Capitolo 30: Distruzione sull’Isola di Andromeda

Quando avvertì due cosmi giungere sull’isola fu presa da una grande gioia: forse la giovinezza, forse le troppe speranze, ma Nirra del Camaleonte corse fuori dalla piccola casetta, dove aveva vissuto anni assieme al maestro ed i compagni d’addestramento, sicura di trovarsi dinanzi a Husheif e Juno.

Grande fu lo sgomento, nascosto solo dalla maschera di bronzo, quando si trovò dinanzi a due misteriosi individui dalle armature nere come la notte.

Una donna, dai lunghi capelli corvini, aveva vestigia che sembravano fatte di oro, ma un oro sporco, tetro come le ombre, il viso era adombrato dai capelli, tanto che Nirra non riuscì a distinguerne a pieno i lineamenti, solo gli occhi, sottili, color nocciola, malefici nell’osservarla, erano appena visibili.

L’uomo, al contrario, era maestoso, superava la sua compagnia di viaggio con l’intero busto; aveva braccia gigantesche, ognuna sembrava grande quasi quanto la stessa piccola sacerdotessa del Camaleonte; indossava anche lui un’armatura sconosciuta ed oscura, ricca di aculei e sporgenze rigonfie sulle spalliere, così come lungo il pettorale, dove sembravano incisi dei solchi, così come sui gambali e sulla copertura per la cinta, divisa da quella per il tronco e che nemmeno raggiungeva le ginocchia del mastodontico individuo.

Sulle braccia, poi, attaccate alle protezioni, vi erano delle scure e massicce catene, alla cui estremità opposta, penzolavano minacciosi due grossi oggetti che Nirra riconobbe dopo qualche istante: ancore, quelle tipiche delle navi.

"Bel posticino quest’isola…", esordì d’un tratto la donna, volgendosi verso il gigante, "Così è qui che sei stato addestrato, con il nome di Gregor, prima di diventare il terribile Omega?", chiese curiosa.

"Non chiamarmi più con il mio vecchio nome, Black Cancer, oppure sarai la prossima ad affrontare la mia furia, prima ancora di questa patetica bambina che ci ha accolto senza nemmeno indossare le proprie vestigia!", minacciò di rimando il gigante.

"Scusa, Omega della Carena Oscura, non avverrà più. Forse.", rise la donna, prima di concentrare l’attenzione sulla giovane sacerdotessa d’Atena lì presente, "E tu, bimba, non pensi sia il caso d’indossare la tua armatura? Almeno avrai qualche speranza di sopravvivere al primo attacco del mio gigantesco accompagnatore, che non aspetta altro che farti soffrire.", rise la misteriosa figura dalle vestigia d’oro nero ed un brivido di terrore scosse le membra di Nirra, che subito richiamò a se la corazza del Camaleonte.

Non riuscì, però, nemmeno a sferrare un singolo colpo, la giovane sacerdotessa che già il gigante aveva attaccato: con un movimento sicuro e spietato, il mastodontico individuo scagliò contro di lei l’ancora sinistra, colpendo in pieno il pettorale del Camaleonte, che andò in pezzi, gettandola al suolo.

Si girò pancia al suolo Nirra, cercando di strisciare fino alla frusta, caduta a qualche passo di distanza, incapace di rialzarsi per prenderla, ma fu ben più veloce il gigantesco nemico, che con determinazione le schiacciò sotto il tacco la mano sinistra, fino a sentire le ossa della stessa frantumarsi.

Urlando di dolore, la giovane sacerdotessa alzò il volto verso l’alto, osservando per la prima il volto del gigantesco nemico: il volto asciutto, glabro, privo di capelli e barba, gli occhi verdi e malefici che la guardavano spietati, l’elmo con degli affilati spuntoni che sembravano creare una cresta, mentre un ghigno soddisfatto si disegnava sul volto dell’uomo, schiacciando anche l’avambraccio della ragazza.

Un nuovo urlo della ragazzina produsse una risata divertita nella donna che s’affiancava al gigantesco assalitore, "Quali dolci suoni odono le mie orecchie! La vendetta che ti pervade, Carena Nera, ti ha reso, se possibile, persino più spietato di quanto tu già non fossi!", si complimentò colei che era stata etichettata come Black Cancer, prima che il massiccio mostro sollevasse Nirra per i capelli con la sola mano sinistra, portando il volto celato dalla maschera all’altezza del suo sguardo.

I piedi della piccola sacerdotessa penzolavano senza forze nel vuoto, a più di un metro da terra, mentre lo sguardo era costretto a rivolgersi verso quello del mostruoso nemico, "Un compagno del tuo maestro mi rubò il diritto di dominare su questa isola, arida, ma luogo in cui m’ero addestrato per anni sotto la direzione del mio incapace insegnante e tu, bambina, sarai la seconda a pagare, giacché quello stupido cavaliere di Andromeda che per anni mi aveva allevato ha avuto già la sua punizione!", rise divertito il gigante, scagliò in aria Nirra, come se non pesasse niente.

La mano destra del gigante, intanto, stava ancora ed ancora roteando la grossa ancora connessa alla catena, provocando un sordo e violento sibilo, mentre scintille, frutto del possente cosmo nemico, seguivano quel roteare, prima che il guerriero oscuro scagliasse l’arma addosso alla fanciulla in caduta verso il suolo.

L’impatto fu violento e terribile, tanto da spingere la sacerdotessa del Camaleonte in pieno mare, diversi chilometri più ad ovest, scomparendo alla vista del duo di nere ombre, che risero di gusto, nel vedere la pioggia di sangue, frammenti d’armatura, vesti e pelle, che scivolava verso il terreno lungo la traiettoria di caduta della giovane avversaria.

L’impatto dell’ancora oscura risuonò come le ossa che sentì spezzarsi nel suo corpo, vibrò come i segmenti di gambali e spalliere che si staccavano, ormai in pezzi, da lei, bruciò come gli altri pezzi che affondavano con violenza nella pelle, lasciando fluire sangue dal punto in cui si conficcavano con violenza.

Non ebbe forza di urlare, Nirra: l’impatto dell’arma avversa le spezzò il fiato, mentre sentiva la mente scivolare via, in cerca di un rifugio da tutto quel dolore, un luogo in cui non dover soffrire così intensamente, dove non sentirsi così incapace, lei, unica allieva di Edward di Cefeo, rimasta sull’Isola di Andromeda ad attendere i suoi compagni d’addestramento, partiti per il Santuario a combattere in dure battaglie e che ora si scopriva incapace di difendere la sua unica vera patria da una coppia di nemici.

La sua mente vagò, ma non verso la salvezza, bensì verso la colpa: si rivide, bambina, mentre osservava le forme dell’Isola che avrebbe chiamato casa, molto più di quanto non avesse mai fatto con nessun altro luogo, si rivide fra le braccia di Edward, la maschera a celarle il volto e permetterle appena di distinguere i lineamenti dell’unico uomo che avrebbe mai realmente considerato suo padre, poiché quello vero, di padre, l’aveva venduta a quel misterioso straniero per quattro soldi.

Ne aveva paura allora, mai avrebbe pensato la piccola Nirra che, in breve tempo, colui che aveva pagato per la sua libertà e perché lei potesse avere un vero futuro, sarebbe stato l’unico vero padre che lei avrebbe mai potuto conoscere, né avrebbe immaginato che quei due ragazzini sconosciuti, trovati anche loro in zone disagiate dell’Africa, sarebbero stati per lei come fratelli ed anche qualcosa di più, specialmente nel caso di Juno.

Proprio del cavaliere di Cerbero le parve di sentire la voce, lontana, ma piena d’affetto e preoccupazione: "Nirra, svegliati!", urlava l’amico tanto amato, prima che una ben più adulta persona aggiungesse, "Non spostarla, potrebbe avere delle ferite interne, lasciala riposare per ora!".

Quasi la giovane sacerdotessa pensò che fosse il suo maestro, che forse, si erano ricongiunti tutti nell’Oltretomba e lacrime calde, sentì, le rigarono le guance, sotto la maschera, all’idea che anche Juno fosse ormai morto.

Fu proprio quella sensazione, assieme ad una voce femminile, a farle aprire gli occhi, letteralmente, quando sentì urlare: "Stanno arrivando due guerrieri neri!", da quella che, guardandosi attorno con sorpresa, scoprì essere un’altra sacerdotessa guerriera, che assieme ad un uomo, entrambi coperti da vestigia immacolate, si stavano preparando ad affrontare i nemici invasori, mentre il cavaliere di Cerbero restava lì, al suo fianco.

"Juno…", sussurrò con la poca aria che sentiva di avere in gola la giovane sacerdotessa, mentre il santo suo compagno d’addestramento, segnato nel corpo e nelle vestigia da passate battaglie, le si avvicinava, accarezzandole appena i capelli, "Non ti sforzare di parlare, Nirra, riposa. Abar, un compagno di addestramenti del nostro maestro, è qui, assieme impediremo che distruggano la nostra casa.", le disse con gentilezza il cavaliere e lei si sentì più sicura ora che lui le era accanto.

Juno di Cerbero, però, non poteva condividere quella sicurezza, così come non la condividevano i due cavalieri che assieme a lui erano, pochi istanti prima, arrivati sull’Isola di Andromeda e subito si erano lanciati alla ricerca della sacerdotessa del Camaleonte trovandola schiantata fra gli scogli, le gambe piegati in modo innaturale, il braccio destro ridotto ad una poltiglia di carne, l’altro ferito e disarmato, così come disarmato era tutto il suo corpo, dove niente restava delle vestigia, e ben poco degli abiti, solo la maschera era stata risparmiata, forse per un beffardo scherzo del destino, forse per un più sadico divertimento del colpevole di tale scempio.

Un colpevole che ora i tre cavalieri d’argento osservavano avvicinarsi con calma: il mastodontico guerriero dalle vestigia ignote a tutti loro, che s’affiancava ad una donna le cui nere vestigia d’oro furono subito riconosciute da Abar di Perseo, che aveva incontrato al Santuario il Custode della Quarta Casa.

E sempre il discepolo di Megatos riconobbe il volto del gigante che stava avanzando minaccioso verso lui e la sua allieva: "Gregor?", domandò sbalordito, spalancando gli occhi dinanzi al guerriero oscuro.

"Quale fortunato scherzo del destino!", rise divertito il massiccio nemico, "Proprio il più colpevole di tutti oggi pagherà, dopo il mio maestro e quella mocciosa, anche tu cadrai per mano mia, Abar, discepolo di Megatos, cadrai per mano di Omega della Carena Nera!", rise ancora, estasiato da tale occasione, scagliando in avanti le massicce ancore.

Fu veloce il cavaliere di Perseo nel prendere per un braccio la propria allieva ed assieme a lei saltare lontano dal punto d’impatto delle due armi, creando una profonda voragine lì dove s’erano schiantate.

"Sapevo che eri stato imprigionato sull’Isola della Regina Nera, ma non avrei mai immaginato che tu fossi diventato una delle Ombre che ci hanno attaccato.", commentò con sgomento Abar, osservando il nemico dalla nuova posizione.

"Lo conoscete, maestro?", domandò stupita Serima della Lacerta, "Lo affrontai per la conquista della mia armatura. Il suo nome è Gregor, discepolo di Aenys di Andromeda.", spiegò prontamente il più anziano cavaliere, "Lo sconfissi nella battaglia finale per questa stessa armatura e giorni dopo venni a sapere che aveva ucciso il suo maestro e gli altri allievi dello stesso prima di essere imprigionato.", raccontò con tono triste.

"Quella è una storia vecchia, discepolo di Megatos! Non esiste più Gregor, ormai sono Omega della Carena Nera, il più potente dei guerrieri oscuri d’argento, comandante dei Quattro e, più in generale, di qualsiasi guerriero sia più debole dei dodici d’oro nero!", si presentò orgoglioso il gigante.

"E tu, così come la tua allieva e l’allieva del tuo vecchio amico Edward, morirete! Mi dispiace solo di non poter uccidere anche gli altri allievi discendenti dagli insegnamenti del Toro d’Oro, ma almeno Degos cadrà per mano del quarto di voi! Questa sarà una soddisfazione!", rise divertito il mastodonte oscuro, espandendo il cosmo malefico che invase l’ambiente con un terremoto di scintille rosse.

"Nessuna soddisfazione, mostro! Pagherai per tutte le tue colpe! Allora non ti uccisi, ero giovane, misericordioso forse, ma non spietato, se però avessi saputo il male che avresti portato nel mondo, avrei agito diversamente! E’ tempo che corregga il mio errore!", ruggì Abar, lanciandosi alla carica contro il nero nemico.

"Eccoti il falcetto che tagliò la testa della Medusa, la lama invincibile di Perseo: Drepani Gorgonis!", invocò il santo d’argento, emettendo con il singolo movimento del braccio destro un fendente di puro vento che volò nell’aria fra lui ed Omega, fino a cozzare contro il gigantesco bersaglio.

Ci volle solo qualche istante, però, per rendersi conto che il fendente non aveva cozzato con il nemico, bensì con una barriera di scintille scarlatte, il tempo necessario perché lo sfrigolare della catena oscura scuotesse via il soffio del vento, rivelando il gigante, circondato da anelli elettrici che si generavano ad ogni nuova rotazione della grossa ancora sinistra.

"Non pensare di avere speranze perché un tempo mi hai sconfitto: non sono più l’individuo che ero allora, non sono più Gregor, sono Omega!", ruggì il nero avversario, "E questa è la mia arma sinistra, la Catena della Devastazione!", imperò, scagliando in avanti l’ancora mancina.

I cerchi d’energia che fino a quel momento lo avevano avvolto, si lanciarono spietati contro il santo di Perseo, trivellando il terreno lungo il tragitto, fino a schiantarsi con violenza addosso al cavaliere, o almeno tale sarebbe stata la sorte di quel potente attacco se una rapida figura non si fosse messa in mezzo: "Kuyruk Isik!", invocò decisa la sagoma, mentre una barriera di luce si poneva fra loro e l’attacco nemico, simile ad una grande coda fatta di pura energia.

"No, Serima!", esclamò preoccupato il santo di Perseo, avvicinandosi a se l’allieva con il braccio sinistro, mentre già, con la barriera creata dall’altra ormai in pezzi, scattava indietro, liberando la lama del falcetto con la mano destra, usufruendo della violenza di quello stesso impatto per distanziarsi di diversi passi.

La furia della Catena della Devastazione fu comunque tale da ferire sia il cavaliere, sia la sua stessa allieva, costringendoli a rifiatare, mentre osservavano il mastodontico nemico poco lontano.

Una risata femminile e sadica echeggiò, catturando l’attenzione di maestro, allieva e del loro avversario: "Mi dispiace, prode cavaliere, ma se speravi di sconfiggere il medesimo nemico che ti trovasti dinanzi anni fa, ebbene, fidati delle mie parole, se non delle sue e dei fatti, non esiste più!", lo schernì la donna dalle vestigia del Cancro Nero.

"Che intendi dire?", domandò dubbioso Abar, "Che Gregor era già un guerriero potente, che tu vincesti perché soggetto a regole, che ora non lo fermano più, e che il giovane arrivato prigioniero e divenuto Omega si è addestrato ed è diventato persino più potente di quanto non fosse come allievo del santo di Andromeda.", rispose soddisfatta la nemica.

"Cosa più importante, però, da quando noi abbiamo preso il controllo dell’Isola della Regina Nera, il buon Carena Oscura è stato fra i primi che abbiamo notato e che abbiamo deciso di avvicinare non con menzogne e promesse, bensì con una proposta, proposta di cui questo è l’ultimo passo: dimostrare il completo ripudio del suo passato di devozione alle divinità, per poi ergersi come uno di noi! Come un Homo Novo!", rise sguaiata la malefica figura.

"Sei una di loro? Una dei Ladri di Divinità?", domandò con rabbia nello sguardo il cavaliere di Perseo, "Ladri di Divinità? Questo è il nome con cui ci etichettate? Mi fate ridere!", esclamò orgogliosa, "Io sono una degli Homines! Portatori di vendetta contro quelle stesse creature che, ritenendosi superiori all’uomo, hanno sempre piegato al proprio capriccio le sorti delle genti umane!", continuò.

"Ho scelto per me il nome della dea della Vendetta, ma non quello è un nome noto solo fra i miei confratelli e consorelle.

Per voi, per le mie origini, sono semplicemente l’Etrusca!", imperò infine, volgendosi di nuovo verso Omega: "E tu, gigante che potresti ben presto prendere il posto che fu del Sole di Accad, o del Vento di Polinesia, o persino del Re d’Africa, uccidi quanti più puoi di questi miseri servi di divinità!", ordinò decisa, mentre l’altro rispondeva con un ghigno, lanciandosi alla carica.

Fu un sibilo a fermare Omega, prima che una grossa sfera chiodata, parzialmente distrutta, quasi lo raggiungesse, iniziando a vorticare attorno a lui, creando un vero e proprio cono di metallo e vento.

"Koklò Timorias!", invocò la voce di Juno di Cerbero, che aveva, durante il precedente scambio di attacchi e parole, raggiunto gli altri guerrieri, ed ora cercava d’intrappolare l’avversario nella spirale di vento feroce.

"Mostro! Pagherai per quello che hai fatto a Nirra!", lo minacciò il cavaliere d’argento, per quanto ferito e dalle vestigia ridotte in frantumi dopo la battaglia da nemmeno un giorno conclusa in Polinesia.

Non bastarono, però, i desideri di vendetta del giovane santo di Atena, né il bruciare del suo cosmo furioso, perché, non appena il vortice della Disperazione avvolgeva il nero nemico, già quello lasciava esplodere il proprio potere cosmico, frantumando gli anelli della catena, distruggendo con un singolo gesto dell’ancora sinistra la sfera chiodata ad essi connessa, prima che, con la destra, investisse proprio il discepolo di Edward, buttandolo al suolo.

Una risata proruppe dal maestoso nemico, "Un altro allievo di Cefeo? Quale fortuna! Forse potrò distruggere ancora di più la stirpe di allievi del Toro d’Oro!", constatò con gusto il guerriero nero.

"Perché tanto astio verso tutti gli allievi di Megatos, Gregor?", domandò allora Abar, già con la guardia sollevata e pronto alla lotta, "Hai del rancore verso di me per averti sconfitto, ma cosa ti hanno fatto Degos ed Edward?", chiese ancora il santo di Perseo.

"Degos, di voi quattro, è assieme all’ormai mio confratello colui verso cui provo meno interesse, povero vecchio stolto! Da ciò che mi è stato detto già ha perso i suoi discepoli e ben presto, sono certo, li raggiungerà, per mano di quello che voi conoscevate come Bjorn!", rispose con sguaiata soddisfazione il gigante nero, lasciando esplodere rosse scintille attorno a se, mentre quelle notizie stupivano il maestro di Serima, tanto da costringerlo a balzare indietro, impreparato alla furia nemica.

"Edward, poi, mi ha tolto la mia eredità: per anni quel vecchio idiota di Aenys diceva che un giorno, come cavaliere di Perseo, avrei addestrato nuovi guerrieri su quest’Isola, che il nuovo santo di Andromeda sarebbe stato un mio discepolo come io ero stato il suo.

In silenzio sopportavo la stupidità e le idiozie del vetusto insegnante, solo perché sapevo che avrei dominato su un’Isola, che seppur non un Re, ma sarei stato un cavaliere d’argento e, chissà, magari un giorno sarei asceso al ruolo di santo d’oro!", ruggì furioso Omega.

"Quando tu mi hai sconfitto, invece, fu Edward di Cefeo a diventare cavaliere e custode di questo pezzo di roccia, fu lui a prendere il posto che spettava a me!", urlò ancora rabbioso, mentre, poco lontano, l’Etrusca rideva divertita, quasi cieca di pazzia euforia.

"Edward è stato inviato su quest’isola perché tu avevi ucciso il tuo maestro e tutti i suoi restanti allievi, maledetto assassino!", lo accusò Abar, scattando avanti, il braccio circondato dall’energia cosmica che fu subito rilasciata sotto forma di una lama: "Drepani Gorgonis, colpisci!", imperò il cavaliere, mentre già il nero colosso rideva di lui.

"Non basterà!", furono le sicure parole del mastodonte, che già caricava il malefico cosmo attorno alle catene, "Non è da solo, mostro!", lo redarguì allora una voce, prima che nuove catene, semidistrutte, gli si lanciassero addosso, "Stomas Catastrophes!", urlò Juno di Cerbero, unendo le proprie forze a quelle del compagno del maestro.

"Gozler Parlak!", aggiunse subito una terza voce, femminile e più gentile, prima che due globi di luce, simili ad occhi, volassero con furia, diretti verso il nero nemico.

Un ghigno rabbioso si dipinse sul volto del gigante, "Catena dell’Annichilimento!", imperò Omega, sollevando l’arma nella mano destra e lasciando che s’alzasse verso il cielo per poi ricadere, con velocità incredibile, sul terreno, circondandolo e creando un cono di scariche rosse, che esplosero come una tempesta, rasente il suolo.

Per primo fu l’attacco di Juno ad essere sconfitto: le sfere chiodate ricacciate indietro, sempre più danneggiate, il vento che le circondava disperso dalla furia di quella tempesta; toccò poi alla tagliente lama d’aria del falcetto, che fu devastata dalla potenza nemica, prima che i globi di luce della Lucertola venissero divorate a loro volta.

"Siete patetici!", li derise superbo il gigante, prima di udire una voce sibilare distante, un suono che nemmeno riuscì a riconoscere, prima di vedere un fascio di luce corrergli incontro, all’altezza del viso, colpendolo, sorprendendolo, e distruggendo il suo elmo.

"Chi ha osato?", ringhiò, guardandosi attorno il gigante, dopo un breve momento di stupore, toccandosi una leggera ferita sulla tempia, prima di notare lo stupore sul viso di Abar e come l’allieva dello stesso fosse ancora immobile, mentre un sorriso furbo si era dipinto sul volto di Juno.

"Il Syntrivi Ouras…", lo riconobbe il cavaliere di Cerbero, volgendosi verso il punto, sugli scogli, doveva aveva lasciato Nirra, la medesima direzione dove lo sguardo malefico del gigante si volse, notando ancora la mano tesa nell’intento d’attaccare, prima che un urlo di cieca rabbia lo invadesse, scattando di corsa verso la giovane e ferita guerriera.

"Dobbiamo fermarlo, o la massacrerà!", urlò per primo il santo di Perseo, riprendendosi dalla sorpresa e correndo addosso al comune avversario, subito seguito dall’allieva e dall’altro parigrado.

L’allievo di Megatos lasciò esplodere il proprio cosmo in tutta la sua potenza, circondandosi di una serie di vortici d’aria, "Asteria Gorgonas!", invocò il guerriero, liberando una pioggia di dardi di vento contro il nemico, che gli cadde addosso, costringendolo a deviare la propria corsa, evitando l’assalto e rivolgersi di nuovo ai tre avversari ancora in piedi.

"Arriverà presto il tuo turno! Aspettalo!", imperò furioso il gigante, liberando la Catena della Devastazione, che, però, si trovò dinanzi ad un doppio ostacolo: il Koklò Timorias, infatti, già aveva circondato Omega, mentre la Kuyruk Isik si era sollevata a difesa del cavaliere di Perseo.

Le due difese combinate esplosero con violenza, ma diede il tempo al maestro di Serima di allontanarsi, portandosi in una posizione rialzata, da cui si lanciò addosso al comune nemico: "Adesso! Algol, risplendi!", invocò Abar, sollevando dinanzi a se lo scudo sull’avambraccio sinistro, il cui sguardo incontrò quello del mastodontico nemico, intrappolandolo in una statua di pietra.

Quando Abar atterrò al suolo, si voltò verso il monolito di pietra che ora brillava al centro del campo di battaglia, per poi scambiare uno sguardo soddisfatto con il santo di Cerbero e la sua stessa allieva, per quanto quella fosse celata da una maschera.

Fu un applauso a spezzare il loro umore: l’applauso di Black Cancer, che era apparsa poco lontano dai tre cavalieri d’argento, di fianco alla statua di Omega: "Molto bravi, siete riusciti, collaborando, a bloccare ed intrappolare nella pietra il mio piccolo protetto.", si complimentò, "Ma, come vi ho detto, io ho preso il nome della divinità della Vendetta e faccio parte degli Homines Novi…", continuò l’Etrusca, "Scontato cosa vi scatenerò contro direi!", aggiunse ghignando, lanciando verso i tre il corpo malandato di Nirra del Camaleonte, che rotolò malamente al suolo, prima che Juno potesse a lei avvicinarsi.

"Maledetta!", ringhiò furioso il discepolo di Edward, osservando la guerriera d’oro nero, che, con un ghigno, sollevò le mani, "Non crucciarti, ben presto sarete entrambi morti!", rise con tono di sfida, prima che delle fiamme si generassero attorno alle sue braccia, fiamme oscure come la sua armatura, che poi scomparvero.

Non ci volle che qualche istante perché le fiamme riapparissero, intrappolando in dei coni infuocati i quattro cavalieri di Atena.

"Nirra!", urlò preoccupato Juno, guardando fra le nere cerchie di fuoco la figura della giovane amica, al suolo, intrappolata in un cono simile a quello si trovava anche lui.

Fu il terrore per la sorte dell’amica a scuotere il cavaliere di Cerbero: per troppo tempo erano stati solo loro due, da quando il maestro Edward era morto, per mano dell’esercito d’Africa, quando ancora ignari delle vere colpe e del motivo per cui Husheif li avesse allontanati ancora di più, avevano trovato solo nella compagnia che si offrivano, della loro sincera amicizia, il modo per vincere la fredda solitudine di quella stessa isola che avevano imparato a riconoscere come la loro casa.

Per rivederla, per stringerla a se, con tutto l’affetto che aveva coltivato, aveva combattuto all’inizio della battaglia in Polinesia! Anche se la rabbia ed il desiderio di vendicare il maestro avevano poi acceso un fuoco vivido in lui, la volontà di rivedere Nirra non era mai scomparsa; per quello, quando aveva avvertito due cosmi correre verso la loro isola, la loro casa, lui stesso si era proposto di portare soccorso, incurante delle proprie ferite e, ancora di più, della ben più grande guerra, fra uomini che credevano in una fede ed altri che credevano solo in loro stessi.

Non potevano distruggere il suo mondo, non voleva che lo facessero, di ciò era certo: già l’esercito d’Africa che serviva i Ladri di Divinità aveva ucciso il suo maestro, mentre uno di quelli stessi individui aveva causato la morte di Husheif, non avrebbe permesso che lo derubassero anche di Nirra e della loro casa!

Fu questa determinazione che portò il cavaliere di Cerbero a far esplodere il proprio cosmo con furia, "Koklò Timorias!", urlò Juno, sollevando, con uno sforzo immane, il braccio destro e lasciando che le catene, ormai pressoché inesistenti, vorticassero attorno a lui, con una rotazione opposta a quella del cono di fiamme, disperdendolo e liberandolo così da quella trappola.

Corse così, ferito, stremato, ormai privo di qualsiasi arma, il giovane discepolo di Edward in soccorso della compagnia, mentre, intrappolato in un altro di quei coni di fuoco, Abar osservava la scena.

Vide il cavaliere di Cerbero provare ad afferrare la compagnia a mani nude, inserendole nel fuoco, stringendo con determinazione i denti dinanzi al dolore, quasi non curandosene, cercando con tutte le proprie forze di liberare la giovane allieva, lacrime che scivolavano dal volto preoccupato, mentre i muscoli si tendevano.

Quella vista animò due sentimenti nel cuore del cavaliere di Perseo: orgoglio, per la grandezza del discepolo di Edward, così come aveva rispetto il primo che aveva incontrato giorni prima, prima della battaglia in Accad e di tutto ciò che vi era seguito; ma oltre all’orgoglio, in Abar si risvegliò il desiderio di aiutare quel giovane, la compassione per la sua condizione, per quanto stremato e ferito lui continuava a combattere per ciò in cui credeva e che gli era caro, come poteva il compagno d’addestramenti del santo di Cefeo fare di meno? Si chiese, lasciando esplodere il proprio cosmo.

"Asteria Gorgonas!!!", invocò il santo di Perseo, liberando una tempesta di correnti d’aria che sventrarono le fiamme dall’interno, sollevandolo alto nel cielo, ferito, ma pronto, mentre con un movimento parabolico si lanciava contro la guerriera d’oro nero.

"Usare due volte lo stesso trucco, non è degno di chi ha trovato la Torre perduta di Babele!", lo derise, senza nemmeno alzare il viso verso di lui, Black Cancer, prima che una muraglia di fiamma la circondasse, detonando poi in un grosso globo oscuro, che investì in pieno Abar, spingendolo al suolo, poco lontano dal cavaliere di Cerbero.

Il discepolo di Megatos si guardò intorno, osservando preoccupato la nera nemica, ben più esile, forse del gigantesco Gregor, ma spaventosamente più potente, per come il cosmo di lei, oscuro e fiammeggiante, sembrava ardere di voglia di morte e violenza.

Cercò di non farsi prendere dallo sconforto Abar, volgendo la propria attenzione verso Juno, "Allontanati, cavaliere!", gli disse, caricando le energie nel braccio destro e rilasciando la Drepani Gorgonis, disperdendo con quel fendente il cono di fiamme e liberando la ferita sacerdotessa di bronzo.

"Grazie…", riuscì appena a bisbigliare il santo d’argento dalle vestigia ormai distrutte, vedendo il respiro, seppur debole, che ancora animava il corpo della compagnia d’addestramenti, prima di volgere il proprio sguardo verso la comune avversaria.

"Serima, abbassati!", sentì urlare al cavaliere di Perseo, che con un secco movimento aveva ora liberato anche la propria allieva, la sacerdotessa della Lucertola, ora di fianco al duo di santi d’argento, pronti, tutti e tre, a continuare la battaglia e salvare l’isola e la giovane compagnia a cui Juno tanto teneva.

"Mi diverta la vostra determinazione, seguaci di una divinità! Forza, bruciate l’ardente desiderio di vendetta che sento sfrigolare nei vostri spiriti, dimostratemi di valere qualcosa!", li spronò derisoria l’oscura nemica, liberando tetre fiamme a circondarla.

Fu proprio Juno il primo a bisbigliare delle parole ai due compagni: "Non ho possibilità di vincerla, anzi, credo che fra tutti noi, solo tu, cavaliere di Perseo, con lo Scudo di cui anche il mio maestro narrava le virtù!", ammise il giovane discepolo di Edward.

"Fosse anche vero, ragazzo, ormai la nemica è ben consapevole della mia arma e di certo non sarà facile catturarla con la Testa del Demone.", valutò preoccupato Abar, "Allora attaccheremo assieme, o uno dopo l’altro se risulterà migliore come strategia, maestro, dandoti modo di trovarla impreparata nel momento giusto per colpire!", suggerì subito dopo Serima.

Il santo di Perseo rivolse un sorriso amichevole alla discepola dal volto mascherato, "Sia quindi: tenteremo il tutto per tutto. Attaccherò per primo, poi voi due, cercherete di trovare una falla nelle sue difese e ferirla, quel tanto perché io possa sorprenderla ed intrappolarla nella roccia, come Gregor prima di lei.", concordò il cavaliere, espandendo il proprio cosmo.

"Asteria Gorgonas!", invocò subito Abar, liberando la tempesta di vento contro la nera figura.

Una spirale di fiamme circondò prontamente l’Etrusca, sollevandosi poi in un ventaglio che investì la furia dei venti, disperdendola fra i diversi combattenti, mentre già Juno correva in mezzo a simili correnti, spiccando un salto ed espandendo fino al parossismo il cosmo, ormai stremato, trovando negli affetti e nei desideri una forza che non pensava di avere più, una forza che produsse una smorfia di disappunto sul volto di Black Cancer, nell’osservare l’altro.

"Floios Trion Epikefales!", invocò il cavaliere d’argento, liberando i resti delle catene e scatenando anch’egli una corrente d’aria, che prese il controllo delle stelle di vento della Gorgone, deviate dalla nemica, rimandandolo contro la stessa, assieme alla potenza del latrato di Cerbero.

Il fuoco attorno a Black Cancer vorticò di nuovo, creando una fitta rete di fiamme, che s’alzò, simile ad un muro, cercando di contenere la furia degli elementi lanciategli contro e, proprio in quel momento, intenta ad una tale difesa, l’Etrusca vide un bagliore sorgere sul suo fianco sinistro, un bagliore simile ad una piccola lucertola, "Kertenkele Yildizli!", pregò Serima di Lacerta, lasciando espandersi il fascio luminoso con potenza verso la nera avversaria.

Lo stupore si dipinse sul viso della Ladra di Divinità, che dovette prontamente sollevare ed espandere il vortice di fiamme che la circondava, aprendolo in un cilindro tutto attorno a se, studiando con lo sguardo tutto ciò che stava nell’ambiente; fu solo così che vide la statua di pietra di Omega, il corpo stremato della sacerdotessa di bronzo ed i due nemici che la stavano attaccando.

In quel momento, con suo grande stupore, l’Etrusca realizzò l’assenza del cavaliere di Perseo!

Istintivamente la donna nemica sollevò il cilindro di fiamme fino a diventare quasi un cono, proteggendola anche da nuovi attacchi dall’alto e fu solo allora che avvertì il rumore di pietra che si spaccava sotto i suoi piedi, "Algol!", udì appena, mentre lo scudo di Medusa, e subito dopo l’intero cavaliere, uscivano, frantumando il terreno.

Poi fu solo silenzio, mentre il corpo di lei diventava una statua di pietra e le fiamme si spegnevano sull’Isola di Andromeda.

In quel silenzio, Juno cadde sulle ginocchia, volgendo lo sguardo, rigato dalle lacrime di felicità, verso la svenuta sacerdotessa di bronzo, poco lontano Serima rimase immobile, poggiando le mani alle ginocchia, riprendendo fiato dopo quel lungo scontro e già il cavaliere di Perseo le si avvicinava: "Hai combattuto bene, mia giovane allieva, sono fiero di te!", si congratulò il maestro.

"Io devo ringraziarvi entrambi! Avete salvato la mia casa e l’unica amica che mi resta degli anni dell’addestramento!", esordì allora Juno, "Non avrei avuto più niente, persi anche loro.", sussurrò con voce spezzata, prima che Abar gli sorridesse: "Non è vero, ragazzo, avresti avuto l’amicizia ed il supporto di me e della mia discepola! Ora avrai comunque la nostra amicizia e, se vorrai, avrete entrambi il nostro aiuto per riparare l’isola!", propose cordialmente il cavaliere di Perseo.

Le parole morirono in gola a Juno, ma non per l’incapacità di ringraziare l’altro, bensì per un cosmo, caldo e malefico, che riempì l’ambiente: il cosmo di Black Cancer, le cui nere fiamme circondarono la sua statua, incendiandola come una grande pira di pietra, "Non è possibile!", ebbe appena tempo di balbettare Abar, prima che un’ondata di pura energia travolgesse tutti i presenti, respingendoli indietro e disperdendoli sul terreno.

"Per un misero mortale che si piega ai limiti concessi dalle divinità, forse, non è possibile vincere il maleficio della Medusa, ma non per me!", rise l’Etrusca, ora libera, osservando con soddisfazione i quattro nemici al suolo e poi la statua che era stata Omega.

"Basta, mi sono stancata di voi.", sentenziò subito dopo, puntando l’indice verso Juno, il quale scoppiò in unico urlo, prima che una fiammata ne avvolgesse le carni, bruciandolo vivo, per brevi, ma terribili secondi, lasciando poi solo un cadavere carbonizzato al suolo, privo di vita alcuna.

Così perse la vita Juno di Cerbero, cavaliere d’argento.

Homines 16: L’Etrusca

Quello che poco prima aveva detto ai suoi nemici era vero: si era stancata, ma non di loro, bensì il suo potere non aveva più una fonte nelle circostanze, per accrescersi ulteriormente e lei trovava incredibilmente stancante usufruire delle sue energie, per quanto, grazie ai rituali di Giano, fossero pari a quello delle stesse divinità che combattevano.

Non si curò delle urla di disperazione dei restanti cavalieri d’argento, ne percepì la rabbia, mista ad immenso dolore, ma non la preoccupò tutto ciò; "La vostra battaglia non è ancora conclusa…", sibilò poggiando un dito sulla statua umana, liberando calde fiamme che scioglievano l’incanto del cosmo del cavaliere dallo scudo di Medusa.

Non ci volle che qualche istante perché Omega, come amava farsi chiamare, fosse libero, perplesso, ma libero.

"Ti avevano imprigionato nella pietra, bestione.", esordì lei con tono beffardo, "Forse non sei così potente come Gemini Oscuro suggeriva, forse ho sbagliato a proporti come nostro compagno.", continuò malefica, "Cosa ne dici? Riesci a sconfiggere almeno quei tre?", domandò sarcastica, indicando i nemici rimasti.

L’esplosione del cosmo di Carena Nera la colpì come un’ondata di piacere: non ne fu realmente investita, ma la rabbia, il desiderio di rivalsa, riacceso da quel nuovo smacco, la saziarono di quella volontà di Vendetta che dall’altro traboccavano.

Ecco cosa cercava: quella furia incontrollabile che rende un uomo simile ad una bestia, portandolo a combattere, credendo di agire per la propria giustizia, per essere ripagati di un torto, ma che, in realtà, è solo un modo per negare la propria evidente bestialità, la stessa che, invece, lei fra tutti gli Homines innalzava al di sopra d’ogni altro valore, puntando alla ribellione agli dei ed alle leggi da loro incise.

Si voltò, la donna guerriero dalle vestigia di Black Cancer ad osservare il proprio pupillo, come lo definiva ogni tanto, poiché, seppur Gregor era stato allievo di un ormai scomparso cavaliere di bronzo, quando era stato da lei adocchiato, ma poi era stato forgiato, forse per un capriccio, forse per il potenziale che vedeva nella sua sete di vendetta, forse solo per far ingelosire Giano, ma lo aveva reso chi era adesso: Omega.

E proprio il gigantesco e malvagio guerriero alzò le due ancora sopra il capo, ruggendo con tale furia da sbilanciare persino i cavalieri d’argento che si stavano preparando a continuare la battaglia, "Vascello della Disgrazia, compi il tuo tragitto!", imperò il mostruoso gigante, liberando in avanti le due catene che presero quasi la forma di una grossa nave, con le ancora in avanti, circondate dal cosmo scarlatto ed elettrico.

Il gigantesco veliero d’energia distrusse il terreno e travolse maestro ed allieva, distruggendo sempre di più le loro vestigia, mentre si alzavano al cielo, intrappolati in quella malefica energia, prima di ricadere malamente al suolo, feriti e martoriati, così al suolo caddero il cadavere del guerriero che l’Etrusca stessa aveva ucciso ed il corpo martoriato della sua amica.

Fu proprio verso quest’ultima che Omega si diresse, "No, Gregor!", cercò di urlare il cavaliere ancora vivo, ma troppo ferito per rialzarsi, prima che il gigante calasse con ferocia le due ancora sul cranio della bimbetta, spaccandola, come un melone troppo maturo, lasciando un martoriato cadavere privo di testa.

Una risata, gutturale e selvaggia, nacque dalle labbra del gigante, mescolandosi a quella soddisfatta di Black Cancer, prima che l’altro si volgesse verso la restante sacerdotessa guerriero, ferita e stremata.

"No!", ordinò secca proprio la donna dalle nere vestigia dorate, "Il suo maestro ha scoperto la posizione dell’antica Torre di Babele, non sappiamo quanto abbia condiviso delle sue conoscenze con l’allieva e, soprattutto, con il Santuario di Atene. Gemini Oscuro e l’uomo della Mongolia tengono particolarmente al progetto legato all’antica Torre, non vorranno rischiare.", spiegò Black Cancer.

"Resteranno vivi il tempo necessario per ottenere da loro ogni notizia e, di certo, verranno estrapolate con estremo dolore!", rise di gusto la guerriera oscura.

Un grugnito di rabbia scaturì dalle labbra di Omega, "Hai altri compiti da adempire: dovrai dirigersi nel luogo dove tutti le Ombre della Regina Nera devono riunirsi per il prossimo passo del nostro progetto, poi potrai ascendere al tuo posto fra noi.", ordinò secca la donna, avvolgendo ambedue i suoi prigionieri in catene di fuoco nero, che maltrattavano la loro pelle, lasciando scappare dolorosi mugolii di sofferenza.

Sentiva il desiderio di ucciderli del gigante mentre si allontanava, sentiva la preoccupazione e la rabbia delle sue vittime, mentre li portava via con se e tutto ciò le dava piacere, poiché lei era l’essenza stessa della Vendetta, come il suo nome dimostrava.

Lei era l’Etrusca, lei era Veive.