Capitolo 5: Bianco, Nero ed Argento – 1° Parte

Nell’Esercito d’Africa, erano considerati i soldati semplici, i guerrieri di grado più basso e, proprio per questo, non meritavano di essere distinti gli uni dagli altri, quindi indossavano tutti vestigia che raffiguravano la medesima creatura: la formica.

Come le formiche, i soldati della Nera Armata avanzavano, distruggendo e depredando, se necessario, ma soprattutto seguendo gli ordini ricevuti, come rigide leggi a cui non si sarebbero mai opposti; spesso morivano, devastati dalla potenza di nemici molto più potenti di loro, a malapena capaci di sviluppare qualcosa di più di un microcosmo, ma, in nessun caso, uno di questi soldati si opponeva agli ordini ricevuti.

Ogni comandate d’Armata li trattava in modo diverso: Ntoro della Quinta Armata li considerava tutti al pari dei nemici e degli altri soldati del proprio plotone, cioè anime che prima o poi avrebbero abbandonato i rispettivi corpi. Per il mastodontico comandante di quella specifica armata, tutti erano solo anime, alcune sarebbero rimaste più a lungo nel proprio corpo per merito della forza che li avrebbe fatti sopravvivere, ma la carne era qualcosa che si decomponeva, prima o poi, quindi non c’era bisogno di pensare alle persone come tali, ma solo per ciò che alla fine di loro poteva restare.

Per Acoran, i soldati semplici della Quarta Armata erano mera carne da cannone: li lanciava all’attacco una volta iniziata l’invasione di un territorio ed aspettava di vedere chi di loro tornava indietro vivo e chi no, quando la battaglia diventava più impegnativa, scendeva in campo, in cerca di chi aveva ucciso più di quelle formiche lavoratrici, li considerava un metro per misurare l’abilità dei nemici, poiché ucciderne uno, in breve tempo, era facile, ma ucciderne dieci, cento, o anche di più, indicava un’abilità degna di essere sfidata.

Gu, Comandante della Terza Armata, amava definirli le prede al servizio dei predatori, così spesso li minacciava, o maltrattava, per il puro piacere di farlo, per sentirsi colui che comandava su quella sottospecie di marmaglia, e come lui, spesso, facevano anche i suoi allievi e luogotenenti nel plotone, tanto che, forse, solo i soldati di quel gruppo erano lieti, quando venivano scagliati all’assalto, contro un avamposto nemico sconosciuto, poiché certi di non trovarvi un nemico terribile quanto il loro stesso Comandante.

L’esatto opposto era Moyna della Seconda Armata, che trattava con eguale gentilezza i propri luogotenenti, i guerrieri ed i soldati semplici, considerandoli egualmente dei fratelli, provenienti dalle stesse terre d’Africa, come lui scelti per combattere in nome del continente dove erano nati e cresciuti, ma da cui, ormai, erano parecchio lontani. Solo i soldati sotto il controllo dell’Aquila Urlante si potevano dire realmente trattati con rispetto, osservati con invidia dai loro parigrado delle altre armate.

Sorte dissimile dalle altre spettava a chi serviva sotto il Primo Generale, Mawu del Mamba Nero: quella donna non aveva alcun interesse per i soldati semplici, troppo deboli per avere anche solo diritto di opporsi ai suoi ordini li reputava, quindi lasciava ai propri luogotenenti il dovere di dirigerli in battaglia con un unico divieto, quello di intromettersi nelle sue azioni durante gli scontri e la conquista di un tempio nemico. Nessuno dei soldati poteva dire se quella fosse una situazione spiacevole o meno, ma erano rinomati i casi in cui, alcune delle Formiche nere, avevano involontariamente rallentato la loro Comandante, subendo una lenta morte, infettati dal veleno del Mamba Nero, che li uccise in una settimana, decomponendo i loro organi interni con terrificante ed inesorabile lentezza, un monito per tutti i soldati della Prima Armata.

Durante la guerra nei templi sotterranei delle divinità Polinesiane, i soldati neri furono utilizzati in largo numero, subendo elevatissime perdite, ma non tutti vennero sconfitti dai bianchi Areoi di quei luoghi, alcuni ebbero una sorte diversa.

I primi a subire tale sorte furono sei soldati formica che si dirigevano, in cerca di nemici sopravvissuti, verso una delle scalinate del tempio di Ukupanipo che collegava con l’esterno; era ormai iniziato da un’ora il rituale che il loro Re, il Leone Nero, aveva attuato già in altri luoghi, seppur in modo diverso, quando questi sei guerrieri si trovarono dinanzi ad un gruppo di nove sconosciuti le cui vestigia erano ben diverse da quelle degli indigeni di quel tempio.

I Nove cavalieri d’argento arrivarono in pochi minuti all’esterno del tempio da cui proveniva quel gruppo di cosmi così immensi; non dovettero nemmeno avanzare oltremodo all’interno di quella che scoprirono essere una strana grotta, che un poco nutrito numero di individui in nero gli si parò davanti.

"Fermi! Chiunque voi siate!", urlò secco uno dei sei strani guerrieri che gli sbarravano la strada. Avevano tutti armature simili, rappresentanti delle formiche, le cui teste, dalle lunghe antenne, costituivano gli elmi, mentre i carapaci coprivano il tronco e le sottili zampe erano poste, come degli anelli, a copertura di braccia e gambe, lasciandole per lo più scoperte.

"Questi sarebbero i guerrieri dell’Esercito Nero di cui parlava il Sacerdote?", domandò ironico Gustave della Lira, facendosi avanti per primo ed avvicinando le mani all’arpa, prima che due figure scattassero sui lati, oltrepassandolo.

"Spiacente, cavaliere, dovresti sapere quali sono le regole del galateo!", esordì una voce femminile, proveniente dalla sua sinistra, "Prima le signore!", continuò una seconda, altrettanto divertita: erano Agesilea e Cassandra.

Le due sacerdotesse guerriero si lanciarono dai due fianchi contro il gruppo di sei nemici, lasciando sbalorditi, per l’avventatezza dell’azione, alcuni dei presenti, fra cui Amara stesso, interdetto dalla stoltezza delle due giovani guerriere, al contrario del santo della Lira, che inveì contro lei due, tornando indietro di qualche passo.

Le due ragazze, nel frattempo, si erano già avventate contro il gruppo di nemici, scagliandosi con determinazione all’attacco: Agesilea, con un salto d’incredibile portata, si era spostata sopra il capo dei nemici e, con una piroetta a mezz’aria, eseguì un veloce calcio discendente, scatenando violente scariche elettriche, che distrussero le vestigia di alcuni dei soldati, fulminandoli sul posto.

Coloro che si salvarono dall’attacco della sacerdotessa dell’Aquila, comunque, non ebbero sorte migliore, giacché la sorella si era portata avanti, aprendo i pugni e caricandoli di luminosa energia cosmica, prima di investire con violenti ganci e diretti le vestigia dei nemici, che andarono in frantumi, procurando la morte immediata.

Non ci vollero che pochi secondi perché la strada fosse di nuovo libera dinanzi alle sottili risate delle due sacerdotesse, compiaciute delle loro capacità di collaborare in battaglia.

Il gruppo ricominciò ad avanzare nel lungo corridoio di roccia che sembrava portarli sempre più in profondità, al di sotto del livello del mare, ma stavolta la marcia non fu silenziosa, poiché Amara prese per se la parola, espandendo la propria voce attraverso il cosmo: "Sacerdotesse ateniesi, ho apprezzato la vostra volontà di sconfiggere in fretta quei nemici, ma, per il futuro vi pregherei di essere più accorti nell’intraprendere uno scontro. Se quei guerrieri fossero stati più potenti di quanto non sembrassero, avreste avuto uno svantaggio ben più grave di quello numerico, limitato solo dalla nostra presenza.", spiegò con fare pacato il cavaliere del Triangolo.

"Appunto! Avevamo il vantaggio del numero, che pericolo potevano mai essere per noi tutti?", sbottò la sacerdotessa dell’Aquila, "Il problema, Acquila, non era l’azione attuata, ma la logica insita nella stessa: il numero è dalla nostra parte.

Probabilmente all’interno di questo tempio dovremo dividerci, quindi potreste trovarvi in una situazione in cui il numero non sarà d’aiuto contro i nemici, per questo vi sto consigliando di essere più accorte, sia voi, sia chi altro era pronto a lanciarsi all’attacco.", concluse Amara, volgendo lo sguardo verso il santo della Lira, che si permise una smorfia di disappunto, alla vista dell’altro.

"Perché sei così convinto che dovremo dividerci, cavaliere?", domandò allora Juno, "Per un semplice fatto, Cerbero: la profondità della caverna, se l’interno della stessa è proporzionata con il tempo che stiamo consumando per raggiungerla, allora sarà necessario dividersi per trovare il punto esatto in cui il cosmo degli dei di questi luoghi viene radunato.", spiegò quietamente il guerriero muto.

Quel quieto avanzare fu però, d’improvviso, interrotto da una forte, e quanto mai innaturale, brezza di vento che si schiantò fra i cavalieri, spingendoli in direzioni differenti, così da schiantarli contro le diverse pareti della grotta.

I cavalieri non ebbero nemmeno il tempo di parlare, neppure Amara poté dare ai propri compagni alcun ordine, che già una voce echeggiava fra loro: "Brina Oceanica!", due sottili parole che risuonarono svelte nell’aria della caverna, prima che questa si riempisse di nebbia.

"Che succede?", esclamò stordito Vincent di Scutum, prima che una folata di vento gli arrivasse incredibilmente vicina, subito seguita da un violento calcio, che sbatté contro lo scudo del cavaliere d’argento, il quale resse bene al colpo.

"Attenzione, c’è qualcuno qui, oltre noi!", urlò lesto l’allievo di Degos, "Non mi dire…", borbottò infastidita Iulia.

Pochi secondi e fu proprio la sacerdotessa dell’Altare ad intravedere un’ombra che le si avvicinava, cercando di affondare con qualcosa di appuntito contro il suo corpo: la visibilità era insufficiente perché la ragazza potesse fare alcunché, evitando del tutto il colpo, l’unica cosa che le risultò possibile fu spostarsi quando la sagoma dinanzi a lei era ormai distinguibile, subendo un impatto fra una sorta di fioretto e le vestigia d’argento che le coprivano la gamba, vestigia che la difesero da quel colpo.

"Sorella, dove sei?", sbottò d’un tratto Cassandra, sentendo il susseguirsi dei violenti attacchi intorno a lei, "Sono qui!", urlò, in una zona indistinta alla sinistra della sacerdotessa del Cane Maggiore, la voce di Agesilea.

Un sibilo, poi un rumore di passi e, in pochi secondi, una sagoma, poco più bassa di lei, fu alla sinistra della Sacerdotessa dell’Aquila, sferrando un violento diretto al fianco della guerriera, prima di muovere una lama sottile nell’aria, per affondarla contro il terreno dove aveva gettato la guerriera ateniese.

Un urlo fu la prima reazione, dovuta al dolore del pugno, della minore delle due sorelle, urlo che fece scattare Cassandra in quella che pensava la direzione dello stesso. "Maledetto vigliacco!", ruggì la sacerdotessa di Canis Maior, circondando il pugno d’energia cosmica, nello scagliarlo contro la sagoma che vedeva delinearsi dinanzi a se.

Il colpo, però, si fermò dinanzi ad una superficie gelida, "Dunque anche il ghiaccio usi oltre la nebbia, vile codardo?", ringhiò furiosa la sacerdotessa, "Placa il tuo colpo, Canis Maior, sono io, Rudmil…", balbettò di rimando la voce del secondo allievo dell’Acquario, la cui barriera di energia gelida si era alzata prontamente alla visione di una sagoma che gli si avvicinava feroce.

Non ebbero però tempo di dividersi i due santi di Atena, che già un’ondata d’aria li travolse, separandoli e schiantandoli rumorosamente contro due pareti opposte.

"Sorella!", urlò Agesilea, ancora al suolo, a pochi millimetri da una lama, che le appariva longilinea e candida in mezzo a quella nebbia, lama che si mosse di nuovo, cercando di affondare nella testa di lei, che, lesta, rotolò sulla propria sinistra, evitando ancora una volta il colpo mortale.

Una terza e poi una quarta volta il misterioso nemico tentò di affondare con l’arma nel cranio della sacerdotessa, ma ambo le volte fu più veloce la guerriera nello spostarsi, evitando il colpo mortale, prima che, anticipando il quinto attacco, Agesilea stessa sferrò un calcio verso la sagoma, spingendola indietro con estrema facilità.

Non ebbe però il tempo di attaccarlo la sacerdotessa, che già la sagoma avversa era scomparsa in mezzo alla nebbia; in pochi secondi, però, la più giovane delle sorelle sentì qualcosa alle proprie spalle e, voltatasi, vide una serie di sottili fili che le ondulavano intorno; tanta fu la sorpresa che le scappò un urlo e la sagoma armata di fioretto, che stava rivelandosi alla sinistra della guerriera, scomparve di nuovo.
"Dannata stupida! Dovevi stare ferma, ti avrebbe colpito ed io lo avrei bloccato!", ruggì infuriato Gustave della Lira, mentre i fili sottili scomparivano nella nebbia anch’essi, "Volevi usarmi come esca, maledetto?", lo accusò di rimando Agesilea.

"Adesso basta, cavalieri!", ordinò d’improvviso la voce di Amara, che echeggiava in tutto il corridoio di pietra, "State facendo il gioco del nostro nemico continuando ad urlare. Calmatevi cavalieri e restate fermi, così che non possa individuarvi, muovetevi con circospezione e non parlate assolutamente.", concluse categorica l’emanazione cosmica, che sembrava provenire da ogni direzione.

"Ha ragione Triangolo!", esclamò, dopo nemmeno un paio di secondi, la voce di Ludwig del Centauro, "Se continuate a parlare vi troverà! Non dovete rendergli il lavoro facile a questa sorta di cacciatore di quart’ordine…", obbiettò con tono derisorio il cavaliere austriaco.

Un silenzio, prodotto da un misto di stupore e disappunto, calò sull’intera zona avvolta nella nebbia; solo Ludwig ancora sorrideva. Un sorriso che si ampliò ancora di più quando intravide una sagoma corrergli contro, con una lama pronta ad affondare nella sua pelle.

Un’esplosione di fiamme illuminò il corridoio di pietra, diradando la nebbia attorno al giovane austriaco, che si lanciò in avanti, spazzando via quella brina ad ogni passo, "Galopp des Rigil!", urlò il cavaliere d’argento.

Alte fiamme circondavano le gambe di Ludwig, fiamme che balzarono in avanti, nella miriade di calci che il guerriero di Atena sferrò alla figura che, solo ora, appariva dinanzi a lui, la figura di un giovane con un’armatura bianca!

La serie di potenti calci infuocati investì lo sterno del guerriero in bianco, impedendo che la lama acuminata, che fuoriusciva dall’avambraccio destro dell’armatura candida, affondasse nelle carni del cavaliere di Atena, che, una volta eseguito il proprio attacco, riuscì con un’abile capriola a rimettersi in piedi, osservando l’altro al suolo, ora, finalmente, visibile.

"Mi scusi, cavaliere del Triangolo, se non ho atteso il suo beneplacito per attaccare questo nemico, ma era un’occasione troppo ghiotta per sfruttare le fiamme del mio cosmo!", esclamò Ludwig, senza curarsi dell’avversario e guardando verso le zone dove la nebbia stava già diradandosi.

"Cercare di ingannare un cacciatore come me, con trucchi del genere è stato quanto meno… offensivo! La brina che si sollevava in Germania nei boschi, con l’umidità era una minaccia ben più terribile.", sbottò divertito il compagno di addestramenti di Wolfgang, osservando l’avversario che ora si stava rialzando.

Era un ragazzino, dal volto, ora segnato da una ferita sanguinante, si poteva desumere un’età di circa quattordici anni, o poco meno, anche il fisico era asciutto sotto la bianca armatura.

Le vestigia, di se stesse, erano una creazione al quanto singolare: due blocchi di squame costituivano i gambali, squame che salivano, connettendosi con il pettorale, ma non con la schiena del guerriero, ricoperta da quelle che sembravano la pinna dorsale di un pesce particolarmente lungo e le pinne della coda, unite in modo da creare una protezione totale dalle spalle fino al bacino.

Non aveva spalliere quella strana armatura, ma due coperture per le braccia pressoché integrali, che arrivavano fino alle ascelle, seppur in modo differente l’una dall’altra.

L’arto destro, infatti, era coperto da un lungo blocco di bianche squame che concludeva, sulla mano, nel volto di un pesce, adornato da una lunga spada, un fioretto, che poteva ricordare nell’aspetto quello di un Pesce Spada; l’altro braccio, al contrario, non aveva di queste decorazioni, bensì una strana membrana che ricopriva per intero le squame dal polso alla spalla, connettendole con il corpo, così da creare quasi un’ala di pipistrello.

Il volto del ragazzo era parzialmente celato da un elmetto che arrivava fino alla nuca, celandone la capigliatura, ma gli occhi, neri come la notte, scrutavano con disprezzo al cavaliere di origini austriache.

"Pensavo che voi invasori aveste tutti corazze nere! Si vede che quei maledetti che ho ucciso finora erano di grado inferiore a voi.", borbottò il ragazzino, pulendosi il sangue dal viso.

Ci fu un attimo di sorpresa fra i cavalieri a quelle parole: a ben guardare il nemico, in effetti, nemmeno lui aveva vestigia oscure, come dovevano averli quelli dell’Esercito Nero; "Sei uno dei guerrieri di questo tempio?", domandò all’istante l’emanazione cosmica di Amara.

Il giovane guardò con un po’ di stupore a quello strano individuo che parlava senza muovere le labbra, riconoscendo in lui la voce di chi comandava in quel gruppo, "Sì, sono uno degli Areoi consacrati al divino Ukupanipo. Kohu dell’Istioforo è il mio nome!", si presentò deciso il ragazzo.

"Istioforo?", ripeté perplessa Agesilea, riunitasi alla sorella leggermente ferita, "Sì, il cosiddetto Pesce Vela, un pesce che prolifera nell’Oceano Indiano.", confermò Iulia dell’Altare, sentendo la domanda della parigrado.

"Precisamente, guerriere mascherate, uno dei tanti servitori del Signore dei Pesci d’ogni mare, l’Istioforo, le cui forme saranno le ultime che vedrete prima di abbandonare questa vita!", minacciò deciso l’Areoi.

A quelle parole, però, Ludwig scoppiò a ridere, lasciando sbigottiti tutti i presenti, compreso il ragazzo, "Trovi le mie minacce così deridibili?", sbottò subito Kohu.

"Non sono le tue minacce da ridere, ma il fatto che tu abbia preso un granchio! Il che, per un guerriero con vestigia da pesce, è una cosa che trovo quasi comica…", ammise il cavaliere d’argento, riprendendo a ridere.

"Che cosa intendi dire? Spiegati!", ruggì, arrossito per la rabbia, il giovane Areoi, "Quello che intende dire, seppur in modo ben poco gentile…", esordì Rudmil, intromettendosi nel dialogo e facendo qualche passo avanti, "è che noi non siamo gli invasori che vi hanno attaccato, noi siamo giunti fin qui per impedire che lo stesso esercito nero contro cui tu stai lottando, riesca nell’impresa di sottrarre il potere alle divinità di queste terre.", spiegò il santo della Corona Boreale.


Per alcuni secondi, il ragazzo guardò a quel folto numero di stranieri con perplessità: in effetti erano differenti dal gruppo di guerrieri che li aveva invasi, ma lui quanto bene li aveva visti?

Quando i nemici erano arrivati, parecchie ore prima, lui era con Aitu del Rombo e con Kanae del Volans, un ragazzo ed una ragazza della sua stessa nazionalità, le Isole Cook, che come lui avevano ricevuto l’onore di servire il tempio a loro più vicino quello di Ukupanipo.

Stavano chiacchierando, discutendo dell’eventuale di tornare nella loro comune patria, magari a nuoto, come si conveniva agli Areoi di quella specifica Avaiki, apparendo dalle acque come spiriti dei mari.

Aitu rideva all’idea di come la gente del posto si sarebbe spaventata nel vederli apparire in quel modo bardati, mentre Kanae ripensava a quanti dispetti d’infanzia avrebbe potuto ripagare con un semplice spavento.

La giornata era simile a tutte le altre, con quella presenza d’immane potere che aleggiava lontana, in terre che nessuno di loro conosceva, né mai avrebbe potuto immaginare di visitare, finché un violento boato scosse dalle fondamenta il tempio di Ukupanipo.

Le urla degli Areoi del Narvalo, della Tartaruga Marina, dell’Anguilla e del Tarpon che ordinavano a tutti i guerrieri di prepararsi ad affrontare dei misteriosi nemici in battaglia, avevano interrotto la calma di quella mattinata.

In pochi minuti, lui ed i suoi due amici si erano ritrovati da decine e decine di soldati neri, tutti incredibilmente simili fra loro, e contro questi nemici avevano usato le loro abilità migliori: Aitu aveva sfruttato le sue doti mimetiche, Kohu aveva sollevato la Brina Oceanica e Kanae, con i suoi incredibili salti, si era affrettata a colpire, velocemente quanto i compagni, gli intrusi, ferendoli anche mortalmente, se le riusciva.

Tutto sembrava anche andare bene, finché qualcuno, o qualcosa, non sfondò una delle pareti di pietra interne del tempio, apparendo nella sala dove stavano combattendo e scatenando una sorta di pioggia di lame appuntite.

L’Areoi dell’Istioforo non fu colpito da quelle armi energetiche, ma sentì chiaramente le urla dei due compagni, tanto che preferì dissipare la nebbia che rinchiudeva la sala, così da vedere cosa fosse successo.

La prima cosa che vide furono decine di guerrieri neri al suolo, alcuni uccisi da loro tre, altri da quella figura che si ergeva suprema su tutto, una donna, dalla voce, le cui vestigia erano ricolme di aculei minacciosi.

La straniera lo guardò con visibile disprezzo, per poi scrutare le altre due figure in bianco, al pari di Kohu, che inorridì nel vedere come Aitu non fosse stato capace di allontanarsi in tempo dalla parete dove si era mimetizzato, subendo tre di quei grossi aculei oscuri, che ne avevano perforato la pelle, uccidendolo sul posto.

Per qualche secondo l’Areoi dell’Istioforo si perse nell’osservare lo sguardo spento dell’amico, prima che un singhiozzo di dolore lo portasse a cercare Kanae con gli occhi: era ancora viva, ma aveva subito una brutta ferita alla gamba sinistra; Kohu stava per avvicinarsi a lei, quando la misteriosa guerriera in nero sollevò un braccio.

"Soldati dell’Esercito Nero, continuate ad avanzare e spazzare via qualsiasi nemico, in nome del nostro Sovrano e del suo Primo Comandante!", urlò decisa, prima di scomparire dalla visuale dei due giovani sopravvissuti, che non ebbero nemmeno il tempo di riunirsi, giacché una nuova ondata di nemici si fece avanti verso di loro.

In quel momento, Kohu si pensò già spacciato, tanto che il suo primo istinto fu di correre verso Kaene, senza nemmeno preoccuparsi di difendersi, quando un bagliore bianco riempì la sala, scomparendo entro pochi secondi, lasciando tutti i guerrieri in nero imbambolati.

"La Tartaruga Marina…", balbettò l’Areoi di Volans, zoppicando verso l’amico ed iniziando a passare in mezzo a tutti quei guerrieri paralizzati, prima che una nuova sagoma bianca entrasse nella sala, urlando euforica e roteando fra le mani la possente lancia: era Maru del Narvalo.

Non servirono più che pochi secondi, a quello che era uno dei quattro guerrieri più vicini allo Squalo Bianco, per vincere una dozzina di stranieri; quando tutto fu finito, Maru e Tara, che lo aveva raggiunto, si volsero verso i due Areoi lì presenti.

"Siamo sotto attacco, ricacciate indietro qualunque straniero troverete sul vostro percorso!", ordinò secco il guerriero armato di lancia, prima di continuare ad avanzare fra i corridoi dell’Avaiki, borbottando qualcosa su come la Tartaruga Marina fosse capace solo di immobilizzare i nemici, non si preoccupasse di finirli.

I due giovani, però, seguirono l’ordine ricevuto, continuando a combattere e supportarsi l’un l’altra, finché, pochi minuti dopo l’emanarsi di quei numeri cosmi che provenivano dalle sale del Primo Guerriero di Ukupanipo, era accaduto qualcosa di strano: vicino ad un acquitrino, dove stavano combattendo contro alcuni di quei nemici dall’aspetto identico, Kanae fu colpita alle spalle, la pelle perforata, come disciolta da qualcosa, che le spaccò lo sterno, squarciandola e lasciandola al suolo, morta.

A quella visione, Kohu scoppiò in un urlo isterico, sollevando la Brina Oceanica ed allontanandosi dal luogo dello scontro; si odiava per quello, ma sul momento il terrore e la disperazione avevano vinto la sua volontà di guerriero e solo dopo diversi minuti, interminabili, aveva ripreso controllo di se, proprio poco prima di incontrare quei nove stranieri.

Ora era lì, da solo con degli sconosciuti che non assomigliavano ai nemici che aveva combattuto fino a quel momento, ma l’ordine di Maru ancora gli echeggiava nella mente: ricacciare indietro qualunque straniero e, di certo, quelli non erano Areoi.

Con un urlo di rabbia, la stessa repressa fino a quel momento per la morte di Aitu e Kanae, si lanciò in un affondo diretto contro l’invasore che stava ridendo di lui.

Ludwig fu veloce nell’evitare quel blando affondo portato con il fioretto, un colpo che, comunque, era ben più lento di quelli a cui lo aveva abituato addestrarsi con Wolfgang; l’assalto non fu che il primo di una serie di colpi, che si andarono tutti a perdere ai lati del cavaliere d’argento, abbastanza svelto da evitarli tutti.

"Forse prima non lo hai capito, ma noi non siamo i tuoi nemici! Siamo qui per impedire, anzi, che i guerrieri in nero riescano nel loro fine ultimo!", lo ammonì con decisione il santo del Centauro, bloccando con un rapido calcio ascendente un altro affondo, per poi spostare l’arma con le gambe stesse, "Basta giocare, Areoi!", lo avvisò infine, cercando di piegargli il braccio con la forza della gamba.

"Non sto giocando, straniero, sei tu che mi prendi sottogamba!", lo accusò Kohu, spingendosi dal lato opposto con un veloce colpo di reni, "E fai molto male.", lo ammonì, prima di muovere il braccio libero, rivelando come quella specie di ala fosse in realtà una grossa vela, quasi arrotolata intorno all’arto del giovane Areoi, che la fece cozzare contro il corpo del cavaliere, sbalordito ed impreparato a quella semplice, quanto inattesa, azione.

Quella larga vela coprì completamente la visuale del santo di Atena, prima di spingerlo indietro con una forza inattesa, che fece schiantare il santo d’argento contro la parete di pietra alle sue spalle.

"Cavaliere!", urlò Vincent di Scutum, iniziando a portarsi avanti di qualche passo, ma subito fermato da un gesto di Amara: "La battaglia è di Centauro, lasciate che sia lui a combatterla.", sentenziò il santo del Triangolo, attraverso la propria emanazione cosmica.

I due giovani guerrieri, intanto, erano di nuovo l’uno dinanzi all’altra: il fioretto dell’Areoi puntato verso il giovane austriaco e la vela, attorno al braccio sinistro, leggermente aperta ed ora completamente visibile; d’altra parte Ludwig stava espandendo il proprio cosmo, che ora accendeva le gambe del cavaliere, brillanti di fiamme.

"Sembra che tu non voglia capire, ragazzo, noi non siamo qui come nemici, ma per aiutarvi contro l’esercito invasore.", ripeté il santo d’argento, "Siete stranieri, vi devo ricacciare all’esterno dei confini dell’Avaiki!", ringhiò deciso Kohu, espandendo un vorticoso cosmo, che andò a circondare il fioretto, "E tu sarai il primo!", minacciò infine.

"Taglio delle Onde!", urlò l’Areoi dell’Istioforo fendendo l’aria con la propria arma, circondata dal cosmo vorticante; "Gallopp des Rigil!", replicò Ludwig, sferrando una velocissima serie di calci infuocati.

Il fendente di vento passò attraverso i calci con un’elevata precisione, arrivando ad investire sulla spalla sinistra il giovane cavaliere d’argento, ma, al qual tempo, i velocissimi colpi dell’austriaco investirono in pieno lo sterno scoperto dell’Areoi, così da ottenere, come unico effetto, che i due avversari si scagliassero vicendevolmente l’uno lontano dall’altro di diversi metri.

Due ombre erano state richiamate da quel susseguirsi di rumori, due guerrieri che avevano ricevuto un unico ordine: eliminare qualsiasi individuo che non facesse parte del loro esercito.

Membri di una delle cinque armate, erano stati inviati, assieme agli altri due loro compagni sopravvissuti fino a quel momento, nella zona più esterna del tempio Neozelandese; si erano divisi dai loro compagni, giacché, al contrario di questi, loro non erano allievi di uno dei cinque comandanti, quindi avevano bisogno di dimostrare le virtù in battaglia, di ottenere quel valore che li avrebbe fatti diventare famosi, dandogli dei diritti sui territori conquistati, sui nemici sconfitti, tutto ciò che il Leone Nero ed i suoi fedeli Cinque dividevano fra i membri dell’Esercito di grado superiore alle milizie Formica.

La brama di gloria li aveva divisi dagli altri due compagni d’arme, ma era stato il susseguirsi di rumori, assieme all’alto numero di cadaveri dalle vestigia di formiche, a spingerli a seguire quello stretto cunicolo in cui entrambi passavano a malapena.

Quasi non credevano ai loro occhi quando avevano visto una fitta e, quanto mai innaturale, nebbia riempire la strada che percorrevano e poi sentire lo scambio di frasi fra così tanti nemici che, grazie ai cosmi delle divinità richiamate su quella terra li avevano nascosti.

Le due ombre sinistre osservarono con attenzione lo scontro fra quel gruppo di sconosciuti: uno aveva un’armatura bianca, propria degli indigeni di quelle terre, gli altri erano coperti da vestigia ancora più dissimili dalle loro e stavano ingaggiando battaglia.

Con un sorriso, il più anziano dei due guerrieri in nero osservava quella lotta, scrutando con stupore lo scontro fra l’attacco di vento dell’Areoi e quello di fuoco dello sconosciuto, "Stai attento alle loro azioni, Kalumba, potrebbe esserci utile sapere il loro modo di combattere.", aveva suggerito al compagno, continuando a scrutare quella piccola folla riunita.

I due nemici, intanto, continuavano, stupidamente, a combattersi fra loro: ancora un affondo dal difensore di quelle terre, un colpo che andò a vuoto, poiché rapido il suo avversario si spostò, poggiando i piedi contro la parete a lui più vicina per effettuare un’agile capriola a mezz’aria, con cui sferrò un violento calcio verso il volto dell’Areoi, facendolo barcollare indietro.

Da quelle poche azioni dei due erano già state ottenute così tante nozioni che Kalumba, voltatosi verso il compagno d’arme, chiese con avidità: "Li attacchiamo, Mulungu? È il momento propizio, non hanno più segreti per noi!", esclamò gioioso, lasciando esplodere il proprio cosmo.

Lo scontro fra Kohu e Ludwig stava continuando da troppo tempo, almeno secondo il punto di vista dell’Areoi; aveva già usato due delle sue tecniche, senza ottenere elevati risultati, gli restava l’ultimo attacco, il più potente, quello che avrebbe sfruttato tutte le qualità delle vestigia dell’Istioforo, ma se anche quel colpo fosse andato a vuoto, o se il nemico fosse riuscito di nuovo a contrastarlo, allora le possibilità di vittoria sarebbero scemate sensibilmente.

Tanto più, convenne fra se il guerriero in bianco, che quello era solo il primo di nove avversari: anche se fosse stato poi possibile sfruttare di nuovo i poteri della Bruna Oceanica, questo non gli avrebbe dato ragione degli otto restanti avversari: già aveva capito che almeno alcuni di loro non erano così avventati da gettarsi alla cieca in battaglia.

Queste riflessioni portarono l’Areoi ad un’unica conclusione: eliminarne il più possibile con un solo attacco! Così avrebbe anche ubbidito all’ordine ricevuto, anche se poi sarebbe rimasto privo di segreti dinanzi a quei nemici, il che sarebbe stato per lui un problema parzialmente… almeno avrebbe raggiunto Aitu e Kanae con il diritto di guardarli negli occhi, quando Kilioa avrebbe reciso il filo della sua vita.

Era pronto, si disse, poteva rischiare il tutto per tutto, serviva solo il momento appropriato, intanto, avrebbe continuato ad attaccare con il fioretto.

Ludwig del Centauro era un po’ stufo di quel ragazzino che sembrava non capire: non erano loro i nemici che doveva combattere, bensì i guerrieri in nero, gli stessi che i cavalieri d’argenti erano pronti ad affrontare, ma che, al momento, non si vedevano minimamente.

Il giovane austriaco non si sforzava nemmeno di comprendere i motivi che spingevano il suo avversario a non ascoltarli, semplicemente, per il suo punto di vista, quel combattente indigeno li stava rallentando e, cosa ancora più grave, lo indeboliva, ferendolo, poiché, al contrario di Ludwig stesso, quel Areoi non si stava trattenendo negli attacchi: anche quando aveva colpito il volto del ragazzo con un calcio ci era andato leggero, evitando di usare il proprio fiammeggiante cosmo, che avrebbe anche potuto staccare di netto la testa dura di quel guerriero dal corpo.

Tutta l’attenzione che ci metteva nel colpire Kohu, però, faceva perdere tempo a tutti loro, il cavaliere del Centauro lo sapeva, come aveva intravisto dallo sguardo impaziente del santo della Lira, che probabilmente sarebbe stato molto meno compassionevole verso quel giovane, che aveva solo sbagliato nemico contro cui scagliarsi. Nessuno degli altri parigrado appariva altrettanto desideroso di concludere quello scontro, ma, alla lunga, perdere tempo lì avrebbe impedito che il rituale fosse fermato, il che sarebbe stato una sconfitta sia per i guerrieri di Atena sia per gli Areoi, però il ragazzo sembrava non capirlo.

Dopo l’ennesima schivata, comunque, Ludwig si decise: avrebbe usato una tecnica adatta ad indebolire e fermare quel ragazzino, si sarebbe scusato in seguito con lui, alla fine di quella guerra.

Fermi l’uno dinanzi all’altro, con le due sacerdotesse guerriero ed il cavaliere di Scutum dietro Ludwig, i due combattenti erano pronti a scatenare ciò che avevano tenuto in serbo per quel momento: già fiamme e vento sembravano tornare a vorticare in quella galleria, quando un terremoto la scosse fino alle sue fondamenta, nelle profondità del mare.

L’esplosione fu devastante, ma, al di là dello stupore per le rocce che s’agitavano, pronte a crollare sui cavalieri, vi era qualcosa che li sconvolse ancora di più: due mastodontiche figure dalle armature nere, in lontananza!