioso e portatore di cataclismi richiamava un’armatura sul corpo di quello che era stato un uomo.
L’essere fece un passo verso la donna inginocchiata, poggiando la mano sulla spalla coperta dal mantello e risollevandola con la sola forza dell’arto, senza alcuna fatica.
"Mio signore", balbettò appena Echidna, apparendo per la prima volta intimorita dinanzi a quello sguardo scarlatto, ma questi non rispose, bensì si gettò su di lei.
Per alcuni interminabili attimi i due volti si confusero in uno solo, ma non vi era affetto alcuno in quello che poteva essere descritto solo come un mordersi e flagellarsi le labbra reciprocamente con denti affilati; quando si divisero, i volti di entrambi erano macchiati del loro sangue, ora mescolato.
"Esultate, figli miei", esordì Echidna, voltandosi verso le figure inginocchiate, "colui che ci guiderà è tornato, il nostro Signore, il Messaggero del nuovo inizio: Tifone!", esclamò, mentre un unico urlo di gioia partiva dalle sei figure antistanti.
Non ci volle molto, dopo la scomparsa dei cosmi invasori dall’accampamento Hayoka, perché l’effetto dell’attacco della Sfinge si concludesse, lasciando cadere tutti i corpi delle sue vittime al suolo, stremati per lo stress cui i loro muscoli erano stati sottoposti.
Quando tutti furono di nuovo in piedi, Golia si preoccupò di liberare un rammaricato e sconvolto Shiqo, che pareva quasi in uno stato di completato distacco dalla realtà, capace solo di ripetere dei continui, "Mi dispiace", parlando più con se stesso che con chi gli venisse accanto.
Con l’arrivo di Daidaros e Bow, il gruppo si riunì nella zona centrale.
I corpi di Taimap e Mudjekewis furono posti l’uno accanto all’altro, "Non è nelle abitudini degli Hayoka dare un’onoranza funebre di minor riguardo per l’Hayoka che muore quando anche una divinità abbandona il piano mortale; entrambi hanno lottato per l’ordine e la pace, ed entrambi riposeranno come pari nella terra che vide i loro spiriti sorgere, in epoche diverse, e che ora li accompagnerà al di là dell’esistenza umana", sussurrò Bow dello Storione, rivolgendosi ai cinque guerrieri olimpici che osservavano in silenzio la scena.
Solo Botan si distanziò dal gruppo quando sentì un mugolio di dolore di Vake del Serpente: l’Hayoka era ancora vivo, ferito gravemente, ma vivo.
"Leone Nero", balbettava con voce dolorante il pellerossa, mentre Daidaros iniziava ad avvicinarsi per ascoltare le sue parole; ma una mano fermò il figlio di Shun, una mano fredda che pareva giungere dall’oltretomba: la mano di Ash del Corvo.
Fu proprio l’Hayoka dal freddo temperamento ad avvicinarsi al viso dolorante di Vake e ne ascoltò le parole, per poi osservarlo con il suo solito distacco, rivolgendogli, però, parole che parevano cariche di un legame pari all’amicizia: "Non è tempo per te, mio sottoposto, di essere fra coloro che osservo oltre questo piano, non il Serpente sarà condotto fra nere piume oltre il mondo dei vivi, bensì una ben più fiera belva", lo rassicurò con inaspettata gentilezza.
"Grazie, Ash, non speravo in parole più gentili da parte tua", ridacchiò Vake, piegandosi per il dolore della ferita subita, mentre anche gli altri Hayoka si avvicinavano ai cavalieri che si erano disposti attorno al pellerossa sanguinante.
"Solo Lihat potrebbe guarirlo, ma lei è ancora in Giappone", osservò preoccupato Bow dello Storione, "E probabilmente, sia i nostri compagni che hanno attaccato Amaterasu, sia quelli che hanno affrontato Erebo, potrebbero ora trovarsi prede di altri seguaci della Bestia", aggiunse Golia del Toro.
"Sì, me lo ha confermato il mio avversario, due di loro sono andati ad assalire i nostri compagni", continuò Vake, malgrado il dolore, "Non ti sforzare oltre", gli suggerì però Botan, che osservava la ferita sanguinare.
"Nemmeno noi abbiamo un guaritore fra i nostri compagni, quindi l’unica idea possibile è mandare qualcuno a supportare gli altri in Giappone e fra le rovine di Mur", aggiunse poi Lorgash, "No, sarebbe una mossa sbagliata, divideremmo ancora le nostre forze, inoltre perderemmo altro tempo ed ora che loro hanno le Chiavi, ogni secondo è prezioso", replicò con tono secco Waboose.
"So io cosa fare", esordì allora Botan, il cui tono della voce tradiva il dispiacere di quelle sue parole, "abbiamo ancora degli amici, alleati di passate battaglie, che potrebbero curare Vake e portare supporto a chi ha affrontato Erebo ed Amaterasu", spiegò, sollevando con le proprie capacità psichiche il ferito.
"Lasciate fare a me, vi raggiungerò, dopo essermi occupata di trovare i nostri alleati", li rassicurò Botan, mentre il suo cosmo dorato avvolgeva lei e l’Hayoka, lasciando solo uno spazio vuoto, per la loro scomparsa.
"Noi dobbiamo prepararci per la battaglia che sta per iniziare", esordì pochi attimi dopo Waboose, "Shiqo, Bow, Ash, è tempo di concludere la cerimonia di Taimap e Mudjekewis, ben presto dovrete partire per la vostra battaglia", ordinò la divinità, mentre con i tre guerrieri pellerossa si dirigeva verso i loro due caduti.
Golia, Lorgash, Daidaros ed Elettra, invece, rimasero per alcuni in silenzio, "Cavalieri, riposate, oppure unitevi alle loro onoranze funebri, per questi pochi minuti prima della partenza verso quale che sarà il nostro prossimo campo di battaglia", sentenziò semplicemente il Sommo Sacerdote, dirigendosi verso il trio di Hayoka, per partecipare alla cerimonia, subito seguito dagli altri.
Daidaros di Cefeo aveva partecipato ad un’infinità di rituali di commemorazione dei caduti: aveva visto come le amazzoni ricordavano le compagne morte, come lo facevano i guerrieri egizi, quali tipi di cimiteri avevano i cartaginesi, conosceva persino alcuni culti delle armate d’Oriente, ma, ogni volta che si trovava ad osservare questi rituali un solo pensiero, un rammarico, s’avviluppava dentro di lui, stringendosi più di quanto le sue stesse catene sapevano ben fare con le proprie prede e, in questo particolare caso, dove Vake, che aveva sentito come un amico, era rimasto ferito, perché lui era stato impossibilitato a supportarlo, quella stretta sembrava persino più forte. Il figlio di Shun, però, sapeva una cosa che lo rinfrancava: come i suoi quattro parigrado avevano combattuto in Giappone e fra le rovine di Mur, ognuno di certo per ciò che aveva più a cuore, ora anche lui avrebbe avuto la medesima opportunità, dovunque la prossima battaglia si sarebbe svolta.
Bow dello Storione osservava con sguardo perso i corpi mortali di Mudjekewis e Taimap, o almeno ciò che ne restava, mentre le piccole ara su cui erano stati posti, prendevano fuoco. Aveva avvertito l’inquietudine nel guerriero del Castoro, aveva sentito come questi fosse impaziente di combattere, ma, allo stesso tempo, aveva anche avuto fiducia nelle sue abilità, che sapeva grandiose, tanto che lo stesso Hornwer, oltre le critiche che faceva a Taimap per la sua rabbia mal contenuta, lo lodava sempre per le capacità psichiche che dimostrava.
"Ho fallito nel difendere un guerriero in cui avevi fiducia, ho mal valutato il suo nemico, Hornwer, mentre tu, amico mio, hai ben saputo a chi affidare Peckend durante la sua battaglia", pensò fra se, quasi decidesse cosa dire all’Hayoka del Cervo una volta che lo avesse rivisto.
Non era nella natura di Bow reclamare la morte per qualcuno, ma, in cuor suo, l’Hayoka dello Storione aveva scelto di optare per l’azione e la violenza: avrebbe affrontato coloro che li avevano invasi, cercando di non rubare la vita dai loro corpi, come già aveva fatto Vake, spegnendo solo le anime che li avevano invasi; questa fu la promessa che fece a se stesso ed alla memoria di Taimap.
Elettra del Cavallo osservava quel rito antico, ma, nello stesso tempo, la sua mente spaziava ad altri caduti, alle sorelle ed alle amiche, che, nel corso degli anni, avevano con lei combattuto, dapprima per ricevere l’investitura ad amazzoni di Artemide, poi nelle battaglie che, come guerriere sacre, dovettero affrontare. Ora era rimasta sola, o almeno questa era la verità che la sua mente le mostrava, ma la mano che, in quel piccolo gruppo silenzioso stava stringendo, la mano di Lorgash, le indicava il contrario.
L’idea della battaglia ormai prossima trasmetteva ad Elettra una forma di emozione ben diversa dalla solitudine, o dalla gioia che aveva nel sapere il cavaliere d’oro vicino a lei, ma, allo stesso tempo, si confondeva con quelle altre sensazioni, dandole una nuova forza, che era desiderosa di mostrare in battaglia, per combattere in nome anche delle compagne ormai scomparse.
Ash del Corvo era immobile, il suo sguardo andava oltre la visione dei corpi che divenivano cenere, si perdeva in qualcosa che stava oltre quel rito di commemorazione della morte, come se lui in qualche modo conoscesse bene quelle usanze, tanto da superarle e conoscere ciò che vi era dopo un simile gesto: questo pareva comunicare l’impassibile sguardo, lo stesso con cui aveva rassicurato Vake, o con cui si era presentato il giorno prima ad Atene. A chi lo osservava poteva quasi sembra che, dinanzi ad ogni situazione della vita, l’Hayoka del Corvo non avesse che un’unica espressione, tanto pareva privo di ogni sentimento ed emozione, malgrado quelle semplici parole che aveva rivolto, con un tono amichevole, al suo compagno ferito; profondi, però, si potevano intuire essere i suoi pensieri, come profondo era il luogo in cui, di certo, si perdeva il suo sguardo.
Lorgash del Capricorno ripensava a tutti i compagni che, nelle diverse battaglie, aveva visto morire: lui ben sapeva quanto costosa, in termini di vite, poteva essere una lotta. Era stato Jenghis, suo amico ed ormai defunto Berseker, a parlargli delle terribili guerre che, anche chi non combatte per le divinità antiche, deve continuamente affrontare, fra la gente comune, una visione del mondo che Lorgash non aveva spesso tenuto in considerazione, ma era ciò che il berseker, assieme prima a Obbuan l’Anghellos, e poi a Koryo il Beast keeper, aveva osservato, quella medesima desolazione che, in quell’ultimo anno, anche il cavaliere d’oro aveva avuto modo di vedere, una desolazione per cui aveva potuto fare ben poco.
Nel ricordare tutto ciò, un senso di solitudine ottenebrò, per alcuni attimi, il suo spirito, prima che la sua mano stringesse una molto più gracile e delicata, che, però, pareva quasi avere una forza sovraumana, per com’era capace di tirarlo fuori dalle tenebre che lo rendevano malinconico, era la mano di Elettra.
Shiqo della Lontra osservava il rito funebre, ma la sua mente vagava, confusa, fra diversi pensieri: la morte di Firon, per il quale si sentiva colpevole; la ferita grave subita da Vake a causa sua, che aveva abbandonato il proprio punto di difesa; la caduta di Taimap, che aveva dovuto affrontare da solo un avversario ben più potente di lui ed infine la sconfitta della divinità Grizzly, che aveva portato al furto delle Quattro Chiavi.
Nella mente dell’Hayoka non s’insinuava nemmeno il dubbio che lui non potesse difendere più punti contemporaneamente, solo un profondo senso di colpa, legato al suo ruolo di comandante dei Guardiani dell’Inverno, lo flagellava spiritualmente, mentre con invidia pensava a come Golia aveva saputo ben distribuire i propri alleati, poiché nessuno di loro era ancora spirato.
Golia del Toro, sommo Sacerdote di Atene, seguiva in silenzio il rituale pellerossa, osservava l’ara bruciare, memore delle decine di amici e compagni che già avevano raggiunto il Paradiso dei Cavalieri; era pesante in lui la preoccupazione per le Quattro Chiavi appena prese, ma sapeva che non vi era alcuna soluzione nel piangere su ciò che era accaduto: solo una via si apriva dinanzi a loro tutti, quella della battaglia, lo scontro finale con il vero schieramento al servizio della Bestia.
Questa certezza, assieme alla rinnovata determinazione, aveva scoperto, erano virtù fondamentali in un sommo Sacerdote, colui che doveva essere la guida delle schiere di Atena, che doveva, sì combattere, ma soprattutto mandare alla battaglia, e forse alla morte, tutti i compagni fedeli alla dea della Giustizia. Di tanta determinazione, Golia cercava da ormai un anno di essere padrone e quei due lunghi giorni di battaglia erano per lui la riprova se era adatto, o meno, ad essere l’Oracolo di Atena.
La cerimonia si concluse più per un’esplosione d’energia cosmica che per lo spegnersi dell’ara cerimoniale.
"Questo cosmo", esclamò sconvolto Bow, alzando il capo al cielo, "la Bestia è stata liberata", rispose con tono freddo Waboose, "Temo proprio di sì", concordò Golia, voltandosi verso la divinità.
"Cosa possiamo fare ora?", domandò allora Shiqo, sempre più turbato in volto, "Combattere, che altro?", incalzò Lorgash con tono più che reattivo, "Esatto, cavaliere d’oro, ed il tempo ci è persino nemico, poiché dovremo arrivare dalla Bestia prima che il suo cosmo si risvegli del tutto", concordò il dio pellerossa.
"Vuole dire che questo non è il suo intero cosmo?", domandò stupita Elettra, "No, questa è solo una minima parte del suo potere", rispose la divinità, "Ma si avverte così chiaramente, sembrava quasi che un cataclisma naturale voglia investire questi luoghi da un momento all’altro", osservò stupito Daidaros.
"Eppure egli, che di certo è in un corpo umano, al sicuro come tutti i suoi seguaci, non sta mostrando che un terzo della sua potenza dal Vulcano in cui è stato sigillato", spiegò ancora Waboose, "Quindi non si trova nemmeno in superficie, eppure la sua presenza è così nitida e funesta", continuò sorpreso Bow, "Si narra che il corpo della Bestia fosse così grande da abbracciare l’intero globo, ebbene, per ora che il suo corpo è sopito, il cosmo che emana è capace di tanto. Noi dobbiamo impedire che il corpo ed il cosmo di quell’essere si riuniscano, dobbiamo raggiungerlo e sigillarlo di nuovo; perciò, cavalieri ed Hayoka, la battaglia si sposterà subito nel luogo in cui la Bestia è nascosta: il Vulcano Etna", concluse la divinità pellerossa, prima che i sette guerrieri, sacri a diverse divinità, chinassero il capo, scomparendo con rapidità dall’accampamento pellerossa.
Botan di Cancer apparve, dopo minuti, fra le vaste montagne della Cina, in una zona desertica. La sacerdotessa guerriero portava con se Vake del Serpente, ferito e stordito, ma a nessuno dei due sfuggì la maestosa energia cosmica che esplose, pochi attimi dopo il loro arrivo in quel luogo, un’energia distante, ma incredibilmente potente.
"La Bestia è stata risvegliata", balbettò l’Hayoka ferito, "devi andare, lasciami qui", concluse, malgrado la sacerdotessa non pareva interessarsi alle sue parole.
L’attenzione di Botan era infatti rivolta ad una ricerca, puramente mentale, di qualcosa, o, per meglio dire, di qualcuno, delle persone che lei avrebbe voluto non coinvolgere in quella battaglia, ma che, purtroppo, doveva cercare, per chiedere loro aiuto sia per il ferito, sia per i compagni ancora dispersi su altri campi di battaglia.
La tristezza, per ciò che stava per fare, fu interrotta quando la sua mente trovò quello che cercava, o, più esattamente, fu trovata da un’altra mente altrettanto potente.
Non ci vollero che pochi secondi prima che Vake vedesse apparire d’improvviso una magnifica fanciulla, dalle chiari origini europee, vestita in un abito color della giada, che si parò dinanzi a Botan con un sorriso bonario.
"Rivederti, Sacerdotessa di Cancer, è un piacere, ma so, purtroppo, che il cosmo appena percepito, ed il ferito che porti con te, sono chiari segnali di quanto la tua visita non sia di cortesia, né per vedere me, né il mio sposo, né il figlio di appena pochi mesi che abbiamo", sussurrò con triste comprensione la nuova giunta.
"Mamiya, Runouni del Topo, non avrei mai voluto chiedere tanto a te ed al tuo sposo, ma il vostro aiuto sembra essere necessario in questa nuova battaglia, anche perché il nemico più pericoloso si è adesso mostrato, come tu hai avvertito ed oltre lui altri stanno attaccando i comuni compagni che ci hanno aiutato nelle passate battaglie", spiegò sommariamente la Custode della Quarta Casa.
"Capisco, amica mia, e farò ciò che potrò per esserti d’aiuto, ma intanto, vieni con me, condurremo questo ferito nella mia casa e gli daremo le prime cure", concluse la guerriera di Giada, prima che i tre scomparissero da quella landa desolata, diretti verso un altro luogo, a Vake sconosciuto.
A chi lo avesse visto in altre circostanze, con quel fisico muscoloso e l’altezza particolare, sarebbe potuto sembrare grosso, goffo, forse massiccio, ma, in quel momento, mentre quell’uomo era governato dall’anima di Tifone, poteva definirsi solo maestoso e regale.
Ogni passo che l’Essere compiva, avvolto in uno scarlatto mantello che ne nascondeva le vestigia, sottolineava la regalità della sua genesi, solo lo sguardo, carico d’istinti alla stregua dell’animalesco, e la terribile impetuosità del cosmo potevano portare a comprendere perché taluni definissero Tifone la "Bestia".
Nessuno dei sei presenti al suo risveglio si era mosso dalla propria posizione, tutti erano ancora inginocchiati, con il capo chino, soltanto Echidna, dopo averne abbandonato la presa, si era allontanata per prendere il rosso mantello con cui ora l’Essere copriva le proprie vestigia, ma adesso anche la Nera Imperatrice era in ginocchio, vicino al suo sposo.
"Figli miei", tuonò la progenie di Gea, "mia sposa", continuò voltandosi verso Echidna, "e nostra alleata", aggiunse, volgendosi su Steno, "voi tutti siete e qui, ed oggi mi avete liberato, perché abbia origine la nuova novella, affinché il destino che fin dal tempo più antico è stato scritto, infine si compia e tutto ciò, avverrà per mezzo di me!", esclamò Tifone, espandendo il proprio cosmo.
"Il Caos purificherà questa terra, mondandola dalla piaga degli uomini e degli dei; tutti loro sono impuri, perché hanno perso il legame con la Terra, si sono rivoltati alla Madre Terra ed ai suoi fratelli, ma ora tramite me, che, di Gea e del Tartaro sono la progenie, si avrà l'epurazione del mondo", continuò esultante.
"Distruggeremo queste genti e questi popoli, spazzeremo via ogni forma di rivolta e di vita e poi daremo inizio ad un nuovo mondo, più grande, più perfetto e più rispettoso verso colei che è la Madre Terra. Io guiderò il nuovo Ordine e voi, figli miei, sarete le mani che stringeranno le redini del comando", esclamò, mentre la gioia echeggiava nei sussulti dei suoi ascoltatori.
"Già adesso odo le urla di terrore di Zeus, e non quelle che emise nell’Era del Mito, bensì quelle che proprio ora, avvertendo di nuovo la mia presenza, lo spingono a progettare la fuga, ma nessun luogo sarà mai sicuro, poiché tutto il mondo dovrà essere purificato, non solo l’Olimpo!", concluse con un ruggito di gioia, mentre quelli dei suoi figli e della sua sposa gli facevano eco.
Quell’incredibile echeggiare, però, fu interrotto da qualcosa che la progenie di Gea aveva avvertito, "Stanno arrivando", sussurrò l’Essere, "già odo un gruppo di cosmi sopraggiungere dalle terre al di là dell’Oceano. I cavalieri che avete risparmiato hanno deciso di incontrare la morte nella prima battaglia che si scatenerà contro di me, un gesto insensato, come lo sono gli uomini", spiegò, "ma sapremo come accoglierli", concluse Tifone.
In quel momento il cosmo impetuoso parve fondersi con il Vulcano Etna: scosse di terremoto d’altissima magnitudo smossero fin dalle fondamenta il massiccio siculo, generando un ruggito che echeggiò fino alle città più lontane dell’Isola, ruggito che fu il prologo di un’eruzione che scaturì contemporaneamente da tutte e tre le bocche del vulcano.
"Accoglieremo in mezzo alla lava ed alla pietra i nostri nemici. Che il fuoco di questo vulcano, che fu per me angusta prigione, sia la loro tomba! Ed ora, figli miei, alla guerra!!!!", esclamò alla fine Tifone, mentre i cosmi di coloro che lo ascoltavano esplosero, quasi andando in risonanza con il suo.
L’ultima battaglia stava per iniziare.