Capitolo 31 – Intermezzo 3

Annaspava dolorante su quelle dure rocce, con una mano cercò un appiglio per risollevarsi, ma un piede, spietato e coperto da uno scuro calzare, gli schiacciò le dita, provocandogli un sibilo di dolore, poiché troppo debole anche per urlare.

"Hai dunque finito di agitarti, moccioso?", domandò la figura dal lungo mantello con cui da diversi minuti combatteva.

Anzi, non la stava combattendo, ma ne stava subendo l’inesauribile furia, questa la verità che arrivò lampante alla mente di Ilio dello Scultore, secondo discepolo di Sion, il sommo sacerdote di Atene.

La mano deforme di quella guerriera, che le sue compagne chiamavano semplicemente "Inuit" si strinse sui capelli del ragazzo, che ne avvertì la deformità: quattro sole dita, anziché cinque, pareva quasi che l’anulare mancasse dalle stesse e che indice e medio fossero più corti del normale, dita deformate da delle ferite, come aveva potuto vedere durante i primi istanti della battaglia, gli unici che era riuscito a passare in piedi.

"Non hai più forze per combattere?", domandò ironica la voce di colei che aveva invaso il Jamir con le sue compagne, mentre il rumore dei frammenti distrutti delle vestigia dello Scultore, che cadevano al suolo, tintinnava alle orecchie del ragazzo.

Un sordo rimbombo, poi, catturò l’attenzione di entrambi, un suono proveniente dal palazzo alle spalle della nemica, il palazzo che Ilio avrebbe dovuto difendere e che, proprio mentre lui subiva quella pesante sconfitta, veniva saccheggiato dalle altre due.

Il suono era stato prodotto da un violento colpo, qualcosa di devastante, che parve scuotere fin dalle fondamenta quell’edificio, prima che una voce urlasse dal suo interno: "Gallica, non abbiamo bisogno di distruggere ciò che qui resterà, non abbiamo niente da temere in questo palazzo!".

Pochi istanti dopo, le due avversarie uscirono dalla medesima finestra da cui erano entrate: per prima sbucò, compiendo un impavido salto, la guerriera con lo spadone, che piantò al suolo, segnando il terreno con la violenza del suo arrivo; poi scese, con ben maggiore eleganza, agitando l’ampio mantello dietro di lei ed apparendo quasi avvolta in un abisso di fredda energia, la seconda, colei che pareva comandare quel trio di assalitrici.

"Inuit, non hai ancora finito con quel piccolo guardiano?", domandò proprio quest’ultima, "Ancora un attimo, Coreana, volevo divertirmi un altro ad infierire su questo fanciullino…", replicò indispettita l’altra, prima che su tutti quanti si rivelasse, sovrastandoli, un’altra emanazione cosmica, che parve comparire da ogni direzione, prima di concentrarsi proprio al loro fianco.

"Non hai altro tempo per i tuoi giochi, Inuit, eliminalo, il mio compagno e secondo al comando della nostra confraternita, ci chiama.", sentenziò decisa la Coreana.

L’attenzione dell’altra, a quel punto, si volse di nuovo su Ilio: "Dimmi, ora, ragazzino, vuoi morire, o preferisci rinnegare il tuo maestro e tutto ciò che può averti trasmesso negli anni?", chiese divertita la guerriera e, per un attimo, al giovane cavaliere parve di vedere il volto di lei, un volto deformato tanto quanto le sue mani, occhi ricolmi di sadica e perversa follia.

"No, non rinnego il mio maestro, il Grande Sion è stata la persona che più di tutte ha cambiato in meglio la mia vita.", esclamò deciso, con il volto rigato da calde lacrime, il giovane santo di bronzo.

"Sbagliato, ragazzo: il tuo maestro è stato la causa della tua fine.", concluse secca l’avversaria, aprendo la mano libera contro l’addome del ragazzino e lasciando esplodere verso la stessa una scarica d’energia cosmica che, simile ad un’onda violenta, ne investì le deboli carni, dilaniandone e gettandolo nell’abisso che si apriva al di là del palazzo che il piccolo aveva difeso sacrificando la propria vita.

Nessuna delle tre che avevano invaso il Jamir si preoccupò della vita che s’era appena spenta, semplicemente si voltarono verso una condensazione d’energia che s’andava materializzando poco lontano da loro.

"Che anche gli altri abbiano concluso le loro missioni?", domandò d’un tratto la donna con la grossa spada, "Non saprei, Gallica. Credo che l’Azteco e gli altri non avranno problemi nella loro missione, ma per ciò che riguarda il rituale in Polinesia…", le parole, però, morirono in gola alla donna che dirigeva quel trio, quando avvertì il fluire del cosmo nelle lontane terre a sud del mondo scomparire: anche quel rito era stato concluso, come quello di Baal poco prima.

"Tutto è pronto dunque!", esclamò lieta la Coreana, "Ben presto ci riveleremo al mondo!", esultò la Gallica, "E daremo battaglia agli dei!", concluse soddisfatta l’Inuit.

Pochi istanti e di quelle tre guerriere non rimase ombra alcuna nel Jamir, solo un nuovo cadavere e la mancanza delle riserve di Polvere di Stelle indicarono il loro passaggio.

***

Un rumore catturò l’attenzione dell’uomo che si trovava in quello spiazzale, il rumore di passi che lo raggiungevano lì, nello spiazzo di Anduruna, il palazzo centrale della città di Accad, la città degli Ummanu.

Aruru di Golem, che non si era unito al proprio sovrano, a Ninkarakk ed ai cavalieri di Atena nell’accogliere chiunque si fosse presentato alle Mura esterne della città, per alcuni istanti, temette per il peggio, ma quando vide avvicinarsi le diverse sagome di coloro che già conosceva, compagni da lungo tempo, o inattesi alleati che prima erano stati nemici dei giorni passati, si rilassò, nel notare che stavano tutti tornando indietro, accompagnati da altri due sconosciuti le cui vestigia, però, erano vagamente simili a quelle degli altri guerrieri di Grecia, quindi, probabilmente, erano loro parigrado.

"Hai finito con queste riparazioni, Ummanu?", esclamò di scatto Damocle di Crux, ma fu un semplice gesto di Zong Wu dell’Auriga ad invitarlo a tranquillizzarsi, "Di certo, se gli farai fretta, il lavoro che egli si è offerto di fare per noi, riparando le nostre vestigia, non ne guadagnerà in qualità.", lo ammonì il discepolo del Vecchio Maestro di Cina.

"In questo hai ragione, cavaliere, ma non posso che essere d’accordo con Damocle stavolta: i nostri pari, i compagni che con alcuni di noi si sono addestrati negli anni passati, stanno adesso rischiando la vita in battaglie dure quanto quelle che noi abbiamo vissuto qui ad Accad, probabilmente, non possiamo certo restare quietamente con le mani in mano.", osservò Wolfgang, che aveva iniziato ad agitarsi, una volta saputo che anche Ludwig era, in quel momento, impegnato in una qualche battaglia, temendo per la vita dell’amico d’infanzia e d’addestramenti.

"Agitarsi non sarà d’aiuto a nessuno, né turbarvi vi aiuterà a riprendere le forze, cavalieri d’argento, piuttosto approfittate del riposo che ancora vi è concesso per preparare il vostro corpo per la battaglia. Vi ricordo che non è passato nemmeno un giorno dalla fine della battaglia qui ad Accad, anzi, solo poche ore fa tutti quanti versavate in gravi condizioni fisiche, con le vestigia fin troppo gravemente danneggiate per essere utili ad alcunché, mentre ben presto potrete combattere di nuovo.", li avvisò il cavaliere d’oro dello Scorpione, invitandoli dunque alla calma.

"E’ però vero che il tempo che sta impiegando per ripararci le vestigia è ben maggiore di quello occupato, giorni fa, dal saggio Ea.", sottolineò con un po’ di titubanza la stessa Gwen del Corvo, trovando in un cenno del capo di Dorida della Sagitta un segno d’assenso alle proprie parole.

"Ciò che dici corrisponde a verità, sacerdotessa guerriero.", confermò Marduk, intromettendosi nel dialogo, "Dovete però considerare che, al contrario del Saggio Ea, che aveva decenni di esperienza sulle proprie capaci spalle, noi, che da lui abbiamo appreso molto, siamo giovani, tanto quanto voi quasi, quindi abbiamo bisogno da ben più tempo per raggiungere risultati che ai suoi siano almeno paragonabili.", spiegò il Sovrano di Smeraldo ed a quelle parole nessuno dei presenti poté obbiettare alcunché.

"Questo lo sappiamo, ma immagino anche voi possiate capire, Re degli Ummanu, la nostra rinnovata urgenza.", aggiunse allora Leif di Cetus con un tono di voce che, per quanto apparentemente impassibile, pareva tradire parte della sua preoccupazione per Rudmil, suo compagno d’addestramenti, "Vorremmo solo sapere se la riparazione delle nostre armature sta proseguendo in modo spedito o meno.", concluse.

Marduk osservò il nordico guerriero e poi gli altri suoi compagni, quindi con un triste sorriso, di chi in quei giorni aveva perso quasi tutti gli amici e gli affetti, accennò d’aver capito le parole dell’altro, prima di volgersi verso Aruru, il quale aveva fino a quel momento ascoltato in silenzio, continuando il proprio lavoro, ma, non appena il Sovrano gli volse attenzione, alzò il capo, pronto a parlare.

"Ho già completato le riparazioni di quasi tutte e sette le vostre armature, solo le ultime due, e su una già ho iniziato i lavori, mancano all’appello.", spiegò l’Annunaki, indicando i frammenti delle vestigia della Croce del Sud e, poco più distanti, quelli della Musca, appartenente a Bao Xe.

"Ho, però, notato uno strano effetto… qualcosa di inatteso…", aggiunse con un po’ di timore il guerriero del Golem, catturando l’attenzione dei presenti, "Le armature che ho riparato sono rinate con delle forme vagamente diverse.", continuò, invitando ad osservare loro stessi le cinque vestigia già pronte.

In effetti, ciò che i santi d’argento, così come gli altri due Annunaki ed il cavaliere d’oro, si trovarono davanti era leggermente diverso da quel che ricordavano. Prima di tutto, i colori di alcune armature erano parzialmente cambiati: non tanto Cetus, che manteneva le sue tinte bluastre e grigie, o quella di Corvus con il suo tipico colore argenteo scuro, bensì le altre erano differenti per tonalità, che spaziavano verso un bianco candido per i Cani Venatici, ora più chiare, un verde che si mescolava al naturale colorito dell’Auriga ed una presenta di rosso fuoco fra i riflessi blu della Sagitta.

"Com’è possibile tutto ciò?", domandò sbalordito Wolfgang, volgendosi verso l’Annunaki che le aveva riparate, ma non fu lui a dargli una spiegazione, bensì Ascanus di Scorpio.

"Tutto ciò è più che naturale, giovani cavalieri: le vostre vestigia sono rinate a nuova vita grazie al sangue mio e del sovrano di Accad, che, per ciò che ho potuto di lui osservare, può essere paragonabile ad un cavaliere d’oro, in quanto a virtù cosmica.

Non è la prima volta che succede, sappiatelo. Ci sono diversi racconti di vestigia, appartenenti a diversi santi consacrati alla dea Atena che nel corso dei secoli, e delle varie guerre sacre, hanno avuto modo di riprendere vita grazie al sangue di guerrieri d’alto rango, che sacrificavano parte della loro linfa vitale per renderle più potenti.

Il Sommo Sacerdote mi narrò che, tanto più grandiosa è la virtù cosmica che sta alla base della rinascita di un’armatura, tanto più potente sarà il cambiamento nella stessa.

Si narra che, in tempi passati, persino il sangue della dea Atena, il suo Ichor, sia stato usato per dare nuova vita ad alcune armature, oltre che sia famoso per le sue sacre virtù di cura.", accennò il santo d’oro, ma non si dilungò oltre in spiegazioni su ciò che nemmeno lui comprendeva poi così a pieno.

"Come mai non è successo niente di simile quando l’anziano Ea ha riparato le nostre vestigia giorni fa?", domandò allora Dorida, incuriosita da quel cambiamento, per quanto non potesse negare che quelle sfumature rosse sull’armatura fossero di suo gradimento.

"Probabilmente perché egli da solo ha donato per le nove armature di noi cavalieri, che eravamo fin qui giunti, una quantità di sangue ben minore di quanto abbiano singolarmente offerto il maestro Ascanus ed il nobile Marduk per le sette vestigia di noi sopravvissuti alla guerra in questi luoghi.", suppose Bao Xe, prendendo la parola e trovando in un cenno del capo del suo insegnante una verosimile conferma a quella sua ipotesi.

"Provatele, cavalieri. Probabilmente percepirete fin da subito il cambiamento.", suggerì a quel punto il santo di Scorpio, lasciando che i cinque espandessero i loro cosmi, richiamando le rispettive vestigia.

L’armatura di Wolfgang risultò, oltre al colore, aver ricevuto dei leggeri cambiamenti anche da un punto di vista estetico: i gambali erano pressoché identici, così come la protezione per le braccia, mentre la cintura si era leggermente allargata, specialmente sulla schiena del cavaliere, dove ora raggiungeva quasi l’incavo delle gambe, come una vera e propria coda canina, seppur rigida; il pettorale, poi, aveva ora un colore pressoché quasi uniformemente tendente al bianco, con degli sprazzi del colore che precedentemente era dominante, ma, oltre questo, era anche più lunga, aprendosi nella forma di un triangolo rovesciato verso l’addome, fino a quasi congiungersi con la cintura stessa, al contrario, le spalliere, erano solo leggermente più lunghe.

La vera differenza, comunque, risiedeva nell’elmo a corona, di cui le caratteristiche antenne, le orecchie di uno dei due cani da caccia, guadagnavano ora aumentavano larghezza del diadema, anziché la lunghezza, essendo più corte, ma doppie, poiché relative ad ambo i Cani Venatici.

Le vestigia di Leif si scoprirono essere ora ben più integrali di prima: i gambali, così come le spalliere, erano pressoché identiche, al contrario, il corpo del cavaliere aveva ben maggiori protezioni, poiché il cinturino, simile ad un gonnellino per le forme, aveva ora non più solo quattro piastre difensive, bensì ne contava sei, per l’aggiungersi di due a protezione dell’inguine e della zona posteriore della vita; allo stesso tempo, anche il pettorale copriva una zona maggiore poiché gli addominali non erano più parzialmente scoperti, ma completamente celati da nuove piastre, di un blu intenso, che andavano a connettersi con la cintura.

L’elmo non aveva subito variazioni d’alcun genere, ma, ben rilevante, era lo scudo sul braccio sinistro, ora molto più ampio ed atto ad una vera e propria funzione difensiva per il cavaliere di Cetus.

L’armatura di Zong Wu risultava leggermente diversa nel colore, che ora aveva degli sprazzi color smeraldo che si combinavano alle originali tonalità della stessa, ma più di questo, erano le diverse parti della stessa ad essere cambiate: se, infatti, il tronco della corazza risultava immutato, così come l’elmo, altrettanto non si poteva dire del resto. La cintura, ora, aveva una funzione coprente anche davanti, con delle piastre che, vagamente, avrebbero potuto ricordare, a chiunque le avesse viste, quelle delle vestigia dello Scorpione; i gambali erano molto più lunghi, fino quasi all’inguine, dove non arrivavano con forme cilindriche, bensì dentellate; allo stesso modo, le spalliere non erano più a campana, bensì avevano preso una forma a foglia che, almeno al parigrado scandinavo, ricordarono quelle dell’Acquario.

Il più evidente cambiamento, però, era nelle protezioni per le braccia, poiché due dischi aggiuntivi, oltre quelli che erano ancora posizionati sulla cintura, si trovavano ora su quelle, dischi che, verosimilmente, avevano una doppia funzione, difensiva ed offensiva, nelle mani di un capace cavaliere dell’Auriga.

L’armatura di Gwen, fra tutte, era quella con i minori cambiamenti: né l’elmo, né i gambali erano diversi, così come la struttura del busto, solo leggermente più allungata, fino a metà del bacino e stretta al corpo; più evidenti erano le modifiche alla cintura, dove il cinturino, anche in questo caso, era stato sostituito da un insieme di quattro piastre, poggiate le une di fianco alle altre, per coprire l’intera area dalla cinta fin quasi a metà delle cosce.

Infine, le protezioni delle braccia erano ora adornate da quelle che sembravano delle piume sulle estremità, delle sottili lame, tre per ogni avambraccio, che dalle stesse si spandevano, quasi fossero armi utili in battaglia a chi indossava le vestigia del Corvo.

L’armatura di Dorida, infine, oltre a delle striature rosse che adesso la adornavano, aveva subito diversi cambiamenti: strisce parallele salivano lungo i gambali, simili al piumaggio di una freccia, ed allo stesso modo i gambali stessi avevano, nella loro estremità al di sopra delle ginocchia, una forma a piuma, poiché scivolavano verso il basso, proteggendo, rispetto alla versione precedente, leggermente meno.

La cintura e le spalliere, al contrario, erano rimaste identiche, mentre il pettorale era ora simmetrico da ambo le parti e caratterizzato da due strisce rosse che salivano lungo la zona delle ascelle, quasi a ricordare l’asta di una freccia; le protezioni per le braccia, ora, erano perfettamente identiche, ambedue corte, così come, nella versione originaria, lo era quella del braccio sinistro.

L’elmo, infine, aveva sull’estremità una punta di freccia rossa stilizzata, il simbolo di quelle vestigia, le vestigia della Sagitta.

"Sembrano aver preso nuova vita! Non avevo mai sentito così leggere, eppure potenti, i Cani Venatici su di me!", esultò sorpreso Wolfgang, saltellando sul posto, "Anche l’armatura di Cetus, sembra persino più adatta per i freddi luoghi da cui provengo!", concordò Leif, mentre Zong Wu accarezzava sorpreso i due dischi aggiuntivi connessi agli avambracci, così come Dorida seguiva con le dita le rosse striature sulla propria armatura.

"Le nostre vestigia hanno ora una forza tutta nuova, sono realmente rinate.", analizzò gioiosa Gwen, nell’osservare le redivive forme della corazza del Corvo su di se.

Damocle e Bao Xe, unici a non avere ancora l’armatura, osservavano di quando in quando i compagni, per poi passare a guardare Aruru al lavoro sulle vesti del primo.

Ascanus, nel frattempo, così come Abar di Perseo, volgeva il proprio sguardo in lontananza verso i luoghi dove ancora si combatteva in quel lungo giorno.

***

La battaglia fra Mawu del Mamba Nero ed i guerrieri riuniti di Atena ed Ukupanipo stava ancora combattendosi, quando un rumore di passi s’udì all’interno della sala del comandante dell’Avaiki subacqueo.

"Hirihihihi! Sembra che qui ancora si combatta!", esclamò una voce, introducendo due sagome che dal nulla parvero apparire in quella chiusa sala di solida roccia.

Fu l’individuo seduto sul trono di pietra il primo a volgere loro la sua attenzione, senza però dire parola alcuna, tanto era sbalordito, "Che ci fate voi due qui, confratelli?", domandò, invece, il Leone Nero, ben più lesto nell’esprimersi.

"Africano, cosa possiamo mai fare qui? Stiamo eseguendo un preciso ordine.", rispose quello che per primo aveva parlato, avanzando di qualche passo e rivelando il pregiato mantello dalle decorazioni evidentemente nordiche, color dell’oro, che ne celava l’aspetto, "Un superfluo ordine, poiché come l’accadico Baal, anche voi dovreste subire il vostro destino di sconfitti.", tagliò corto il secondo, celato da un altro mantello con dei possenti schinieri rossi sullo stesso a tenerlo poggiato sul corpo atletico.

"Sconfitti? Quali ragioni apporti a tale etichetta? Ti sembra forse che le mie forze siano perse?", domandò indispettito il Re d’Africa, facendosi avanti verso l’altro, "Il tuo esercito è perso, anche l’ultima degli sciocchi che ti seguivano ben presto cadrà e con lei ogni tua speranza di vittoria!", ribadì l’altro, fronteggiando a parole l’antistante.

Per pochi secondi, poi, gli occhi dei due si scontrarono in un duello di sguardi che culminò nell’esplodere dei loro cosmi: uno nero e feroce, simile ad un massiccio e fiero Leone, l’altro selvaggio e sanguinario, che s’alzava sinuoso dal corpo dell’uomo incappucciato, prendendo le forme di un Rosso Drago.

"Signori, suvvia!", s’intromise l’altro nuovo giunto, "Siamo tutti alleati nella comune missione di mutare l’ordine del mondo! Perché combatterci fra noi? ", sottolineò, "Tu, Ogum, dovresti ben essere cosciente che l’ultima dei tuoi Generali sta ora combattendo contro un numero di nemici che le è superiore… le probabilità di vittoria sono poche e, per quanto io apprezzi sempre i cambiamenti nei piani del destino, non si può dire che la tua prediletta abbia molte possibilità.", concluse quietamente.

"L’esercito d’Africa è prossimo alla distruzione totale.", tagliò corto l’incappucciato che poco prima aveva confrontato il proprio cosmo con quello del Leone Nero; "Lo so bene, Cinese, ma non per questo lo abbandonerò!", ringhiò il Sovrano dei Savanas, "E tu cosa vorresti da me, uomo di Asgard? Ho dei doveri verso i guerrieri che mi hanno seguito, gli stessi che in nome mio sono morti in battaglia! Ho dei doveri verso la mia terra natia e per il ruolo che ricopro, il ruolo di Sovrano d’Africa. Non fuggirò, se è questo che mi chiedi.", tagliò corto Ogum, verso l’altro.

"Hirihihihi! Mi parli di doveri, di patria e ruoli? Dovresti ben sapere, Africano, che solo in una cosa credo e faccio affidamento: il cambiamento! L’eterno mutare del mondo e del suo ordine, l’essenza primogenita del Caos che porta tutto ad un continuo divenire, mantenendo qualsiasi realtà sempre diversa.

In fondo è per questo che mi sono unito alla nostra piccola congrega d’amici, per cambiare l’ordine stesso del mondo. Hirihihihi!", rise ancora l’uomo incappucciato che proveniva da Asgard, "Veramente io avevo sentito una storia diversa…", commentò sarcastico colui che era stato chiamato Cinese, ricevendo una minacciosa ondata di dorata energia, che stava quasi per abbracciarlo in una presa forse mortale, se non fosse stato per un nuovo cosmo che scosse l’intera sala, prima che una voce parlasse su tutte: "Basta!"

Quella singola parola era stata detta dall’uomo che si trovava sul trono di pietra, da cui, proprio in quel momento, discese, per appropinquarsi verso i suoi pari, ricoperto dalle bianche vestigia che gli appartenevano.

"Anche la Lucertola Malefica si è alfine unita a noi?", domandò ancora l’uomo di Asgard, "Già Hakona odiava quel soprannome, datogli dai suoi compagni Areoi presso l’Avaiki di Pili, credete forse che io, che dalle spoglie mortali di Hakona sono assorto ad un più alto ruolo nel Mondo, possa accettare quel titolo disonorante?", incalzò l’altro.

"E dunque, caro Polinesiano, come preferisci essere chiamato?", incalzò ancora l’uomo di Asgard, "Maui di Whiro, questo il nome che mi sono scelto!", rispose secco l’altro.

"Ora che le presentazioni sembrano concluse, noi avremmo comunque una missione da portare a termine: dovete seguirci. Il rituale è ormai concluso, il potere di cui necessitavamo è giunto lì dov’era atteso, quindi non c’è necessità alcuna che restiate qui, a subire la medesima sorte di Baal, ad essere sconfitti, almeno non c’è per chi ci comanda.", volle sottolineare il secondo incappucciato, prendendo la parola.

"Io non vi seguirò.", fu la perentoria decisione del Leone Nero, "Ho come tutti voi il potere delle divinità che accresce la mia già vasta potenza, ma ho anche dei doveri verso chi mi è stato seguace per questi lunghi anni. Ho il dovere di combattere per l’Esercito che mi ha giurato fedeltà.", tagliò corto il Sovrano d’Africa.

"Un esercito la cui vita è corsa velocemente verso la fine. Nel momento stesso in cui hai deciso di farti seguire nella missione affidatati da chi ci comanda, hai sancito per tutti loro la fine, mutando il loro destino, in fondo per questo mi eri simpatico, Africano, e se, per questo stesso motivo, vuoi mutare gli ordini impartiti, allora mantieni sempre la mia simpatia. Ora resta da vedere se uscirai vincitore, come è probabile data la stanchezza che di certo assale chi affronterai, o se sarai ancora una volta, fautore di un cambiamento del destino. Hirihihihi!", rise di gusto l’uomo di Asgard.

"E tu, Polinesiano, cosa hai intenzione di fare?", incalzò ancora il Cinese verso l’Areoi loro compagno, "Combattere e spazzare via gli ultimi rimasugli delle antiche credenze di questa terra. Eliminerò i seguaci di Ukupanipo ancora vivo, che non resti nessuno ad adorare le divinità ormai scomparse: voglio una Rivoluzione nelle mie terre e sarò io stesso il fautore di essa.", rispose secco l’orgoglio guerriero dalle bianche vestigia.

In quel momento, un sordo rumore cozzò contro le massicce porte di pietra, il rumore del corpo di Mawu, che veniva, sulle stesse, schiantata dal potente colpo che l’aveva investita.

"Sembra che la battaglia lì fuori sia giunta al termine, così come il rito in questa sala.", osservò l’uomo di Asgard, prima che un cosmo si materializzasse dalla dura roccia, aprendo quasi il terreno attorno a se ed abbracciando i due incappucciati.

"Vi salutiamo dunque, confratelli, ci rivedremo forse presto, chissà che non ci si riveda per iniziare a mutare il mondo, tutti assieme.", le ultime parole che Ogum e Maui udirono, prima di sentire solo ciò che proveniva dall’esterno.

***

Maru del Narvalo era stato il primo a muoversi dopo la conclusione della battaglia con il Primo Artiglio: l’Areoi si era avvicinato al corpo senza vita di Tara di Diodon, accarezzandolo delicatamente e spostandolo poi nel piccolo angolo naturale che il trivio creava prima d’introdursi in quello spiazzo.

"Qui sarai al sicuro, mia amata. Attendi ancora un po’, ho ancora dei nemici da affrontare, in nome di Ukupanipo e di tutto ciò che ambedue avevamo promesso di difendere, prima di raggiungerti.", sussurrò il guerriero polinesiano, porgendo un ultimo sguardo all’altra, prima di raggiungere i sette cavalieri d’argento ed i suoi due parigrado dinanzi alle ampie porte di pietra.

Toru dello Squalo Bianco rivolse uno sguardo al compagno d’addestramenti, un singolo cenno, prima che quello confermasse di essere pronto, così come lo era Tawhiri della Torpedine e così come lo sembravano, malgrado le ferite e la stanchezza evidente, i santi di Atena che seguivano il nuovo, e forte, ultimo arrivato: Amara del Triangolo.

Lo stesso cavaliere di origini indiane si volse verso i propri compagni: erano partiti in nove, ma Vincent di Scutum ed Agesilea dell’Aquila li avevano abbandonati, morendo in due dure battaglie contro altrettanti Comandanti d’Armata.
Restavano l’allieva del Sommo Sacerdote, la capace Iulia dell’Altare; il prode Ludwig del Centauro, abile cacciatore; il superbo Gustave della Lyra, musico ed egocentrico guerriero; il giovane ed inesperto Rudmil della Corona Boreale; Juno di Cerbero, ferito e debole, ma ancora determinato in battaglia e, al pari suo, Cassandra di Canis Maior, sorella di Agesilea. Tutti loro erano pronti allo scontro, per quanto indeboliti e stanchi, non si sarebbero fatti da parte ed avrebbero combattuto per la Giustizia, in cui credevano, e questo rincuorò il discepolo di Samadhi.

"Come vogliamo agire?", domandò d’un tratto il massiccio comandante dell’Avaiki, "Vuoi abbattere le porte della tua stessa sala?", incalzò sorpreso il discepolo di Munklar, "Se qualcuno deve farlo, è giusto che sia io.", replicò deciso l’Areoi, espandendo il proprio cosmo, pronto a sferrare il colpo massimo di cui era in possesso.

Un rumore, però, interruppe l’azione dello Squalo Bianco, il rumore delle due ampie ante che si spalancavano.

Una sagoma ricoperta da un mantello fatto con la pelle di un leone bianco apparve dinanzi a loro, oltrepassando quelle ampie ante ed avvicinandosi al corpo senza vita di Mawu del Mamba Nero, per poi concentrarsi sui dieci che aveva dinanzi a se; dietro di lui, nella penombra, un’altra sagoma, bardata in bianche vestigia.

"Che i polinesiani sistemi fra loro le faccende che li riguardino. Voi tre, indigeni di questo tempio, entrate in quella sala che riflette in mondo subacqueo, lì affronterete un altro Areoi.

I cavalieri di Atena, che qui sono giunti ad attaccare e distruggere il mio esercito, resteranno qui, vittime del mio giudizio.", sentenziò deciso l’uomo che avevano dinanzi.

I dieci si guardarono fra loro, ma fu l’emanazione cosmica di Amara l’unica a parlare: "Andate, Areoi, ad ognuno spetta la propria battaglia.", affermò pacatamente, ricevendo un cenno d’assenso da Toru, che oltrepassò i sette cavalieri ed il loro nemico assieme a Tawhiri e Maru, scomparendo con loro nella penombra della sala antistante.

Un sordo rumore poi si udì, come un fischio, e le ante si chiusero, senza che nessuno le toccasse, dividendo le due battaglie finali e lasciando ad ognuno i propri nemici.

La fine della guerra in Polinesia era prossima, si doveva solo sancire che ne sarebbe uscito vincitore.