Capitolo 28: Il Secondo Generale

"Maestro, maestro …", così lo aveva chiamato quel giorno lontano Shango, il suo giovane discepolo, ancora apprendista nell’uso del cosmo e delle sue mistiche capacità, quando si era presentato da lui, seguito da Akongo, il ragazzo che aveva cresciuto come un figlio, portando un piccolo dono.

L’uomo li osservò per qualche istante, prima di guardare all’oggetto che gli stava porgendo il più giovane, un volatile, probabilmente un’aquila, fatta con frammenti di pietra messi assieme ed amalgamati.

"Davvero un bel dono, ti ringrazio Shango, ad anche a te, Akongo, che immagino avrai dato lui un aiuto.", li ricompensò con quelle parole, volgendo loro un sorriso ed una gentile carezza sul capo, "Ma come mai questo regalo?", domandò poi, incuriosito ai due fanciulli.

Fu il discepolo a parlare, dopo un imbarazzato sguardo con l’altro giovane, "Ecco … ho visto Nyame, l’allievo del Generale Gu, che, alla fine di ogni loro sessione d’addestramento, porta le carcasse degli animali che ha massacrato al suo insegnante, dei doni che l’allievo fa a chi lo addestra per dimostrargli il proprio affetto e rispetto, quindi ho pensato che, siccome voi mi fate allenare solo a colpire macigni e montagne, avrei dovuto crearvi questo come dono, ma se volete, posso andare anch’io a caccia di qualche animale da predare.", balbettò intimorito il piccolo Shango, preoccupatosi che il suo dono non fosse stato gradito al maestro.

"No!", urlò quello con fare deciso, prima di addolcire leggermente il tono della voce, "Ascoltami bene, Shango, ed anche tu, Akongo: il dono è stato più che gradito; non vi chiederei mai, di mia iniziativa, di togliere a qualcuno la vita, non mi sembrerebbe giusto costringervi a strappare a qualcuno la sua esistenza.

Qualsiasi cosa possa mai dirvi uno degli altri comandanti, o possiate sentir dire dal resto dei soldati delle cinque armate: tutte le vite sono importanti, tutti gli esseri viventi meritano rispetto e valore per come s’impegnano a seguire la loro dignità e non si abbassano a nefandezze senza senso. Dalle formiche agli uomini, tutti agiscono per il bene comune del loro gruppo e quindi tutti meritano rispetto come esseri viventi.

Ricordatevelo sempre, fanciulli miei: non per cacciare e massacrare ci siamo uniti a queste schiere, ma per un sogno di unità e pace che possa salvare la gente di queste terre dalla distruzione e dall’egemonia straniera.", concluse quel giorno l’uomo che sarebbe diventato il Comandante della Seconda Armata d’Africa.

***

Moyna dell’Aquila Urlante era appena atterrato nello spiazzo centrale, fra i tre bivi che conducevano verso la sala del Comandante dell’Avaiki sacro ad Ukupanipo e, dopo il dissiparsi della polvere sollevatasi al suo arrivo, lo sguardo dell’uomo era rimasto per alcuni istanti fermo sulla collana d’occhi che Gu del Fosa, Generale della Terza Armata, portava al collo, un cimelio delle sue vittoriose cacce, lo aveva sempre considerato, una mostruosità per il parigrado a comando della Seconda Legione.

"Ntoro ti aveva detto morto, perso fra le stelle del cielo assieme ad uno dei tuoi nemici. Ha sbagliato, a quanto vedo, e non di poco.", esordì l’allievo del Re Nero, osservando il proprio pari, che non rispose, inizialmente, alzando semplicemente lo sguardo ad incontrare quello del compagno d’arme, prima di volgergli le spalle, per osservare i due cavalieri di Atena e l’Areoi che erano rimasti immobili, a quel nuovo arrivo.

Solo in quel momento, tutti poterono avere una visione completa delle vestigia dell’Aquila Urlante, segnate, specialmente sulla schiena, da vistose crepe, attraverso cui s’intravedevano delle profonde ustioni sulle carni del Generale Nero.

"Non di tanto ha poi sbagliato Ntoro. Ho affrontato tre di questi santi seguaci di Atena, dea di Grecia, ed una di loro si è sacrificata per permettere ai propri compagni ed agli Areoi suoi alleati che erano giunti in loro soccorso, di continuare la corsa verso le sale del Comandante senza dovermi affrontare. Un sacrificio non da poco quello di Agesilea dell’Aquila.", spiegò con tono pacato Moyna.

"Tu, maledetto assassino!", ringhiò infuriato Ludwig, espandendo il caldo cosmo infuocato, ma fu prontamente fermato da un gesto della mano di Toru, che ancora era immobile ad osservare i nemici, che ora, erano aumentati per numero.

"Un sacrificio inutile, da quel che vedo.", ridacchiò Gu del Fosa, prima che un’esplosione d’energia senza pari scuotesse l’aria sulla loro destra, lì dove stava combattendo Acoran, mentre più nel segno di vita proveniva dal versante opposto, dove si trovava Ntoro, "Non da me, però, saresti dovuto venire, Secondo Generale, penso che i nostri parigrado più infimi abbiano ben maggior bisogno di supporto.", aggiunse ancora il Terzo Comandante, prima che, di nuovo, Moyna si voltasse verso di lui.

"Sacrificio inutile? Lascia che ti racconti, Terzo Generale, cosa è accaduto dopo che vi sono partito, cieco di vendetta.", lo ammonì il Secondo Comandante, iniziando poi il suo discorso.

"Mi ero lanciato all’attacco del gruppo di cui facevano parte gli assassini di Shango ed Akongo, poiché così li definivo in quel momento, e trovai dinanzi a tre giovani cavalieri feriti, due sorelle ed un ragazzo armato di una sfera chiodata, oltre a quattro Areoi due uomini, uno armato di un giavellotto ed uno dal cosmo simile a fulmine, e due donne, una dalla goffa armatura piena d’aculei e l’altra con vestigia più simili ad un volatile che non ad un pesce.

Proprio quest’ultima si rivelò essere una delle alleate dell’ospite del nostro Sovrano e lei tenne occupati in uno scontro, che la vide morire sconfitta, gli altri tre guerrieri polinesiani, mentre i combattenti di Grecia furono alla mia mercé, poiché troppo stanchi e feriti dopo gli scontri con Garang, Shango e Deng, poiché mi dissero quali nemici avevano in precedenza battuto, nel corso della battaglia.

Stavo per avere su di loro facile ragione, cieco di rabbia com’ero, quando gli Areoi, tornati vincitori dallo scontro con la traditrice, s’intromisero, dando così modo alla giovane di nome Agesilea, di bloccarmi e, insieme con me, abbandonarsi alla pienezza del proprio cosmo.

Immagini cosa vuol dire sacrificarsi? Gettare via il proprio futuro, i sogni, le aspettative, tutto per un bene più grande, quale può essere la Giustizia, o la salvezza della sorella e degli altri compagni d’arme. Io ho cercato di immaginarlo, poiché è stato lo stesso che, prima di lei, fece Shango per non doverli uccidere, e mi sono trovato a piangere quando ho compreso come quel sacrificio sarebbe stato inutile.

La ragazza, infatti, per quanto capace nella sua presa, era troppo stanca, troppo debole, le sue vestigia fin troppo danneggiate, tanto che, non appena ambo le coperture per le braccia non furono che frammenti dispersisi verso il suolo, gli arti le bruciarono così velocemente che la presa non resse ed io fui libero.

Per alcuni istanti osservai il volto di quella ragazzina, potendomi voltare, la vidi sconvolta per il proprio fallimento, dapprima, e poi sorpresa nel notare le lacrime che evaporavano per il caldo del suo cosmo sul mio volto.

<<Il tuo sacrificio non sarà inutile, sacerdotessa: mi hai permesso di capire le azioni di Shango, mi hai permesso di ricordare i veri valori che avevo e di rimembrare come e perché mi unii all’Esercito Nero.

Farò in modo che i tuoi cari non cadano in questa guerra e che il mio Sovrano non compia oltre degli errori simili a quelli finora fatti. Basta con le stragi, con le violenze inaudite ed immotivate: è tempo che ciò che resta dell’esercito africano torni in Africa, per piangere i propri morti e fare ammenda degli orrori commessi >>, con queste parole mi congedai da lei, ricadendo verso il suolo e perdendo i sensi al di fuori dell’Avaiki.

Fu l’esplodere dei cosmi di voi tre, miei parigrado al comando, che mi risvegliò, così mi alzai in volo.

Ho visto la sconfitta di Ntoro, per mano di un altro di questi giovani cavalieri sacrificatosi perché le anime fossero liberate dalla loro eterna dannazione, o intravisto l’impetuoso scontro che ancora sta costringendo Acoran a dare il massimo di se contro l’Areoi armato di giavellotto e ho deciso il da farsi.", spiegò Moyna, prendendo quindi una pausa ed alzando lo sguardo fiero verso il discepolo del Leone Nero.

"Andate avanti, cavalieri di Atena, ed anche tu, Areoi sacro ad Ukupanipo! Sarò io ad affrontare il mio parigrado Savanas, se egli non cederà il passo, per unirsi alla mia richiesta che questa guerra si concluda.", sentenziò deciso il guerriero nero, volgendo le spalle a Toru ed ai due santi d’argento.

"Sei forse uscito di senno, Moyna?", ruggì a quel punto Gu, sbalordito dalle ultime parole del parigrado, "Questo è tradimento!", continuò con tono accusatorio.

"Affatto, Comandante della Terza Armata, il mio è un rinsavimento: ho ricordato quali principi mi avevano legato alle nostre schiere, ho ricordato quali promesse mi erano state fatte dal nostro Sovrano e ho deciso che impedirò ulteriori spargimenti di sangue ed ulteriori meschinità, che il mio Re, che il nostro Re, possa tornare in Africa con ancora parte del suo originale onore, senza doverlo perdere del tutto in seguito alle azioni compiute, azioni mostruose che non possono essere narrate e di cui mi vergogno nel definirmi uno dei fautori, per quanto lo sia stato.

Cedi il passo, Gu del Fosa, o dovrai combattere con me, come dovrà poi farlo il Primo Generale, se nemmeno lei sarà concorde con le mie scelte.", ordinò alla fine il Comandante dell’Aquila Urlante.

"Ti ringrazio, nobile guerriero africano, per la tua decisione. Faremo in modo di onorare le tue parole e di cercare di fermare il vostro Sovrano, prima che macchi ancora di più il suo onore.", esordì a quel punto Ludwig del Centauro, prima di scattare in avanti assieme a Gustave, guidati da Toru dello Squalo Bianco.

"Dove credete di andare voi?", esclamò però il Terzo Artiglio, sollevando le mani ricolme d’energia verso di loro.

"Spirale degli Artigli!", urlò furibondo, dirigendogli contro il proprio attacco, "Venti del Cielo!", controbatté Moyna, liberando l’energia cosmica di cui era padrone e disperdendo nell’aria il vorticare delle affilate lame nemiche, dando al trio di guerrieri il tempo di allontanarsi e portando la piena attenzione del compagno d’arme verso di se.

"Rinuncia alla battaglia, Gu, non ne guadagneremo alcunché da questo scontro, né lo farà il nostro esercito.", fu l’ultimo tentativo del Secondo Generale di quietare lo scontro prima che iniziasse, "Buffo che a dirlo sia tu, che hai permesso alle mie prede di fuggire.", fu il primo commento del Terzo Comandante, che poi accennò un sorriso continuando, "In fondo, però, ne sono davvero lieto: quale modo migliore per dimostrare ciò che io, Acoran e Ntoro abbiamo sempre immaginato?", domandò retoricamente all’interlocutore.

"Che intendi dire?", incalzò sorpreso Moyna, "Intendo dire che tu sei il Secondo dei Comandanti d’Armata, il Secondo Artiglio, solo perché cronologicamente hai ricevuto l’investitura prima di tutti noi, non per altri motivi ed oggi, rendendoti la mia preda, lo dimostrerò!", ruggì il discepolo del Leone Nero, lanciandosi all’assalto contro il parigrado.

Con un balzo i due furono ora uno contro l’altro; Gu tentò un’artigliata alla spalliera sinistra di Moyna, ma questi la parò senza troppi problemi, sollevando il braccio per bloccare il colpo ed ostacolandolo, di conseguenza, con l’intera ala mancina.

Il Terzo Generale fu però abile nello stringere le dita aperte sull’ostacolo trovato, usandolo come sostegno per sollevarsi sulle gambe e sferrare un veloce calcio al volto dell’inatteso avversario, il quale fu rapido nell’abbassarsi leggermente, lasciando che il colpo andasse a vuoto, prima di tentare a sua volta un montante verso l’atletico sfidante, che si trovava decisamente in una posizione ben poco comoda per tentare alcun tipo di contromossa.

Il pugno del Secondo Comandante d’Armata fu, però, bloccato dal palmo destro dell’altro, che, lasciata la presa sull’ala sinistra dell’Aquila, compì una veloce rotazione sul proprio bacino a mezz’aria, voltandosi verso il colpo che già sentiva arrivare contro di se, contenendone la forza con la mano aperta ed usandolo per darsi una spinta tale da portarsi alle spalle del nemico.

Fu da quella posizione che il guerriero del Fosa tentò un nuovo assalto, provando a colpire con un veloce calcio frontale alla schiena il suo parigrado, che gli dava ancora le spalle, ma che fu ben lesto nel voltarsi e bloccare, a braccia incrociate, l’impeto del colpo direttogli, aprendo poi le braccia, per spingere indietro l’avversario e sferrando poi, egli stesso, un veloce gancio destro al momento di questi.

Ancora una volta, però, il pugno dell’Aquila Urlante andò a vuoto, poiché Gu s’abbassò sulle gambe, pronto ad approfittare della posizione per affondare gli artigli nell’addome nemico, ma trovando sul proprio percorso di nuovo l’ala sinistra a fare da difesa, bloccando il colpo e portandolo a scoprirsi dinanzi ad un secco calcio destro che quasi lo colpì, giacché fu lesto il Terzo Comandante a scattare sul lato opposto all’attacco, allontanandosi di qualche passo e compiendo un quarto di giro attorno all’avversario, prima di lanciarsi di nuovo addosso allo stesso.

Gu tentò un affondo con ambo le mani, scattando rapido e vicinissimo al suolo, così che il nemico non potesse fare altro che tentare di colpirlo dall’alto, con le mani, o eseguendo un salto, ma Moyna non fece niente di tutto ciò, bensì si spostò lateralmente, rispetto al movimento dell’avversario, scattando poi in avanti, dopo aver guadagnato un po’ di spazio d’azione e quindi tentò una veloce scivolata, provando a colpire, a sua volta, l’altro con le portentose ali dell’armatura.

A quella vista, fu il Generale della Terza Armata a dover spiccare un salto, per evitare l’impatto, provando, allo stesso tempo, a sferrare un calcio di tacco al capo del Secondo Comandante, che però fu scaltro ed abbassò la testa nel momento stesso in cui l’altro gli passò sopra, evitando così il colpo.

In pochi istanti, furono di nuovo fermi al suolo, volgendosi le spalle, ma non durò che poco, poiché subito il guerriero dell’Aquila Urlante si voltò, roteando il busto e rialzandosi già diretto verso il nemico e, allo stesso tempo, il parigrado del Fosa, compì una rapida rotazione del corpo, portandosi su tutti e quattro gli arti e scattando verso la propria preda.

Ali ed artigli cozzarono per l’ennesima volta fra loro, con il metallico suono che ne seguì, ma stavolta nessuno dei due si fece indietro, bensì entrambi ampliarono i loro scuri cosmi, così simili ed allo stesso tempo diversi per il modo in cui si manifestavano.

Fu il Secondo Generale ad attaccare per primo: "Venti del Cielo!", urlò liberando la violenta corrente d’aria, che spinse indietro il parigrado, prima che questi, restituendo al nemico quanto aveva visto da lui fare poco prima, liberasse la Spirale degli Artigli, che andò disperdendo le correnti generate dall’Aquila Urlante nella propria rotazione affilata, assopendosi, al qual tempo, anch’essa nell’atto di difendere il proprio padrone.

Con un balzo, Gu si allontanò dal nemico, scattando verso una delle poche colonne ancora in piedi ed arrampicandosi sulla stessa, sotto lo sguardo vigile di Moyna, prima di fermarsi sopra la stessa.

"Sei una sorpresa, Generale. Da tempo non ti vedevo combattere in modo così deciso, ne sono lieto, non sarebbe stata una bella cacciata se tu non avessi dato il meglio di te.", si complimentò il Terzo Artiglio, "Ti ringrazio, compagno d’arme, ma non c’è bisogno di tutto questo. Cedi il passo, ascoltami: il nostro Re sta sbagliando tutto! Non per questo mi sono unito alle schiere d’Africa, non per portare morte, distruzione e dimenticanza nelle culture del resto del mondo, ma per dare delle solide radici, delle speranze alla nostra, di cultura! Ora lo capisco, o, più correttamente, ora ho il coraggio di ammetterlo a me stesso, stiamo sbagliando tutti, fin da quando abbiamo abbandonato le terre natie per dirigerci verso il Medio Oriente, iniziando la nostra lunga Guerra con il mondo e le sue fedi.

Torniamo a casa, Gu, siamo rimasti solo in quattro, ma smettiamola di cercare la morte e torniamo a fare qualcosa per la vita, non solo la nostra, ma di tutti gli africani.", propose infine il Secondo Artiglio, aprendo la mano, quasi ad invitare l’altro a prendergliela ed accettare la sua proposta.

"Follia la tua, Generale! Follia e ribellione, questo fomenti con le tue parole eversive! Mi parli di pace, speranza e di casa, ma cosa sarebbero se non per primi attaccassimo i nemici che, di certo, un giorno potranno arrivare da noi.

È mai stata colpa delle nostre genti se siamo stati invasi? No, i Romani, i Macedoni prima di loro, gli europei tutti negli ultimi mille anni, loro hanno attaccato per primi! Cosa ha fatto la gente d’Africa in tutti questi millenni? Ha sopportato, ha subito, dalla conquista dell’Egitto per mano di Alessandro il Grande, alla distruzione di Cartagine per la furia di Scipione; fino ai decenni di schiavismo, colonialismo e terrore in cui gli stati dell’Europa ci hanno gettato, la nostra gente non ha fatto altro che subire e provare a difendersi, come delle deboli prede! Ebbene, il mio Maestro, il nostro Sovrano, egli ha visto la realtà dei fatti: attaccare per primi, distruggere, prendere il potere di altri, così da essere pronti, al momento giusto, per schiacciare gli invasori europei!

Non tornerò a casa con te, Moyna, non prima che il mio compito qui sia concluso ed il mio compito e permettere al nostro Re di acquisire il potere anche di queste divinità per se e per i suoi alleati.", terminò di rimando il Terzo Generale, disegnando poi un quadrilatero con un veloce movimento delle mani.

"Sei stato abile nel resistermi in un confronto fisico, altrettanto nel riuscire a disperdere la potenza della Spirale degli Artigli, ma ora basta, Secondo Comandante, è tempo che tu paghi il fio del tradimento; è tempo che ti affronti nel mio ambiente naturale.", sentenziò deciso Gu, "Foresta del Madagascar!", urlò subito dopo, liberando l’energia che prese la forma della fitta vegetazione attorno al proprio bersaglio.

Le lame energetiche sferzarono l’aria attorno alla vittima designata, spingendola verso l’alto, investendola con più e più violenza ad ogni nuova ondata di forza dalle fittizie fronde liberatasi, mentre già Gu si lanciava verso il basso, diretto ad incontrare la propria preda a metà strada.

Quando, però, gli artigli del Fosa erano pronti ad affondare nella tenera pelle nemica, tutto ciò che il Terzo Comandante trovò, fu una scia di sangue che scivolava leggera verso il suolo, di nuovo, lì dove anche il guerriero della tribù Fon atterrò, sui quattro arti, guardandosi attorno, confuso.

"Il tuo ambiente naturale, Terzo Artiglio?", esclamò d’un tratto una voce su un altro dei piloni di pietra, spingendo il guerriero al suolo ad alzare lo sguardo verso la figura di Moyna che imperava, appollaiata nobilmente sullo stesso.

"Dimentichi forse che io sull’Isola di Madagascar sono nato e cresciuto per diversi anni, prima di abbandonarla? Credevi forse che le foreste dove mai un vero fosa, un vero animale, è riuscito ad attaccarmi, mi si sarebbero ritorte contro? Hai fatto un grave errore in questo senso!", lo ammonì severo il Generale, "E siccome sembri non voler porre orecchio alle mie parole, lascerò che siano i fatti a renderti inoffensivo!", concluse con tono deciso, espandendo lo scuro cosmo, che si manifestò come dei piccoli vortici che andavano condensandosi attorno al corpo ferito, prendendo l’aspetto di un nero piumaggio.

"Piume d’Ebano, piovete sulla vostra preda!", ordinò deciso il guerriero d’Africa, scatenando i dardi d’energia che volarono rapidissimi contro Gu del Fosa.

Il Terzo Comandante d’Armata cercò di bloccarli, usando la Spirale degli Artigli, ma solo una minima parte delle piume furono fermate, la maggioranza riuscì comunque ad investirlo, alcune cozzando contro le vestigia, lì dove la furia dei due scontri finora combattuti non le aveva ancora raggiunte, ma altre riuscirono a ferirlo, tanto da costringerlo ad indietreggiare, cercando riparo dietro un’altra delle colonne di pietra, su cui la pioggia di dardi infierì, fino a distruggere la stessa, nel suo concludersi.

Il guerriero dell’Aquila Urlante, però, non ebbe molto tempo per constatare gli effetti del proprio attacco, poiché, con un rapido sguardo, intravide proiettarsi al suolo la propria ombra, come se una nuova fonte di luce lo stesse illuminando dalle spalle e, voltandosi, s’accorse di un quadrilatero che s’andava disegnando, una forma che indicava un attacco che aveva già visto, poco prima: "Foresta del Madagascar!", urlò la voce di Gu, dalle macerie.

Il colpo fu una sorpresa per Moyna che non ebbe il tempo di difendersi, venendo investito alla schiena e subendo la violenza delle fronde di tagliente energia che si disegnavano attorno a lui, schiacciandolo verso il suolo dove fu gettato; solo allora la sagoma del Terzo Artiglio uscì dalle polveri, gettandosi in corsa contro il proprio bersaglio e colpendolo, stavolta, con le affilate mani ricoperte del nero cosmo, fino a schiantarlo ad alcuni metri di distanza.

Rise di gusto il guerriero del Fosa, sanguinante e stanco, nell’osservare la sagoma a terra del nemico, sporco anch’egli di sangue, ma la risata gli morì in gola nel notare che, con le ultime forze rimastegli, il suo avversario richiamava nuovamente a se le Piume d’Ebano, scagliandogliele addosso e spingendolo a terra, sanguinante anch’egli.

Rimasero così i due generali dell’Esercito d’Africa, al suolo, nel loro stesso sangue, in mezzo alle macerie, immobili.

E fu in quel momento che la mente di Moyna iniziò a vagare nei ricordi.

***

Erano intorno ad un fuoco, nella fitta giungla thailandese, avevano da poco terminato lo scontro nei templi delle divinità di quei luoghi, vincendoli e, ancora una volta, Moyna era seduto assieme ai suoi guerrieri: Shango, Akongo, Ayabba, Agassou e Lebe.

"Il pezzo di carne più grosso per Ayabba!", esordì il piccolo guerriero del Fennec, un ragazzino che il secondo in comando dell’Armata aveva trovato in Kenya, un piccolo orfano che avevano cresciuto fra le loro file, un po’ tutti si consideravano i suoi maestri, infatti, ed un po’ tutti accettavano le sue scherzose battute, persino il permaloso Ippopotamo.

"Lo vuoi forse tu, piccoletto, il pezzo di carne più grossa? Non penso che riusciresti ad ingoiarlo tutto!", lo schernì proprio il corpulento africano, "Vedi l’aspetto positivo allora: che noi non facciamo come i membri della terza Armata, che dividono anche il cibo in funzione del valore, in quel caso dovresti divorare con i soli occhi il cibo che spetterebbe ai nobili Shango ed Akongo.", ridacchiò ancora il ragazzino.

"Oppure questo vi potrebbe spronare a fare di più.", li punzecchiò proprio il combattente del Nibbio Reale, assaggiando un pezzo di carne, "Ma noi non siamo così, non ci serve misurare il valore e premiarlo, sappiamo che diamo tutti il massimo, poi i risultati ottenuti dagli uni, più che dagli altri, sono un fatto di esperienza.", ribatté il parigrado della Zebra, zittendo il discepolo di Moyna, che gli rivolse una smorfia.

"Se volete una porzione di carne in più, Lebe ed Ayabba, potete anche dividervi la mia.", propose loro, con estrema gentilezza, proprio il Secondo Generale, zittendo di soppiatto i due membri delle sue schiere, che furono veloci nell’affermare che non avrebbero voluto togliere lui il cibo e che stavano semplicemente scherzando fra loro.

Fu dopo quel piccolo dialogo che Agassou prese la parola, rivolgendosi al Comandante d’Armata: "Potente Moyna, è vera la voce che ho sentito fra i soldati formica dei diversi schieramenti? Ancora due santuari stranieri e poi torneremo in Africa?", domandò il guerriero del Dromedario.

"Torneremo a casa?", ripeté felicemente sorpreso il piccolo Lebe, "Che bello!", esclamò subito dopo, voltandosi verso i compagni con lui seduti e trovando un evidente dubbio negli sguardi di Akongo e Shango, mentre il disappunto era altrettanto chiaro su quello di Ayabba.

"Cosa c’è di bello nel tornare a casa? Non abbiamo nessuno che ci attende, la nostra casa, se così vuoi chiamarla, è la seconda armata, piccoletto!", lo sgridò proprio il guerriero dell’Ippopotamo.

"Non trattarlo così, in fondo ha ragione, anch’io, per quanto non abbia nessuno se non il nostro comandante e voi, sarei felice di tornare in Africa, in fondo, se siamo partiti da lì anni fa, era proprio per renderla un luogo più sicuro.", osservò di rimando quello della Zebra.

"Siamo partiti per portare la pace e lo abbiamo fatto scatenando delle guerre, sembra quasi un ossimoro.", commentò con vela malinconia Agassou; "Siamo partiti per scacciare tutti coloro che potevano giudicarci, agire con la forza su di noi ed abbiamo usato la violenza solo per attaccare prima d’essere attaccati. Questo è ciò che ha deciso di fare il nostro Sovrano!", ribatté Ayabba.

"Anche tu, Dromedario, parli di buoni propositi e di pace, ma dovresti sapere bene come le divinità siano vittime delle loro bizzarrie, non è forse per questo che la divinità egizia a cui volevi legarti ti ha rifiutato al suo seguito? E chi le segue fedelmente, più che seguire gli uomini, è costretto a sottostare alla loro volontà, oltre che, come tutti gli uomini, essere portatore di una certa quantità di pregiudizi.", terminò infastidito il corpulento guerriero.

"Sei sempre così pessimista ed esagerato, mi togli l’appetito quasi.", lamentò a quel punto Shango, gettando nel fuoco un piccolo frammento di carne, "Ma proprio per questo lo fa: per papparsi ciò che voi non volete!", ridacchiò Lebe, scattando subito in piedi, inseguito, scherzosamente, da Ayabba, correndo assieme a lui attorno a quel falò che aveva qualcosa di familiare, un focolare quasi domestico che li teneva uniti in modo diverso dalle altre armate, lo sapevano tutti quanti molto bene, poiché non vi era la rigida severità imposta da Mawu; o il disprezzo di chi era più forte verso i più deboli che Gu sosteneva; né la furia cieca che portava spesso a litigare fra loro i seguaci di Acoran; o il distacco gelido che aleggiava fra i membri dell’armata di Ntoro.

No, il Secondo Plotone d’Africa era come una piccola famiglia, che era andata sempre più stringendosi fino alla battaglia in India, contro un esercito che si faceva chiamare l’Indù Army, contro di loro solo quei cinque erano sopravvissuti assieme a Moyna, per trovare la morte fra le Filippine e la Polinesia.

E di queste morti, come di tutte le altre, il Secondo Generale si sentiva colpevole, infinitamente colpevole.

"No, Comandante, non dovete sentirvi in colpa. Non ci avete chiesto niente di ciò che non avevate già chiesto a voi stesso! Tutti noi sapevamo di dover uccidere una parte di noi per compiere il volere del Sovrano; tutti noi ben capivamo che, per quanto fosse folle cercare la pace con la guerra, dovevamo rischiare, poiché l’unica possibilità di un’unità dei popoli ci era data dal Re d’Africa. Non vi biasimo per ciò che mi è successo, ma mi biasimo per non avervi proposto io stesso di riflettere assieme al nostro Sovrano.", esordì la voce di Agassou, interrompendo i rammarichi ed i pensieri di Moyna.

"Voi mi avete dato una famiglia quando le guerre intestine dei nostri popoli me l’avevano tolta, in Kenya, voi, comandante, assieme ad Akongo ed a tutti gli altri mi avete dimostrato che la pace era possibile fra africani di diverse tribù ed origini, ho seguito questo sogno come tutti e come tutti non v’incolpo di quel che mi è successo, poiché credevo nel desiderio ultimo di pace.", continuò quello che riconobbe come Lebe del Fennec.

"Ero pieno di odio, solo per quello ho seguito il nostro Sovrano inizialmente, ma devo ringraziare lei, comandante, insieme a tutta la Seconda Armata, se l’odio si è sciolto nel mio cuore, dandomi la pace, la serenità che trovavo unendomi alle cene con tutti i compagni e gli amici. Voi mi avete fatto trovare la mia umanità, prima ero una bestia, come i guerrieri al servizio delle altre armate.", aggiunse la voce di Ayabba.

"Tutto questo è vero, fratello. Per noi tutti la Seconda Armata, conoscerti, non è stato qualcosa da biasimare, nessuno di noi ti attribuisce la colpa per quel che gli è successo, io stesso, senza di te, non avrei forse nemmeno mai avuto un desiderio, sarei rimasto in quel piccolo orfanotrofio, senza poter arricchire la mia cultura, forse senza nemmeno desiderarlo, ma tu mi hai aperto ad un mondo di pace, un mondo per cui volevo apprendere, scoprire, ottenere conoscenza e tante altre qualità.

Non darti la colpa per la nostra fine, piuttosto sii felice di provare qualcosa, al contrario dei tuoi parigrado, sii felice che ora siamo liberi dalle sofferenze del Guscio Infinito ed impegnati a salvare il Nostro Re, prima che sia troppo tardi per liberarlo dalle sue ambizioni.", continuò Akongo.

"Maestro, non posso che ringraziarla, per tutto ciò che ho appreso, persino per il mio sacrificio finale: grazie a lei ho capito che non potevo prendere le vite di quelle fanciulle perché loro, al contrario di noi, combattevano per la pace.

Non si senta in colpa per la nostra fine, ma piuttosto lotti perché non sia stata vana, perché il vero valore della vita ritorni chiaro agli occhi di chi su di noi regna. Solo di questo la prego, anzi, tutti noi la preghiamo.", sussurrò la più distante delle voci, quella che senza problemi Moyna riconobbe come la voce di Shango, il suo allievo, perso fra le stelle dell’Aquila, lì dove ormai lo aveva raggiunto anche Agesilea, di certo.

***

Quelle parole, quelle voci, assieme alle molte altre dei soldati persi nelle precedenti battaglie, fecero rinsavire il Secondo Generale d’armata, ma fu una sensazione a richiamare al presente sia lui, sia il parigrado della Terza: un cosmo come s’espandeva e che entrambi riconobbero per la fredda natura mortifera, il cosmo di Mawu del Mamba Nero, che di certo aveva iniziato la propria battaglia.

"Sembra che io non abbia tempo da perdere con te, traditore, non più almeno.", esordì allora Gu, espandendo il cosmo nero e sollevando la mano sinistra, "Vuoi dunque che così finisca la battaglia, Terzo Artiglio? Che il mio colpo migliore si confronti con il tuo?", chiese triste l’altro, rialzandosi e convogliando attorno a se le proprie forze, "Esatto.", fu l’unico, inesorabile, commento che ricevette.

"Cacciatore Nero!", ordinò deciso il guerriero del Fosa, calando il braccio in avanti e generando tre affilate lame oscure che correvano affamate, divorando il terreno fra loro; "Urlo dell’Africa!", invocò di rimando quello dell’Aquila Urlante, emettendo un’ondata d’energia che proruppe con un suo incredibilmente acuto ed impetuoso, frantumando l’aria nella sua corsa contro il colpo nemico.

L’impatto fra le due forze fu devastante ed assordante allo stesso tempo e non diede a nessuno dei due il minimo tempo per fermarsi, giusto la possibilità di incalzarsi ancora l’un l’altro, mentre le loro forze si equilibravano a vicenda.

"Cedi, traditore!", ruggì infuriato Gu, dando ancora più forza al proprio attacco, "Sono stanco di ripeterti, che non io ho tradito la nostra causa!", ribatté Moyna, "Non l’hai tradito? Se il nome di questo tuo attacco è un’offesa persino per il nostro Sovrano! Come se fossi tu a poter rappresentare la terra che ci è patria!", lo accusò ancora il Terzo Artiglio, "Ironicamente, una volta, un noto pensatore europeo disse che l’Urlo dell’Haliaeetus Vocifer rappresenta il nostro continente tanto quanto il Ruggito del Leone. Fu Akongo a dirmelo e fu per questo che, tredici anni fa, scelsi quelle vestigia, di comune accordo con il Re che ancora adesso stimo ed onoro.", lo redarguì il Secondo Generale.

"Tu stimi ed onori ancora il mio Maestro? E come? Tradendo la sua fiducia e la lealtà che dovresti concedergli assoluta?", lo ammonì di nuovo il guerriero del Fosa, "In verità, è il nostro Re ad aver tradito la mia di fiducia, ma tu eri ancora un suo discepolo quando mi scelse, non puoi ricordare, solo io e Mawu eravamo presenti a quel particolare incontro a tre, quella sera lontana.", lo redarguì il Savanas dell’Aquila Urlante, mentre alla sua mente tornavano lontani ricordi del passato.

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Aveva abbandonato il Madagascar ormai da quattro anni quando li incontrò, già portava con se, in giro per le terre d’Africa che voleva visitare, il giovane Akongo, allora solo un ragazzino di tredici anni, mentre lui già ne aveva venti.

Moyna aveva abbandonato la propria isola natale con il sogno, forse di difficile realizzazione, di aiutare le popolazioni d’Africa ad essere unite, a sopportare le angherie delle diverse colonizzazioni, che li dividevano, così come le culture delle varie tribù, poiché sperava che tutto il continente che sentiva essere la sua casa fosse proprio come l’isola su cui era cresciuto.

E quel giorno, in un villaggio devastato dalla violenza dell’uomo, nell’estremo sud dell’Africa, Moyna ed il suo fratellino, come amava considerare Akongo, incontrare un gruppo di uomini, ancora ridotto in numeri, che si propose di aiutare quella gente sventurata, difendendoli da chi li assaliva, un gruppo guidato da un ragazzo di qualche anno più giovane di lui.

Il ventenne li vide allenarsi e combattere, mentre il diciassettenne che li comandava lo vide curare e portare soccorso, finché, una delle tante notti che tutti passavano lì, quel ragazzo lo raggiunse al suo fuoco, assieme alla fanciulla con un occhio solo che lo seguiva fedelmente e che impartiva ordini in sua vece, come il madagascariano aveva notato.

"Ti chiami Moyna, giusto?", domandò il diciassettenne, sedendosi al fuoco, dinanzi all’interlocutore, che rimase sorpreso da tanta sicurezza, "Sì, esatto. E voi siete?", domandò con fare cordiale l’altro ai due, ma fu la risposta che lo sorprese ben oltre quanto avesse mai potuto immaginare: "Io sono il Sovrano d’Africa.", così si presentò quel ragazzo, "E lei è la più fidata delle persone che mi stanno accanto.", concluse, indicando la sua compagnia di viaggio.

"Il titolo con cui ti … si è presentato, è al quanto strano, lo sa, vero?", chiese, impressionato da tanta sicurezza, Moyna, che iniziò a provare un reverenziale rispetto per l’altro, "Non ho mai sentito di un tale ruolo, di qualcuno che potesse vantarsi d’essere Re di tutta l’Africa.", concluse, cercando di riprendere il controllo dei propri pensieri.

"Ma se un uomo del genere esistesse, che cosa gli chiederesti?", incalzò il suo interlocutore, con uno sguardo furbo, lasciando ancora una volta l’altro senza parole, a riflettere.

"Gli chiederei di unire il nostro popolo, di fare in modo che le differenze non ci spingano più ad essere vittime dei colonizzatori europei, o dell’odio che sorge fra tribù diverse; chiederei la pace e la giustizia per l’Africa tutta.", rispose, alla fine, Moyna.

"Era ciò che speravo di sentire.", fu il primo commento del ragazzo, con un sorriso compiaciuto sul volto che si rivolgeva alla fanciulla cui si accompagnava, prima di continuare: "Se ti dicessi che tutto questo è possibile, ma che bisogna prima fare la guerra, per poi avere la pace? Saresti pronto a rischiare per questo sogno? Pronto a sacrificarti? Ti darò la forza per combattere una giusta battaglia alla volta, per seguire i miei ordini sul campo e fare in modo che chi starà sotto di te li segua in mia vece.

Diverrai il secondo dei miei Generali, dopo Mawu, se accetti questa mia proposta.", gli spiegò ancora quello che si definiva un Sovrano e per la prima volta, la sorpresa negli occhi di Moyna, lasciò il posto alla diffidenza.

"Vuoi forse essere un altro dei signori della Guerra che imperano in queste terre? Pensi forse di poter scacciare la violenza con la violenza?", domandò allora il giovane del Madagascar, "No, io voglio che le differenze che dividono l’Africa da secoli, rendendola debole, scompaiano, voglio che il mondo tutto capisca che questa non è terra di conquiste libera a tutti! So che dovrò fare dei compromessi con la mia pietà e la mia moralità per questo, già ne ho fatto uno alcuni anni fa, per ottenere il potere necessario, ma spero di poter diventare un sovrano migliore dei due miei predecessori che ho conosciuto, di cui era mio padre e l’altro un usurpatore assassino.", replicò deciso il monarca.

Lo sguardo dell’interlocutore divenne ancora più dubbioso a quel punto, mentre l’altro, più rilassato, continuò: "Per questo ho deciso di proporti un tale ruolo. Ho osservato come curi questa gente, come parli loro di pace, di rispetto e giustizia, tutti ideali che condivido, ma che penso di raggiungere in altro modo; non ti sto solo chiedendo di abbracciare il mio operato, ma di giudicarlo, mentre lo compirò. Voglio che tu sia il cuore del Re che non potrò possedere se dovrò guidare in battaglia uomini con meno onore di quanto so per certo che tu hai. Voglio che tu sia la mia moralità.

Accetti di seguirmi in questo senso? Di onorarmi e rivolgermi la tua fede, fino al giorno in cui le guerre finiranno, o finché non verrà il momento in cui dovrai indicarmi i miei errori?", chiese infine quello che ora sembrava il più maestoso degli uomini, alzandosi.

Non ebbe più remore Moyna, quelle ultime parole gli davano uno spiraglio di luce in un futuro di violenza che quello strano individuo gli proponeva: oltre all’obbligo di dover uccidere in battaglia, infatti, aveva la possibilità di giudicare le sue azioni, di consigliarlo su come agire, una possibilità, che, sperava, avrebbe usato per il meglio.

"Accetto, Maestà.", furono le parole che naturali gli nacquero, alzandosi a sua volta.

"Ottimo, Moyna, oggi diventi il mio Secondo Artiglio. Da domani tu e tuo fratello viaggerete con noi, avrete modo di scoprire i segreti del cosmo, l’arma più forte che un guerriero possa avere in battaglia. Il mio nome è Ogum, Re Ogum e ho un modo specifico in cui chiedo a tutti, per primi i miei Generali, di onorarmi.", concluse l’altro.

Ed a quelle parole, la ragazza con un occhio solo s’inginocchiò sulla gamba sinistra, portando il pugno destro, chiuso, al volto, subito imitata da Moyna, prima che entrambi innalzassero l’una seguita dall’altro, una lode al Sovrano: "Lode a Re Ogum!".

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E Moyna aveva seguito il suo Re, per tredici lunghi anni, aveva appreso come combattere, addestrato Shango, visto le sue schiere riempirsi, accettato, seppur a malincuore, Acoran e Ntoro, meno nobili e legati ai loro ideali di Gu, che aveva una cieca devozione verso il proprio maestro, aveva visto le loro armate diventare sempre più forti, finché, meno di dieci anni fa, erano partiti per la guerra che da tanto il Sovrano gli aveva pronosticato, una guerra che, però, il Generale dell’Aquila Urlante non aveva mai immaginato sarebbe stata contro tutte le divinità del mondo.

Solo quando gliene aveva parlato la prima volta, avvalendosi di quel diritto che il Re gli aveva concesso, Moyna aveva scoperto degli alleati del Leone Nero, di individui capaci di viaggiare nel mondo senza camminarvi e che, proprio perché non erano dei, desideravano la cancellazione delle divinità, al solo fine di rendere tutti uguali, di cancellare le distinzioni che gli esseri divini avevano portato fra le genti.

Solo dopo aver percepito il primo pantheon celeste scomparire, nelle terre sacre ad Ahura Mazda, Moyna aveva capito la vastità del potere che il loro Re stava assorbendo e condividendo con quei suoi alleati, un potere che, però, lentamente lo consumava, allontanandolo da loro, strappandolo a ciò che gli Artigli di cui si era fornito dovevano sempre ricordargli, strappandolo alla sua umanità.

La battaglia nell’Avaiki, però, aveva quasi strappato allo stesso Generale dell’Aquila Urlante quella stessa morale che lui doveva avere non solo per se, ma anche per il Sovrano che lo guidava: in quel momento, quando aveva capito cosa aveva rischiato andando contro i cavalieri di Atena, solo allora era rinsavito ed ora non poteva in alcun modo far sì che il Leone Nero andasse avanti con quella pazzia, doveva salvarlo, se non dai nemici, almeno da se stesso. Doveva sconfiggere Gu, prima, per fare ciò.

Il Terzo Artiglio, però, non dimostrava alcuna volontà di arrendersi, o farsi sconfiggere: lui che più di tutti rispecchiava l’orgoglio e la determinazione che il comune Sovrano aveva ancor prima dell’inizio di quella serie di infinite guerre, non si sarebbe mai fermato dal pressare con la furia del Cacciatore Nero, contro cui l’Urlo d’Africa ancora si ergeva come invalicabile muro.

"Ancora non desisti, traditore?", sbottò Gu, incalzando con la forza del proprio cosmo, "Sono stanco di ripetermi, Generale: io non sto tradendo il mio Re!", ripeté per l’ennesima volta Moyna, convogliando l’energia nel colpo che aveva scagliato.

"Se il tuo non è tradimento, cos’è?", ribadì ancora una volta l’altro, "La mia è vera devozione! Traditori sono stati gli Areoi che hanno voltato le spalle ai compagni e li hanno attaccati, ciechi per il desiderio di possedere un potere più grande, un ruolo più rilevante, per un sentimento di rivalsa verso i compagni!

Tradimento è stato quello dell’alleato del nostro Sovrano, l’ospite che ora lo sta aiutando a catturare le divinità delle sue terre, che, al contrario di quello incontrato in India, aveva però promesso di difendere quelle stesse divinità.

Tradimento è quello che abbiamo instillato in quel giovane, nella grotta, convincendolo che lui sarebbe diventato pari ad una divinità, spingendolo a fingersi un guerriero accadico quando, in realtà, non lo era.

Io sto agendo perché il mio, il nostro, Re, ritorni ad essere l’uomo che era un tempo, pronto ad uccidere e combattere, sì, ma anche con una moralità, degli affetti, un orgoglio per la sua natura di uomo, forse feroce ed avido come altre persone, ma non così distaccato dalle sensazioni ed accecato solo dal compito di piegare a se gli dei.

Dimmi, Gu, tu ricordi il tuo Maestro quando lo incontrasti la prima volta? Ti sembra che sia così simile ad allora? Risponditi a questa domanda e capirai chi, effettivamente, lo sta tradendo.", concluse secco il Secondo Artiglio.

Per alcuni istanti, il dubbio s’insinuò nella mente del comandante della Terza Armata, ma fu subito scacciato da quanto aveva appreso, dalla fedeltà e riconoscenza che doveva a chi lo aveva scelto, quindici anni prima, sugli altipiani del Dahomey.

"Basta parlare, lo avevi detto tu! Cacciatore Nero, schiaccia questo insetto fastidioso!", urlò un’ultima volta il Generale del Fosa.

"Sia dunque, che l’Urlo d’Africa decida la mia sorte. Che la vittoria premi il più forte.", ribatté rammaricato il Comandante dell’Aquila Urlante.

I due attacchi si contrastarono ancora una volta ed un’esplosione deflagrò l’area, distruggendo le ultime colonne, frantumando le armature nere dei due in più punti e spingendoli via, ognuno in direzione diversa, lasciando i loro corpi sanguinanti e moribondi a coprirsi di macerie, credendo, entrambi, nel loro modo di vivere la fedeltà al comune Sovrano.

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Nella sala del Comandante dell’Avaiki, Ogum del Leone avvertì l’esplodere anche di quel potente confronto di cosmi, per quanto l’assorbire l’essenza delle divinità polinesiane e l’infuriare della battaglia fra Mawu ed i nemici fossero molto più vicini, non poté non sentire come anche altri due dei suoi artigli erano caduti in battaglia, seppur non sapesse dire, in quel momento, se fosse stata la sua moralità, o il suo orgoglio, a morire per sempre.

L’ultimo scontro, per lui, era alle porte: solo il Mamba Nero restava come ultima difesa.