Capitolo 3: Polinesia

Da quanto tempo andava avanti quella battaglia? Non lo sapeva. In quel momento niente sembrava essere più tanto chiaro.

Fino a qualche ora fa, se di ore effettivamente si parlava, lui era il comandante di uno dei cinque Avaiki degli Areoi, il tempio sottomarino del Signore dei Pesci, Ukupanipo, ed ora aveva fra le braccia il giovane Waru della Balenottera Azzurra, il corpo sventrato da un attacco energetico; niente se non la carcassa ormai senza vita restava di quel ragazzo, un po’ più robusto della media, che amava la vita e le gioie che poteva offrire.

Questi erano i pensieri di Toru dello Squalo Bianco, che tratteneva le rabbiose lacrime all’interno dei propri occhi, osservato da tre figure dalle vestigia nere.

"Piangi per quel ragazzone? Ti sembra un comportamento da guerriero?", domandò una di quelle figure, le cui vestigia ricordavano vagamente uno Scimpanzé, "Perché, voi in questo luogo avete visto dei veri guerrieri? Io finora mi sono trovato semplicemente a togliere la vita a degli sciocchi che poco sanno di quello che esiste al di fuori di questa caverna.", rise un secondo, l’armatura che raffigurava un Babbuino.

Il silenzio, però, calò lesto fra le tre figure in nero, quando il loro silenzioso interlocutore si mosse, poggiando a terra il corpo dello sfortunato Waru. Con impassibile calma Toru si voltò, mostrando il proprio aspetto ai tre: portava corti capelli neri, che appena si intravedevano sotto l’elmo a forma di una testa di squalo, le cui fauci si aprivano, rivelando il viso del guerriero polinesiano; gli occhi, piccoli ed azzurri come il mare, brillavano sulla pelle abbronzata del viso, il cui colore scuro si espandeva anche a ciò che del muscoloso corpo era possibile vedere.

L’armatura, infatti, era quasi integrale, gambali e coperture per le braccia erano adornati da sottili pinne, mentre una fantasia di squame ed onde si disperdeva fino a coprire il tronco e la spalla sinistra, sulla destra, al contrario, si trovava quella che era la pinna dorsale del predatore acquatico, coprendo buona parte della pelle, solo un breve tratto, vicino al gomito, era visibile.

I tre guerrieri in nero si ritrovarono ad arretrare, quando il gelido sguardo dell’Areoi calò su di loro, "Schifoso branco di invasori, dalle orride armature! Come osate voi, branco di bestie di terra, offendere la memoria dei guerrieri di Ukupanipo?", ruggì in uno scatto d’ira, lasciando esplodere il proprio cosmo, in un’ondata di luce bianca, che parve quasi essere una vera e propria onda del mare che echeggiava al di fuori del tempio subacqueo.

I pugni di Toru si strinsero, portandosi ai fianchi, l’energia bianca parve confluirvi, prima che una gigantesca sagoma di squalo si manifestasse dall’emanazione cosmica, rivelando uno sguardo famelico, diretto verso i tre malcapitati invasori.

"Fauci dello Squalo Bianco! Dilaniate questi scarti!", ordinò con rabbia l’Areoi.

L’effetto di quel semplice attacco fu, a dir poco, devastante: parte del corridoio di roccia fu scavato da segni di denti, al pari delle vestigia e dei corpi dei tre guerrieri, i cui resti sembrarono veramente essere stati vittime delle fauci di un grosso squalo.

L’esplosione d’energia travolse persino una parete del corridoio, che andò in frantumi.

Proprio da quella parete apparvero, pochi istanti dopo, altri due guerrieri neri, intenti a fuggire da qualcuno.

"Avete visto? Quei due sono riusciti da soli ad uccidere il Cobra!", esclamò uno, le cui vestigia ricordavano una qualche sorta di roditore. "Il più pericoloso è il maschio fra loro. Dobbiamo trovare uno dei Comandanti d’Armata, o non avremo possibilità di vittoria!", continuò il secondo, prima che una leggera risata spingesse entrambi a voltarsi verso il buco nella parete da cui erano appena passati.

"Normalmente gli uomini scappano quando sono in compagnia del mio, di uomo, ma quando sono sola è facile che mi avvicinino.", commentò una voce, prima che una figura apparisse dal foro nel corridoio di pietra.

Era una guerriera dalle bianche vestigia. L’armatura aveva una forma quanto meno bizzarra: sembrava quasi gommosa, adesiva in alcuni punti del corpo e più gonfia in altri, come intorno alle spalle, dove impediva di individuare la precisa forma del collo, o del petto, al contrario, era ben più sinuosa ed aderente lungo l’addome e poi scendendo per i fianchi.

Le coperture per le braccia, al pari delle spalliere e di parte del pettorale, erano, altresì, gonfi, così come l’elmo, ricco di piccole spine, come quasi tutta l’armatura, con due piccoli occhi incastonati nella parte al di sopra del viso della guerriera; guerriera la cui bellezza non era in alcun modo intaccata dalle strane vestigia. Gli occhi, di un rosa acceso, sembravano due perle preziose su quel viso curato ed appena abbronzato, i capelli azzurri che scendevano fino al centro della schiena. Non era una bellezza maliziosa la sua, bensì semplice e ben curata, quasi innocente, come il sorriso di lei, mentre scherzava con quei due nemici, convinti, in quel momento, di non aver mai visto niente di così bello prima di allora.

"Orsù, miei vigori avversari, cosa avete intenzione di fare? Vi dedicherete ancora alla vile fuga, dando le spalle ai vostri compagni ed al mio uomo che li sta ora affrontando, oppure prendere il coraggio fra le vostre scure mani ed attaccherete?", chiese, con tono beffardo, la guerriera.

I due uomini in nero la squadrarono con interesse e dubbio, "E’ solo una donna…", sussurrò uno dei due, "Anche il comandante della Prima Armata.", obbiettò il secondo, "Ma lei non ha segni di lotta sul viso, probabilmente è come molti altri di questi guerrieri bianchi: incapace di combattere.", tagliò corto il primo, lanciandosi all’attacco, assieme al compagno d’arme.

Fu un istante, in cui un breve sorriso di sfida increspò le labbra dell’Areoi, poi le vestigia candide, quasi fossero datate di una loro volontà, si gonfiarono, rivelando le acuminate punte; un’energia cosmica sinuosa come flutti del mare, ma di un colore rosa opaco, si diresse verso i due nemici, paralizzandone il corpo e lasciandoli cadere al suolo. Quelle spire d’energia portarono via con loro la vita dei due nemici, prima che l’armatura della guerriera riprendesse le sue forme normali.

"Mi ero dimenticata di presentarmi…", esordì verso i due cadaveri, "Tara di Diodon.", continuò, passando fra i due con noncuranza, "E nessun uomo, tranne quello da me amato, può avvicinarsi a me senza subire l’effetto del veleno del Pesce Istrice.", concluse, volgendo poi il capo verso il cunicolo da cui era giunta, lo stesso dove ancora si sentivano gli echi di un’altra battaglia.

Cadaveri su cadaveri, poco lontano, erano il segnale del cruento susseguirsi di scontri, per lo più erano Areoi, quasi tutti caduti in modo brutale, alcuni, apparentemente squartati da possenti artigli, altri sconfitti da attacchi piuttosto vistosi e violenti.

In mezzo a tutti quei guerrieri polinesiani, però, vi era anche un altro degli invasori neri, il cui corpo era stato privato della testa, rotolata a qualche metro di distanza.

In quel tetro ambiente, vi erano solo tre guerrieri ancora vivi, due indossavano armature nere, il terzo, invece, aveva vestigia bianche, tipiche degli Areoi.

"Fendente o affondo?", domandò d’un tratto la voce del polinesiano, una voce dura, così come i lineamenti che ben presto si presentarono agli invasori. Aveva il viso segnato da una cicatrice sulla guancia sinistra, il lato destro, al contrario, era adornato da diversi tatuaggi di onde e cerchi, che davano a quel volto un aspetto ancora più feroce. Due chiodi metallici erano fissati sul sopracciglio sinistro, poco sopra gli occhi gialli del guerriero di Ukupanipo.

L’armatura, bianca come le sue simili, aveva spalliere e protezione del tronco costituite da quella che doveva essere la coda di un grosso pesce, le pinne erano le coperture delle spalle e nella zona delle ascelle si vede perfettamente la pelle abbronzata dell’uomo; altre due pinne coprivano gli avambracci, stringendosi sugli stessi come dei bracciali. I gambali erano due lastre semplici, bianche, decorate appena da delle onde raffigurate sulle stesse, la testa del grande animale acquatico costituiva un piccolo elmo, che lasciava la nuca, ricolma di corti capelli neri, esposta.

La cosa che, però, risaltava di più, era ciò che impugnava con la mano sinistra: una lancia. L’arma aveva un’estremità, quella più vicina alle dita dell’Areoi, adornata da due lame, una più lunga, che formava un angolo convesso, ed una più piccola dalla forma concava; la coda dell’arma, invece, era una lunga lama acuminata, simile quasi alla "spada" di taluni pesci mediterranei o nord europei.

"Fendente o affondo?", domandò di nuovo il polinesiano.

"Che cosa?", balbettò il più massiccio dei due invasori, "Preferite che vi uccida con un fendente, o con un affondo?", chiese più esplicitamente l’Areoi, "Che non si dica mai che Maru del Narvalo si è dimostrato insensibile all’ultimo desiderio di un condannato.", concluse con un sorriso duro in viso.

"Maledetto! Come osi? Noi serviamo il Grande Re Conquistatore!", ruggì uno dei due, lanciandosi all’attacco assieme al compagno.

"Penso che dovrò decidere io per voi.", fu l’unico, laconico, commento di Maru, il quale sollevò la propria lancia, roteandola con maestra con la sola mano sinistra, quindi, con due passi sulla propria sinistra, si portò di fianco all’invasore che aveva parlato e, con un secco movimento, lo decapitò, al pari del compagno già al suolo.

Bastò poi il semplice movimento di tre dita perché l’arma si portasse in parallelo con il terreno e, in un gesto secco, affondasse nello sterno del secondo, piantandolo nella parete dietro di lui.

Il guerriero nero sputò sangue al suolo, "Sei stato sfortunato, dovrò darti un secondo colpo per finirti.", osservò, con leggero rammarico, l’Areoi.

"Aspetta, Narvalo!", urlò allora una voce ben nota a Maru, che, voltandosi, notò la maestosa figura di Toru e, a diversi passi di distanza, Tara.

Fu proprio la guerriera di Diodon, oltrepassando il proprio comandante, ad abbracciarsi al guerriero con la lancia, "Tutto bene.", le sussurrò pacato lui, volgendo poi un inchino del capo verso lo Squalo Bianco.

Il comandante dell’esercito bianco bloccò con la mano il volto dell’invasore: "Quanti si sono introdotti nel mio tempio?", domandò, con voce flebile e minacciosa.

Il nemico non rispose, ma bastò una leggera pressione sulla mascella perché il sordo rumore di denti che si spezzavano lo costringesse ad aprire la bocca in un urlo muto. "Parla.", lo sollecitò Toru.

"In dodici abbiamo varcato questa grotta…oltre ai soldati semplici", furono le uniche parole del prigioniero, il cui colorito stava diventando più pallido, a seguito del dissanguamento.

"Soldati?", domandò Maru, "Sì…i guerrieri dalle vestigia simili a formiche… ne abbiamo centinaia.", balbettò il prigioniero, ora che le forze lo abbandonavano, "Ma sono solo pedine in confronto a noi, guerrieri e, ancor di più, ai Generali.", concluse.

"Escludendo questi pedoni, di guerrieri con armature diverse, io ne ho già eliminati due.", si affrettò a dire Tara, "E lui è il mio terzo.", aggiunse Maru, "Anch’io ne ho uccisi tre, quindi ormai sono ridotti a quattro?", domandò Toru, volgendosi verso il proprio prigioniero, già contato fra i nemici caduti.

Una risata fu però la risposta di questi, seguita da gelide parole: "Voi non capite…il nostro esercito è immenso, quello che vi ha attaccato è un plotone, guidato addirittura dal nostro Divino Sovrano. Ora, quando gli altri templi saranno rasi al suolo, gli altri comandanti giungeranno, con i rinforzi."

"Hai tanta fiducia nei tuoi compagni?", ringhiò lo Squalo Bianco, "Il nostro Divino Sovrano ci ha condotto in una grande marcia di conquista. Abbiamo sbaragliato ogni ostacolo dall’Africa fino a queste isolette sperdute, distrutto eserciti e templi consacrati alle divinità più sconosciute. Il che ci ha fatto giungere ad una conclusione: il Leone Nero è l’unica vera divinità della Guerra! Egli sottometterà ogni esercito, schiacciandolo con la forza della propria mano, una mano costituita dai suoi cinque Generali d’Armata….", affermò, con voce sofferente, il guerriero nero, prima che decine di cosmi invadessero l’interno del tempio di Ukupanipo.

"Ecco! Sono giunti anche gli altri Generali, tra poco avrà inizio in questo luogo ciò a cui mai il nostro esercito ha avuto l’onore di prendere parte: le divinità di queste terre saranno sradicate, per fare posto all’unico culto possibile, quello del Leone Nero.", balbettò, prima che la mano di Toru gli schiacciasse il cranio.

"Maledetti invasori!", urlò rabbioso lo Squalo Bianco, il cui pugno, non avendo più l’ostacolo del cranio nemico, si schiantò con forza contro la parete alle spalle dello stesso.

"Se sono giunti fin qui, vuol dire che hanno distrutto gli altri quattro Avaiki?", domandò perplessa Tara, "Dubito che gli Areoi di quei templi si siano fatti battere tanto facilmente… probabilmente vi sarà qualche sopravvissuto.", suppose di rimando Maru, poggiando una mano sulla spalla della donna amata.

"Lo sapremo presto…", li interruppe Toru, "avevo inviato Anguilla, Tartaruga Marina, Torpedine e Barracuda nei diversi Avaiki, uno per ogni tempio. Sono i nuotatori più veloci, malgrado la distanza, credo che riusciranno ad andare e tornare in poche ore.", spiegò il comandante dell’esercito bianco.

"Piuttosto, cosa sapete degli altri?", domandò poco dopo ai suoi due guerrieri. "Credo che il giovane Istioforo sia da qualche parte, nei pressi dell’ingresso settentrionale; i fratelli Aremata non so dove siano andati, ma, l’ultima volta che ho avvertito i loro cosmi, conducevano un piccolo reparto di guerrieri nell’ala occidentale.", rispose prontamente l’Areoi del Narvalo.

"Io ho visto il Grongo dirigersi verso la zona orientale dell’Avaiki, inoltre credo che Parò sia rimasta indietro, vicino alle sue sale, comandante.", si apprestò ad aggiungere Tara.

"Dovremo muoverci anche noi, restare qui a discutere non è di aiuto a nessuno.", concluse allora Toru, pronto a dividersi dai due guerrieri.

---

Urla, non di sofferenza, bensì di battaglia, questo echeggiava nelle sale più profonde del tempio di Ukupanipo, lì dove una sola figura dalle vestigia bianche ancora si ergeva in piedi, ferita e sanguinante, con attorno a se diversi cadaveri dall’armatura nera.

Non capiva come, né perché, ma sembrava che gli invasori, anziché diminuire, stavano aumentando di numero, tanto che, dopo averne eliminati ben due con vestigia diverse dagli altri, ora se ne trovava altri quattro davanti, che la osservavano interdetti.

Quello era un momento di relativa calma: nessuno attaccava, tutti restavano in attesa di qualcosa, malgrado la figura bianca non sapesse cosa.

Quando, però, i nemici si fecero da parte, lasciando passare una tetra ombra, le fu chiaro: stavano aspettando qualcuno.

"Così sei un altro degli indigeni a difesa di questo tempio sottomarino? Ormai ho perso il conto di quanti di voi ho già ucciso oggi.", commentò una voce di donna, sarcastica e decisa, "Maledetti invasori…", riuscì a malapena a dire l’Areoi, rivelando una voce femminile anch’ella.

L’ombra osservò l’avversaria: l’armatura era quanto di più orrido avesse mai visto, una corazza a strati bianchi che copriva le gambe e le braccia per poi diventare oltremodo gonfia e corazzata nella zona del petto, arrivando a chiudersi intorno al capo come un elmo che lasciava intravedere solo il volto, segnato dalle ferite, di quella indigena.

"Devi essere stanca dopo aver ucciso due dei miei soldati.", fu il primo commento che le rivolse, squadrando i due corpi squartati, che sembravano essere stati sventrati da dei macigni all’altezza dell’addome, "Dimmi, ragazza, come ti chiami?", domandò subito dopo.

"Parò della Conchiglia…", rispose l’altra, "e tu sei?", incalzò, cercando di rivelarsi più sprezzante e sicura di quanto non fosse.

L’ombra, allora, si rivelò. L’armatura colore della notte era composta di squame, che salivano lungo i gambali, coprendo fino a poco sopra il ginocchio; un affilato gonnellino costituiva la protezione per la cinta e la vita, lasciando poi i possenti addominali scoperti, prima di raggiungere una scura corazza, di squame anch’essa, a protezione dello sterno e del collo, ma priva di spalliere, così come non era presente alcuna forma di elmo o diadema sul capo.

Le coperture per le braccia, invece, erano ben presenti, costituite dalle due metà di una testa di serpente, gli occhi e le fauci acuminate si dividevano sui due lati.

Il viso della donna, poi, era un contrasto di diversi fattori: la pelle scura era, infatti, incorniciata da lunghi capelli color paglia e su quel volto tanto piacevole a vedersi era incastonato un occhio azzurro come il mare. Uno solo, poiché il sinistro, al pari della guancia, era segnato da una profonda cicatrice, che ne deturpava in parte la bellezza.

"Mawu del Mamba Nero, Primo Generale d’Armata dell’Esercito della Savana.", si presentò con un sorriso perverso la guerriera.

Sollevati poi i pugni chiusi dinanzi a se, portando così il volto del serpente a congiungersi, la donna continuò: "Ed ora, Conchiglia, vediamo di aprirti e scoprire che cosa nascondi dentro.", sussurrò con tono di sfida, lanciandosi all’attacco.

Parò possedeva un’unica tecnica offensiva, un eco che raggiungeva qualsiasi superficie, producendo su di essa un’esplosione d’energia, al pari di ciò che era successo ai due invasori che aveva sconfitto, subendo comunque ferite nei loro contrattacchi.

L’Areoi della Conchiglia tentò il proprio attacco, ma, stavolta, l’avversaria si mosse più velocemente dei suoi ultrasuoni, oltrepassandola ancor prima che potesse completare l’urlo di battaglia. Le vestigia bianche andarono in pezzi intorno al collo ed alle spalle, persino l’elmo si frantumò; "Hai combattuto bene e non ti sei ritirata dinanzi a me, quindi ti ho iniettato una quantità di veleno gargantulesca, sufficiente per uccidere un uomo tre volte la tua stazza. Conta fino a cinque, poi sarai morta.", affermò secca Mawu, allontanandosi.

Il Primo Generale non fece che cinque passi, poi sentì il sordo rumore del corpo senza vita dell’avversaria che cadeva al suolo, allora, iniziò a fischiettare una nenia funebre delle sue terre natie, nella lontana Africa, una musica che, fra le labbra della guerriera nera, sembrava quasi diventare una melodia di festa.

Improvvisamente, una sorta di lamento s’alzò nell’aria, come le urla di decine di uomini disperati, per poi quietarsi; senza alcun timore, Mawu si voltò verso l’origine di quel suono tanto particolare, dove ora si trovava un’immensa sagoma, seminascosta dall’oscurità della sala.

Era un uomo, per quanto la stazza fosse a dir poco gigantesca, alto ben più di due metri, aveva una corporatura equilibrata con la statura, o almeno tale sembrava nelle ombre che celavano il corpo, lasciando vedere solo la testa e parte delle spalle, coperte da una nera corazza.

"Generale della Quinta Armata, cosa ti porta fin qui? Hai dunque concluso la tua missione nell’altro tempio?", domandò con voce calma la donna, che sembrava una formica dinanzi alla statura del nuovo giunto.

"Sì, il tempio della divinità della Pace, Rongo, è ormai vuoto di qualsivoglia seguace, i lamenti di morte non appartengono più a quelle fredde rocce.", rispose con voce gutturale il maestoso interlocutore, "Ormai sono tutti tuoi, giusto?", ribatté l’altra, ricevendo un sorriso soddisfatto dal parigrado.

"Volevi forse rubarmi quella vittima?", chiese, con uno sguardo ben più duro, che trasparì dall’unico occhio, Mawu, indicando il cadavere dell’Areoi poco lontano.

Per un attimo, i sottili occhietti grigi del gigante si dilatarono, per poi chiudersi in due fessure, "Non mi permetterei mai, Primo Generale.", fu la sua laconica risposta.

La guerriera del Mamba Nero, a quel punto, s’incamminò, non curandosi dello sguardo del gigante; aveva avuto la sua risposta, dimostrando ancora una volta, al parigrado ed a chiunque li stesse osservando che era lei il Primo dei Cinque Generali, lei comandava l’armata nera in nome del loro unico sovrano, lei, una donna, aveva ottenuto in battaglia l’onore di governare su tutti coloro che fossero inferiori al loro Re e portava sul corpo i segni di tale onore, primo fra tutti lo sfregio che le segnava il viso, simbolo di virtù guerriera e non rovina della bellezza femminile.

Sentì i pesanti passi del Generale della Quinta Armata che la seguiva: il luogo in cui si stavano dirigendo era lo stesso, quello a cui tutti i cinque i comandanti dell’esercito dovevano arrivare, lo stesso dove, rapido e deciso, si era portato il Leone Nero, come i diversi cadaveri di guerrieri bianchi, squarciati da potenti artigli, testimoniavano.

La sala di chi governava su quel tempio era il luogo dove si dovevano radunare, una sala che erano riusciti a far abbandonare portando il loro violento attacco, proprio quando l’emanazione cosmica in Mesopotamia s’era fermata.

Il loro alleato, l’uomo che si faceva chiamare Baal, doveva aver ottenuto il potere del dio del Sole di quelle terre, suppose Mawu, ora stava a quello stesso uomo farne il giusto uso, finché, anche quella goccia di potere donatagli, non gli fosse stata tolta da coloro che lo avevano portato su un piedistallo, li stessi che, di certo, lo avrebbero tolto da quella posizione, una volta finito il suo compito.

Non erano, comunque, questioni che la interessavano: lei era il Primo Generale del Leone Nero, che cosa facesse il Sole di Accad, come si era definito prima di congedarsi da loro, non le importava, né i progetti degli alleati del suo Sovrano. Lei era un soldato, potente, veloce e letale, era nata per la guerra ed ad essa dedicava le proprie attenzioni: partendo dall’Africa, attraversando le coste del Medio Oriente, risalendo l’Europa fino a lambire il regno degli Zar di Russia, scivolando poi lungo l’Asia, in India e fino al Sud-Est, toccando anche la Corea, quei luoghi aveva visitato guidando in molteplici vittorie l’esercito nero, perdendo uomini… ma questo non le interessava.

Ora era lì, in un’isola nell’Oceano, combattendo guerrieri dalle armature bianche che assomigliavano a pesci, timore di loro era pari a quello che rivolgeva agli altri Generali d’armata, cioè, pari a zero.

"Ed ecco il possente Ntoro che fa da scorta alla potente Mawu, nostro primo comandante.", esordì d’un tratto una voce, nota alla guerriera, "O è più corretto dire, che il Quinto Generale è tanto grosso, adornato di fantasiosi soprannomi, ma incapace di reggere il confronto con l’esile Primo guerriero del nostro esercito, quindi si riduce a fargli da servo?", domandò infine con tono derisorio, un secondo uomo che li attendeva.

E, a guardar bene, vi erano due uomini ad attenderli: uno, alto forse poco meno del Quinto Generale, era relativamente celato dall’ombra, si intravedeva solo il sorriso divertito ed i capelli, lunghi e neri come la notte, che ben incorniciavano lo scuro volto e gli occhi verdi, sottili come quelli di un serpente.

L’altro, quello che aveva parlato per primo, era ben visibile: il fisico asciutto e le vestigia celate da un lungo mantello, fatto con pelle di tigre, le mani che sole si intravedevano, coperte da qualcosa di molto simile alle zampe di un grosso felino e poi la testa, adornata da capelli riccioluti e azzurri, che scivolavano fino alle guance scure, gli occhi di un porpora acceso, che scrutavano con l’astuzia di un predatore i due nuovi giunti, mentre il viso si apriva in un sorriso accennato e sicuro verso il mastodontico individuo che restava più indietro, senza però abbassarsi dinanzi a Mawu.

"Gu ed Acoran, comandanti della Terza e Quarta Armata, anche voi siete arrivati.", osservò pacata la guerriera del Mamba Nero.

"In anticipo sul Primo Generale, vorrei sottolineare…", osservò calmo l’uomo dai capelli riccioluti, "Hai ragione, Gu della Terza Armata, ma si vede che ben minori erano i pericoli che avete incontrato nel tempio di quella loro divinità del Canto.", lo punzecchiò l’altra.

"Il loro divino Lono, in effetti, non aveva poi dei così grandi guerrieri nel suo tempio: non sono state prede appetibili per il più del mio branco di predatori.", ammise con una smorfia annoiata Gu.

"Solo uno di noi manca, quindi. Sicuri che non sia morto?", domandò in quel momento Acoran, alzando appena il viso, "Non ho mai considerato il comandante della Seconda Armata un grande guerriero…", continuò sprezzante, prima che un rumore s’alzasse sopra tutti loro.

In un movimento coordinato, dettato dalla comune diffidenza reciproca che li contraddistingueva, i quattro Generali Neri alzarono il capo osservando due figure planare dall’alto. Una si diresse verso quelle che erano le zone centrali del tempio subacqueo, l’altra, invece, si gettò in picchiata, atterrando abilmente vicino ai quattro.

"Moyna dell’Aquila Urlante, sei il benvenuto fra noi.", lo salutò Mawu, squadrandolo con il suo unico occhio.

L’uomo aveva un fisico scolpito all’interno delle vestigia costituite da blocchi rigidi attorno al tronco e diverse piume che si aprivano in una vasta mantella sulla schiena, coprendo anche le braccia. I gambali, poi, non avevano decorazioni più complesse degli artigli del predatore alato, sugli stessi ricalcati; l’elmo, infine, era la testa dell’animale, che copriva il volto fino al naso, celando occhi e fisionomia del nuovo giunto.

"Ti saluto, Primo Generale e saluto anche voi, comandanti della Terza, della Quarta e della Quinta Armata.", esordì, con voce calma, colui che guidava la Seconda Armata.

"Hai fatto tardi, Moyna.", fu il primo commento di Gu, "Ti eri forse perso a riflettere se meritavano compassione i servitori di quel tempio cui eri stato indirizzato? Quello della dea…come si chiamava?", chiese beffardo Acoran, intromettendosi nel discorso, "Ira, signora della Volta Celeste.", s’affrettò a rispondere Ntoro, rubando la parola all’ultimo arrivato fra loro, "Immagino sia stato preso da compassione, dinanzi a tutti quei nemici da uccidere…", concluse il gigante, rifacendosi su Moyna delle angherie di poco prima degli altri due.

"Sono piuttosto io ad essere certo che ognuno di voi, miei parigrado, abbia dato sfogo ai propri istinti più bestiali, distruggendo i luoghi di culto delle divinità a cui eravate stati indirizzati.", obbiettò con palese calma il Secondo Generale.

Una mano dalle dita insanguinate, ricoperte da vestigia nere, si protese dall’ombra, fra Acoran e Moyna, "Questo è ciò che resta dei seguaci del tempio di Pili, sulle isole Hawaii, sulle dita mie e di chi mi seguiva.", rispose con orgoglio.

"Dei miei nemici ben poche carcasse, invece, sono rimaste, presso il tempio di Lono, ora non più canti, o urla di lì si alzano, ma solo rantoli degli sfortunati che hanno avuto in sorte una lenta agonia.", continuò Gu, gonfiando il petto sotto il mantello curato.

"E le urla delle vittime nel tempio di Rongo mi sono dolci compagne ora, assieme a tutti coloro che ho sconfitto, o visto cadere, in passato.", concluse Ntoro.

Nessuno di loro attese poi un commento da parte di Mawu, poiché sapevano che lei, essendo il Primo Generale, non avrebbe rivaleggiato per numero di vittorie prese, le spettava questo diritto, di essere considerata la più forte, poiché lo aveva ottenuto sul campo e sempre mantenuto, fu così che Moyna prese per se la parola: "Massacri e torture non dovrebbero fare onore al nostro esercito, per quanto tutti noi li perpetriamo senza remore. Vi chiedo solo di non fare bella mostra della vostra forza enumerando le genti uccise: fate come me, combattete per evitare che in futuro un nemico giunga nelle terre d’Africa.", affermò semplicemente.

"Non capisco ancora come il nostro sovrano, e mio maestro, possa averti scelto per entrare nel suo esercito…", si lamentò Gu, "ti ha dato il comando della seconda armata ed io, che sono stato il suo discepolo, non ho ricevuto che la terza.", continuò.

"Vuoi forse criticare le scelte del Leone Nero?", chiese Acoran, intromettendosi sornione nel dialogo, "No, non criticherei mai ciò che il mio signore e maestro ha deciso, e, in effetti, quando l’Aquila Urlante scende sul campo di battaglia, ben pochi nemici sanno tenergli testa, ma…", ed a quel punto della risposta Gu si voltò verso il parigrado, "sei così patetico nella tua ricerca di una scusante.", concluse con un moto di disgusto.

"Noi siamo predatori! Conquistatori che fanno loro qualsiasi cosa trovino sul proprio percorso! Quanti eserciti abbiamo distrutto? Quanti confini violati? Quanta divinità rinchiuse in un abisso? Quanti templi profanati?", domandò il Terzo Generale con occhi scintillanti di ingordigia e divertimento.

"Tanti…", sussurrò in un brivido di gioia Ntoro, "Ma non abbastanza…", continuò divertito Acoran.

"Troppi.", li corresse Moyna, ricevendo lo sguardo diffidente dei tre.

"Adesso basta!", ruggì, una volta notati i loro sguardi, Mawu, riportando tutti e quattro i Generali a concentrarsi sugli avvenimenti presenti.

"Se siamo tutti qui riuniti, ciò vuol dire che anche l’ospite del nostro Sovrano è giunto, ma, al contrario che nelle passate incursioni, avverto ancora qualche cosmo ostile, non molti, nemmeno una decina, però potrebbero arrivare fino a noi. Dovremo impedire che interrompano il Rito.", ordinò secca la guerriera del Mamba Nero.

"Dei nostri guerrieri ne sono rimasti poco più di una dozzina, seppur, credo, saranno sufficienti, ma non conterei sui soldati di rango minore.", continuò il Primo Generale, "Se servirà, però, dovremo occuparci noi stessi dei nemici rimasti. Ricordate il vostro grado nell’esercito: lasciate che siano le truppe, i soldati e gli allievi che abbiamo ancora dispersi in questi corridoi ad affrontare il più dei protettori di questo luogo, noi li attenderemo qui, per ora.", concluse con fare deciso.

Dietro le spalle dei Cinque Comandanti d’Armata si trovava l’ingresso alla sala dello Squalo Bianco.

---

Non vi era Toru, comandante degli Areoi, nella sala che gli spettava, presso il tempio di Ukupanipo, no, lì si trovavano due figure ben diverse.

Una di loro, era seduta, celata dall’ombra, sul trono di pietra, l’altra, in piedi, osservava verso lo spettacolo marino al di fuori delle pareti simili a vetri.

"La vittoria si sta avvicinando, grazie al tuo esercito, che tanto abilmente ha invaso gli Avaiki della Polinesia.", esordì la prima delle due figure, sul trono di pietra.

"Fa silenzio! Non parlare di vittoria, mentre il puzzo della sconfitta di Baal già mi riempie le narici.", ringhiò il guerriero in piedi.

"Baal sconfitto?", ripeté l’altra figura, "Di cosa ti sorprendi? Non hai avvertito il finire delle battaglie in Mesopotamia?", domandò secco l’uomo che guardava l’esterno, "Forse eri troppo interessato al susseguirsi degli scontri in questi luoghi che ti sono, ora, più vicini?", lo ammonì con tono ironico.

"Come è stato possibile che uno di noi fosse sconfitto?", incalzò, con voce più preoccupata, l’uomo seduto.

"Non te ne stupire troppo, considerando che si parla di Baal.", fu il primo commento dell’altro, "Certo, è stata necessaria la presenza di un guerriero dall’emanazione cosmica a dir poco singolare, questo è sicuro, ma il problema più grande del nostro alleato è stato un altro, che avevo intuito già quando lo conobbi, molto tempo prima che tu entrassi fra noi.", considerò il guerriero in piedi, "Quale?", chiese il secondo, curioso.

"Baal ha dimenticato la ragione dell’alleanza che ci vede tutti assieme; me, con i miei guerrieri, te, lui, ed il resto di noi Prescelti.

Egli voleva diventare un dio, dimenticando che la fine che noi daremo agli dei, di qualsiasi foggia essi siano, sarà sempre la stessa: affondare nell’abisso della perdizione.", concluse con voce calma l’uomo.

"Giusto.", concordò l’ospite seduto sul trono di pietra, "Creeremo un mondo privo di culti che distinguano le umane genti, solo i Prescelti governeranno e non per celeste volontà, bensì per mortale forza, quella del pugno, che unita all’astuzia, ci ergerà tutti a Sovrani del Mondo.

Solo gli uomini saranno divinità per gli altri uomini.", concluse, ripetendo la frase che, molto tempo prima, aveva sancito la sua alleanza con due sconosciuti, un’alleanza ben più proficua di quella che, ancora giovane, aveva stretto con uno straniero di quelle stesse terre della Mesopotamia dove, da pochi minuti, era ormai finita la battaglia contro Baal.

L’uomo si voltò, abbandonando quella visuale che lo aveva tanto incuriosito non appena messo piede nella sala, dirigendosi verso l’interlocutore.

"Ciò che fu dato a Baal, era un mero rito per richiamare il potere di Shamash, senza permettergli di incanalarlo completamente, ma disperdendolo di modo che il Secondo dei Prescelti potesse guidarlo ad un ben più utile luogo. Lui ha avuto bisogno di più giorni per ottenere ciò che serviva ai nostri compagni, giorni per fare quello che noi, adesso, faremo in poche ore e non su una sola divinità, bensì sull’intero pantheon della Polinesia!", esclamò soddisfatto, rivelando il proprio aspetto all’uomo sul trono.

Al pari di Gu, aveva una pelliccia, la pelle di un leone albino, un animale rarissimo, a celare le vestigia, che risaltavano per maestosità, e la cui nera corona, andava allungandosi verso le spalliere, contrastando con la bianca copertura.

I capelli, di un rosso acceso, brillavano come il fuoco, al pari degli occhi neri, che sembravano lanciare nere fiamme da quel viso duro e pronto al rituale che, di lì a pochi istanti, avrebbe avuto inizio.

Il cosmo oscuro del Leone si fuse con quello dell’altro individuo presente, i due iniziarono a recitare un complesso rituale, in una lingua ignota a chi abitava quelle terre neozelandesi, poi, d’improvviso, un immenso cosmo da loro scaturì, per pochi istanti, per poi quietarsi ed iniziare a diventare come un buco nero d’energia, un vuoto che attirava verso di se le forze circostanti, ma non quelle mortali che riempivano i saloni del Tempio subacqueo, bensì quelle divine delle entità celesti che vegliavano su quei luoghi.

La potenza di questo antico richiamo echeggiò al di fuori della stanza, raggiungendo i Cinque Generali ed il loro esercito, esultante, dopo i primi attimi di sorpresa e, assieme a loro, raggiunse anche gli Areoi, fra cui Toru per primo rimase allibito nel riconoscere qualcosa di simile a ciò che aveva osservato in lontananza.

"Attentano anche ai nostri dei!", ruggì, solo in un corridoio, lo Squalo Bianco, iniziando a correre verso la propria sala del trono.

La guerra era ormai giunta alle sue fasi centrali, ma non tutti i protagonisti della stessa erano arrivati.