Capitolo 20: L’allievo di Samadhi
Si stavano attirando l’uno con l’altro: il cavaliere d’argento aveva individuato quella presenza che intrappolava le menti in illusioni e l’aveva debellata da chi ne era rimasto vittima ed ora, dopo aver concentrato le proprie forze per un breve lasso di tempo, s’era avventurato verso il luogo da cui quella presenza scaturiva.
Il membro dei Savanas, d’altronde, non aveva gradito quella sorprendente interruzione: mai nessuno, escluso il suo maestro, era riuscito ad avere ragione dei suoi inganni psichici, mai nessuno se ne era liberato, mai nessuno aveva liberato altri dalla presa della mente superiore di cui era in possesso, mai nessuno aveva cercato di intrappolarlo a sua volta!
Questi erano Amara del Triangolo, santo d’argento, ed Anansi, allievo di Ntoro della Quinta Armata, unico discepolo e membro di quel plotone ancora in vita, come il suo maestro ormai ben sapeva.
Ed anche il guerriero nero ne era ormai a conoscenza: l’"Estensione della Psiche", il suo attacco più basilare, una tecnica che Anansi aveva creato prendendo forma da ciò che il suo insegnante sapeva fare così bene, questo potere gli dava la capacità di avvertire qualsiasi mente gli fosse vicina, entro dei determinati spazi d’azione, che andavano diminuendo a seconda di quante menti il giovane attaccasse contemporaneamente.
Aveva esteso fin quasi all’estremità opposta di quel tempio subacqueo la propria ricerca e, al contrario di alcune ore prima, ora avvertiva solo poco più di una ventina di menti, che s’agitavano in quei cunicoli, ognuno con le sue strategie e finalità, ognuno inevitabilmente pronto a chissà quali battaglie, tranne l’uomo che avrebbe voluto colpire, lo stesso che ora stava correndo proprio verso di lui, concentrando per lo scontro che lo attendeva.
Anansi, però, non gli avrebbe reso la cosa facile, piuttosto avrebbe scelto dove si sarebbero confrontati e secondo quali regole: le sue.
"Estensione della Psiche!", sussurrò fra se il guerriero nero, prima che l’emanazione dell’energia psichica di cui era padrone si allungasse, non come una fitta tela, così com’era stato nel catturare i quattro nemici sconosciuti in precedenza, né nel modo in cui aveva usato quel suo attacco in precedenza, bensì l’espanse in un’unica direzione, come un arto, un braccio, o più correttamente, come se volesse allungare il proprio sguardo verso chi stava cercando e che alla fine trovò.
Il suo nemico aveva avuto ragione di quella tecnica già in precedenza, ma per ora ciò non gli importava: quello a cui puntava era qualcosa di più semplice, qualcosa che, forse, nemmeno l’altro si sarebbe reso conto di fare, troppo preoccupato a liberarsi da quella illusione.
Amara, lungo la propria corsa, avvertì qualcosa di differente: un’espansione cosmica, nemmeno troppo ampia in fondo, che lo circondava; vide il corridoio dinanzi a se allungarsi a dismisura, perdere la propria conformità, così come la stava osservando da alcuni minuti per diventare una strada infinita e nera, senza uscite, apparentemente, un luogo in cui perdersi forse per sempre e gli fu subito chiaro che, probabilmente, era quella la capacità del suo nemico, la stessa che aveva fatto vagare in tondo, per diverso tempo, sia i due cavalieri d’argento a lui pari di grado, sia i due Areoi di quel tempio.
Non si fermò, però, stavolta il cavaliere d’argento, bensì focalizzò il proprio cosmo, dirigendolo in modo offensivo, per così dire, verso quella ampia quantità d’energia psichica che voleva confonderlo e lasciare che si perdesse: quasi fosse una bussola che puntava sempre verso Nord, così l’emanazione cosmica del santo del Triangolo si sarebbe diretta verso la sorgente dell’attacco nemico, magari con più incertezza, richiedendo più tempo, ma non avrebbe sbagliato nell’individuarlo, anche se Amara era, in quel momento, cieco al mondo che, effettivamente, lo circondava.
Fu durante quella corsa che, inaspettatamente, cieco al suo presente, il cavaliere vide dinanzi a se il suo passato ed il momento in cui aveva incontrato l’uomo che, in seguito, gli fece da maestro.
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Era un bambino di nemmeno dieci anni quando lo incontrò, a quel tempo vagava, ormai già da un anno, per le povere strade di Calcutta, orfano e senza tetto, a causa di quella povertà che aveva annientato completamente la sua famiglia con la fame e la malattia, riducendo un nucleo di sei persone al solo, piccolo, Amara.
Nella comunità induista di cui i suoi genitori facevano parte, nella casta di cui erano membri, non aveva trovato nessuno che potesse prendersi cura di lui, anche per lo sciocco timore che, magari, pure quel singolo sopravvissuto potesse portare le medesime malattie che avevano ucciso i restanti membri della famiglia; né i missionari cristiani avevano potuto prendersi cura di lui, un bambino che si rifiutava di avvicinarsi al credo che li spingeva ad aiutarli, un bambino che, alla prima occasione, fuggì da un luogo che non capiva e da gente che aveva abitudini troppo differenti dalle sue, a cui provavano a farlo avvicinare.
Era rimasto quindi solo e vagava per i vicoli, vivendo di scarti, rimasugli e della carità della gente, per quanto odiasse questa vita, il piccolo Amara non sapeva come altro sopravvivere, o almeno così fu finché non lo incontrò.
Erano due giorni che non mangiava e, sulle prime, pensò fosse quella ragione per cui non aveva avvertito completamente il rumore dei passi di quello strano uomo che ora si trovava davanti, né lo aveva intravisto nel voltare l’angolo, eppure ora se lo trovava lì, a bloccargli la strada, guardandolo con una pacata gentilezza, come nessuno faceva da tempo.
Era un uomo alto, slanciato, dalla pelle leggermente più chiara della sua, per quanto si notavano le origini indiane, o comunque di quelle medesime terre, indossava una lunga tonica bianca con un mantello scuro a coprirlo ed abbassò verso di lui i suoi gentili occhi viola.
"Bambino, che ti sei fermato dinanzi a me, come ti chiami?", gli chiese, ma Amara non aveva la forza di parlare, né di muovere anche solo un passo in avanti, era privo di forze per combattere per il proprio destino, un destino che, per quanto in quel momento non lo sapesse, gli stava per aprire le porte verso un futuro che mai avrebbe immaginato.
"Il mio nome è Samadhi.", furono le uniche parole che, in quel momento, però, il piccolo orfano riuscì a sentire, prima di svenire per la troppa fame.
Quando si riprese, Amara capì d’aver dormito per diverse ore, poiché già era calata la notte; si trovava nel medesimo pezzo di strada dov’era svenuto, eppure sembrava che nessuno lo avesse soccorso, o spostato, quasi la gente nemmeno si fosse accorta della sua presenza, una situazione che, in fondo, era ben nota al giovane orfano, anche l’uomo che aveva incontrato pareva essersene andato.
Stava per rialzarsi, il piccolo indiano, quando avvertì un dolce odore solleticargli il naso, quasi gli parve d’essere impazzito per quel che avvertiva, ma, voltando il capo, nella penombra, la vide: una ciotola di riso, ricolma fino all’orlo, che sembrava essere lì solo per lui.
"Mangia, ragazzo, quella è per te. Riprendi le forze e poi mi dirai il tuo nome.", gli disse una voce, quella dell’uomo, apparso di nuovo alle sue spalle all’improvviso, senza che lui se ne rendesse conto.
Amara, comunque, non se lo fece ripetere, gettandosi con tutta la fame di un bambino di dieci anni povero e solo su quella ciotola di cibo ed ascoltando, mentre gustava quel riso, le parole di quello strano uomo: "Come ti ho detto, mi chiamo Samadhi e sono convinto che non sia stato un incontro senza senso il nostro, anzi credo che in qualsiasi mio incontro ci sia un motivo di fondo.
Per questo, se vorrai, ragazzo, mi seguirai e ti mostrerò come fare tuoi dei poteri che probabilmente nemmeno immagini di avere, ti offrirò il modo di apprendere come sopravvivere in questo mondo povero e, più di questo, come fare della tua vita qualcosa di valoroso, ti darò, se vorrai, una causa da seguire.", gli propose l’altro, ricevendo un cenno d’assenso del capo di quel giovane che, di lì in avanti, sarebbe diventato il suo allievo prediletto.
Seppur Amara fosse ben lontano da immaginare cosa avrebbe scoperto ed appreso seguendo il suo benefattore.
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L’attenzione del cavaliere del Triangolo tornò al presente, nel momento in cui si rese conto di aver raggiunto la sorgente di quella particolare emanazione cosmica.
"Rivelati, guerriero africano!", ordinò nel suo particolare modo d’esprimersi, il santo di Atena, attendendo una risposta che, però, non arrivò, lasciandolo circondato dal corridoio senza fine in cui i suoi sensi gli dicevano che ancora si trovava, malgrado le percezioni che andavano al di là dei limiti corporei gli permettessero di capire quanto vicino fosse al suo misterioso nemico.
Attese alcuni secondi ancora il discepolo di Samadhi, poi espanse il proprio cosmo, lasciandolo esplodere come aveva fatto durante lo scontro fra Iulia e Chikara, svelando, ancora una volta, l’illusione che quel misterioso avversario aveva gettato, stavolta sui suoi occhi, così da far scomparire le immagini del corridoio senza fine, trovandosi, con sua grande sorpresa, dinanzi a due cadaveri che aveva già visto: quelli di Kalumba e Mulungu!
"Sì, esatto, sei tornato al punto di partenza, guerriero di Atena!", esclamò una voce, proveniente dalle ombre che lo circondavano, "Ho pensato che fosse il luogo più sicuro per attuare la mia vendetta nei tuoi confronti, lontano da tutti i tuoi compagni d’armi e dalle loro battaglie, che, come di certo avverti anche tu ormai, sono ben lungi dal concludersi, anzi, per quanto io sia il penultimo ancora in vita del nostro esercito, avverto molti pericoli per voi combattenti di Grecia.", lo schernì quella presenza non visibile.
"Ad ogni modo, dimmi, quale sarebbe il nome dell’uomo che, dopo tanto tempo, mi spinge di nuovo a combattere personalmente, anziché dare ad altri l’onere di sporcarsi le mani per togliere una vita senza valore, come lo sono tutte in fondo.", esordì, dopo una breve pausa, l’ignoto nemico.
"Amara, cavaliere di Atena sotto le insegne del Triangolo, questo il mio nome e tu, che dietro inganni e menzogne ti celi, così come ti nascondi adesso nell’ombra, chi sei, africano?", domandò il santo d’argento, parlando per mezzo del proprio cosmo, "Anansi, allievo di Ntoro, Generale della Quinta Armata e, nella stessa, suo secondo in comando, dai più, chiamato l’Ingannatore.", si presentò la figura nascosta.
"Un titolo più che adatto per chi ha cercato di pilotare le azioni dei propri avversari in modo da farli cadere in trappole piazzate da altri, senza sporcarsi le mani.", osservò con tono calmo l’emanazione cosmica di Amara, "Per me, cos’hai in mente? Se non vi è nessuno oltre noi due qui, chi mi porrai come nemico?", domandò ancora il santo di Atena.
"Cosa ho in mente per te? Mai parole furono più esatte. Ma non della mia mente, ti dovresti preoccupare, bensì della tua, chiedendoti se sarà sufficientemente potente da reggere il confronto e scappare dalla trappola che ti ho teso.", concluse soddisfatto il guerriero nero, lasciando esplodere il proprio cosmo, che grigio e tenue ne rivelò la presenza alle spalle di Amara.
"Labirinto dei Pensieri!", invocò Anansi ed il cavaliere non ebbe nemmeno il tempo di voltarsi per guardarlo in volto, poiché una sottile nebbia occultò tutto ai suoi occhi per alcuni istanti.
Quando la scena fu di nuovo visibile al santo di Atena, questi si vide in un luogo diverso, un corridoio fatto di specchi che niente riflettevano, né permettevano di guardarvi attraverso, anzi, più che un corridoio, per come le sottili lastre si piegavano dietro e dinanzi a lui, quello sembrava più un labirinto.
"Penso sia stato uno scrittore europeo a dire che non servono prigioni, mura, o porte chiuse per intrappolare un uomo, che il più grande dei labirinti umani è uno solo: la mente.
Di queste parole mi sono fatto peso e ho deciso di dimostrarne la veridicità contro i nemici più capaci e tu, Amara del Triangolo, sei un nemico degno di tale sorte.", esordì la voce di Anansi, mentre una sagoma appariva da uno dei muri a vetro, una sagoma che però era fin troppo nota al cavaliere di Atena: la propria.
Amara si trovava dinanzi ad un se stesso dagli occhi inspiegabilmente dorati, che lo osservava con disprezzo e superiorità e la cui voce era, semplicemente, quella del nemico dal volto ignoto: "Dubito tu riesca a trovare una via di fuga da questo labirinto, la tua mente è la trappola che ti ho posto dinanzi, una mente piegata alle mie doti psichiche, troppo superiori perché tu possa vincerle!
Come il mio grande maestro, Ntoro, mi ha spiegato: la mente vince su tutto, sempre!", spiegò quella voce, "Ed ora a te, avversario, perditi nella tua stessa mente!", lo invitò, sorridendo perverso.
L’immagine di Amara dagli occhi dorati, a quel punto, si spostò sui diversi specchi, riflessa da tutti quanti ed impedendo la visuale di qualsiasi altra cosa al santo di Atena.
Il cavaliere d’argento si costrinse alla calma: per quanto quella situazione fosse apparentemente senza uscita, lui doveva solo ricordarsi dove si trovava in realtà e trovare un’uscita.
Accadde, però, proprio mentre Amara pensava a "dove si trovasse in realtà" che due degli specchi, uno sulla sua destra, l’altro a sinistra, mimassero delle nuove scene attorno a lui: "Non ho bisogno dei suoi consigli per batterti!", affermava sul lato mancino la voce di Iulia dell’Altare, intenta a combattere con Chikara dell’Istrice; "Ottimo, perché direi che dovremmo scambiarci i nemici.", suggeriva nel frattempo Ludwig del Centauro a Kohu dell’Istioforo dal lato opposto.
Stupito da ciò che vedeva, Amara non poté fare niente nemmeno quando vide il corridoio attorno a lui ruotare, come fosse un disco con lui al centro, per poi spingere lo specchio su cui il discepolo di Munklar e l’inatteso alleato stavano affrontando i due giganti della Quinta Armata.
Cercò di focalizzarsi sul proprio fine il discepolo di Samadhi, sul perché era stato inviato in quell’Avaiki, ma fu quel singolo pensiero a modificare il riflesso su uno specchio, sopra il capo del cavaliere: "Proprio per questo siete riuniti qui, cavalieri d’argento …", disse l’immagine di Sion, mentre lo sguardo spaziava verso i parigrado che si trovavano nell’arena di Atene ad ascoltare; "Allora dimmi, Triangolo, cosa hai scoperto dopo questi anni di ricerche?", continuava la voce dell’Oracolo, nello specchio dinanzi al cavaliere, che rifletteva le sale della Tredicesima Casa, dove tre custodi dorati ascoltavano quel riepilogo con chi li comandava.
Amara varcò quella superficie e si ritrovò catapultato nelle sale del Sommo Sacerdote, mentre ancora gli specchi risplendevano, attorno a lui.
"Come da voi mi è stato chiesto, Gran Sacerdote, ho compiuto lunghe ricerche su chi fossero questi Ladri di Divinità che dieci anni fa si rivelarono dinanzi al Saggio Maestro dei Cinque Picchi e sono giunto a diverse ipotesi che, senza falsa modestia, credo corrette.", iniziò la voce prodotta dall’emanazione cosmica, mentre su uno specchio alla destra del cavaliere si rivedeva lui, più giovane di nove anni, per la seconda volta nella sua vita al cospetto di Sion, assieme ai tre discepoli di Megatos del Toro ed alla sacerdotessa dell’Altare. Il giorno in cui gli era stato scelto per quella specifica ricerca.
"Il primo caso da me accertato, il più antico, riguardava, ben dodici anni fa, un tempio fra le vaste lande della Mongolia, il santuario di Tengri, suprema divinità del Cielo.
Non ebbi modo d’incontrare qualche sopravvissuto del tempio stesso, ma fra le genti di quel luogo vi era una storia relativa alla notte in cui il loro santuario fu distrutto e l’istintiva certezza che le divinità che veneravano fossero fra loro sparisse, una storia che, credo, abbia un fondo di verità.
Si parlava di due uomini, un conquistatore implacabile ed un essere che rinchiudeva in se stesso più anime, che dalle loro mani nascessero luce ed oscurità, caldo e freddo, fine ed inizio, che costoro avessero un potere tale da distruggere tutto e tutti e che, quella notte, lo avessero usato per annientare Tengri ed il tempio a lui costruito, con tutti coloro che all’interno dello stesso si trovavano.", aveva raccontato e, a quelle parole, su un’altra superficie vuota apparvero immagini di Amara che vagava fra le fredde lande della Mongolia, in cerca di informazioni.
"Era un caso singolo, ma proprio da quello sono partito nelle mie ricerche, trovando analogie con altri avvenimenti similari, in cui crescevano, gradualmente, di numero le figure presenti ogni volta, come ho scoperto confrontando le informazioni dei miei viaggi con quelle della sacerdotessa dell’Altare.
In particolare, il primo da lei individuato, undici anni fa, nell’italica città di Tarquinia, presso il santuario di Tarchon, alleato di Enea, assurto al ruolo di dio per i culti di quella città, dove tutto di lui fu cancellato da due figure descritte, pressoché come i fautori del massacro in Mongolia.", continuò nel suo racconto il cavaliere, ed un altro specchio si riempiva dell’immagine sua che scambiava informazioni con la sacerdotessa dell’Altare, durante il loro incontro per dirigersi in Africa, dove, giorni prima, avevano incontrato Juno di Cerbero.
"Più recenti, invece, sono le informazioni sulla presenza di un nero esercito che per questi Ladri di Divinità sembrerebbe agire, volutamente o meno.
Il mio primo contatto con quelle nere schiere fu in un tempio consacrato a Ganesha, in Thailandia, lì pare che oscuri guerrieri dalle vestigia simili a bestie africane, abbiano portato morte e distruzione, abbattendo tutti i seguaci della divinità e cancellando tutto al loro passaggio, compreso il cosmo del dio.
Quel fatto, scoprì, era solo la punta di un immenso iceberg: il primo di una serie di attacchi guidati da questa nera armata che riuscì a ricostruire, seguendoli a ritrosi, dalla Thailandia fino ai confini della Mesopotamia, dove erano stati visti quindici anni prima, ma, in quel tempo, il loro modo d’agire sembrava differente, pareva che fossero guidati da ben altri desideri di distruzione e vittoria, una vittoria che, però, in quella guerra non conobbero.
In più, ho scoperto che, esclusa la battaglia nei territori accadici, tutti i loro scontri sono stati più recenti, in un lasso di tempo di pochi anni, come se solo ora si fossero mossi, probabilmente una volta pronti; pare anzi che la loro prima campagna militare sia stata quella in cui Edward di Cefeo ha trovato la fine della propria vita.", continuava a spiegare l’emanazione cosmica di Amara, arricchendo tanti e tanti specchi di nuove immagini, relative ai diversi templi distrutti che aveva visitato negli anni delle ricerche, fino ad arrivare alla grotta in Tanzania.
Proprio delle scoperte relative al demone Ga-Gorib ed all’abisso senza fondo ad esso legato, accennò dopo, un discorso che fu concluso da un cenno d’assenso del Sommo Sacerdote, che poi prese la parola: "Lascerò a Perseo e Lacerta la ricerca di informazioni a riguardo, tu, Triangolo, avrai altro di cui occuparti assieme ai cavalieri tuoi pari.", aveva detto allora, preparandosi poi per l’incontro con i restanti santi d’argento.
A quel punto, Amara si trovò dinanzi ad un altro bivio, anzi, dinanzi ad un ben complesso incrocio costituito da molte e molte immagini, relative ai momenti diversi che s’erano risvegliati nella sua mente.
Anansi era soddisfatto e, insieme, stupefatto: quel nemico che aveva davanti sapeva molte cose, alcune a lui persino ignote, su di loro e su chi era alleato del Leone Nero, eppure gli mancavano delle informazioni per ottenere un quadro d’insieme più completo.
Non sapeva dell’entità e della vastità delle battaglie combattute nel lungo viaggio che aveva portato i Savanas dall’Africa fino alla Polinesia, non conosceva i particolari della battaglia avvenuta anni prima nei pressi del villaggio dove si trovavano le informazioni sull’abisso di Ga-Gorib, pareva inoltre ignorare l’impegno con cui il Sovrano d’Africa ed i suoi generali avevano organizzato nei precedenti dieci anni, o poco meno, le proprie forze per creare l’armata che aveva combattuto così a lungo e che, ormai, era distrutta.
Tutte notizie che quel cavaliere di Atena, però, non avrebbe ottenuto, notizie che non avrebbero potuto soddisfare le lacune della sua conoscenza, poiché ormai il destino del nemico che Anansi aveva davanti a se era segnato: il Labirinto dei Pensieri era una trappola impossibile da vincere, un infinito ricorrersi di pensieri ed ognuno di essi portava ad una memoria diversa, ad una diversa finestra del proprio passato, con dei voli pindarici spesso, oppure seguendo la logica risposta che una domanda insita nella mente della vittima generava; in ogni caso, chi entrava nel Labirinto non aveva modo di sfuggirvi, nemmeno interrompendo ogni proprio pensiero, poiché quello non avrebbe fatto altro che oscurare il percorso, non lo avrebbe portato ad alcuna uscita.
E per ogni nuovo specchio attraversato, per ogni strada percorsa, il Labirinto si sarebbe nutrito del cosmo della vittima, lasciandolo, alla fine, al suolo, ridotto ad un vegetale senza coscienza del presente, intrappolato, fino alla morte, nei propri ricordi e pensieri.
Come diceva sempre il suo maestro: la mente più potente può piegare gli spiriti più deboli. Questo il primo insegnamento che aveva appreso dal grande Ntoro, un insegnamento scoperto il giorno in cui lo aveva incontrato, nella landa desolata e priva di vita che, un tempo, era stata la casa di Anansi e, dopo il passaggio del suo futuro maestro, era semplicemente un vacuo deserto di corpi privi di vita; lui, unico a sopravvivere, perché unico capace di resistere al minimo potere usato dal suo futuro insegnante quel giorno, era stato scelto ed aveva accettato di seguire, per paura inizialmente, l’uomo che aveva massacrato tutte le genti che conosceva, l’uomo che aveva attaccato quel piccolo villaggio solo per piegare quelle voci che avrebbero dovuto allietare le sue orecchie con i loro lamenti eterni.
Tutto era iniziato così, molti anni fa, in Africa: per il terrore dinanzi a quel maestoso uomo che poteva massacrare i più deboli senza nemmeno toccarli, poi, con Anansi al seguito e dopo Abuk, Ntoro aveva iniziato ad apprezzare non solo i lamenti dei morenti, ma anche le riverenze dei vivi ed era diventato uno stregone famoso, nelle terre dell’Africa meridionale, venerato ed ossequiato, finché il Nero Re ed i primi quattro generali non lo chiamarono al proprio seguito, rendendolo comandante della Quinta Armata e massacrando chiunque si fosse messo a sua difesa, tranne i primi discepoli.
Un massacro che, comunque, non aveva avuto valore per Ntoro, che non vedeva nella mortalità delle genti niente di suo interesse, né nella morte di chi conosceva alcunché di cui preoccuparsi, e forse proprio questi insegnamenti avevano mutato il primo discepolo del Quinto generale nel distaccato ingannatore che intrappolava le vittime nei loro stessi pensieri, lasciando che poi fossero altri a finirli.
Una sorte che, ora, stava infliggendo anche ad Amara.
Il cavaliere del Triangolo era confuso: non sapeva da quanto stesse ormai girando in quel labirinto; dopo aver rimembrato il suo resoconto al Sommo Sacerdote si era gettato nell’adunata all’Arena di Atene, poi era tornato di nuovo nell’Avaiki, quindi ancora al Santuario e da lì, ogni volta, aveva scelto una diversa fase delle proprie ricerche, viaggiando fra i propri pensieri, tornando in Thailandia, in Mongolia, in Iran, nei diversi piccoli stati dell’Asia minore, fino all’Africa, passando ogni volta, costantemente, per Atene e per la Nuova Zelanda, ma per ogni nuovo passo si sentiva sempre più stanco e disperso.
Ascoltò per l’ennesima volta il lungo discorso con cui esponeva i fatti scoperti in nove anni di ricerche all’Oracolo di Atena, poi, di nuovo, le molteplici possibilità di scelta gli si aprirono dinanzi, con i tanti e tanti specchi su cui erano riflesse le diverse connessioni mentali che la mente aveva compiuto e su tutte, scelse l’unica che ancora non aveva provato: quella che lo condusse al giorno al suo secondo incontro con il Sommo Sacerdote.
Vide vicino a se Edward di Cefeo, Abar di Perseo e Degos di Orione e, poco più distante, nei pressi del grande Sion, Iulia dell’Altare.
"Cavalieri qui riuniti, vi ho fatto chiamare al mio cospetto per un misterioso fatto accaduto al Vecchio Maestro dei Cinque Picchi.", così aveva iniziato il Sommo Sacerdote, mentre su uno specchio l’immagine del giorno in cui Amara aveva condotto il piccolo Zong Wu fino a Goro-Ho si rivelava.
"Circa un anno fa, qualcuno, un nemico che si rivelò con un nome divino, malgrado la sua natura fosse inequivocabilmente umana, giunse ai piedi dei Cinque Picchi, non per rivelarsi all’antico guerriero di Atena, ma, un cosmo vasto come quello di questo sconosciuto, non sarebbe mai potuto sfuggire ai sensi ben addestrati del mio vecchio amico, un cosmo che non ebbe difficoltà ad individuare, allontanandosi, come molto di rado succede, dalla sua postazione per scoprire chi questo intruso fosse.
Non vi fu battaglia fra i due, ma, prima che questo misterioso individuo abbandonasse le terre di Cina, con ciò che cercava, rivelò i propri piani: cancellare le divinità dal creato, una follia, se non fosse stata per la potenza che sembrava emanare, una potenza che mise in guardia persino il saggio anziano, convincendolo ad informarmi attraverso il suo allievo che, pochi giorni fa, è qui giunto, Lei-Ho, futuro custode delle vestigia del Serpentario.
O almeno quello sarebbe dovuto essere il suo destino, ma costui non è mai arrivato vivo qui ad Atene, ucciso da qualcuno, probabilmente lo stesso misterioso individuo apparso in Cina un anno fa.
Solo ora comprendiamo i rischi che tutto ciò comporta e quindi, cavalieri qui riuniti, ho da darvi dei compiti: per prepararci per la minaccia a venire.
Discepoli di Megatos del Toro, voi, più esperti fra i cavalieri d’argento, vi occuperete di preparare dei nuovi custodi della casta mediana, così come molti santi d’oro, nel mondo, stanno già facendo, avendo ricevuto il mio ordine ed al pari loro anche Bao Xe della Musca sta allevando un’allieva, su suggerimento del suo stesso maestro Ascanius.
Mia allieva, a te sarà chiesto di fare ricerche, di trovare possibili casi evidenti, o meno, di questa minaccia in Europa e, se potrai, nelle Americhe; al pari suo, tu, discepolo dell’asceta Samadhi, compirai delle ricerche, in Asia ed in Africa, se vi avrai modo di viaggiare.", ordinò il Sommo Oracolo, accendendo le immagini delle varie ricerche attorno ad Amara ed una ben diversa sotto di lui, quella del primo incontro fra lui ed il suo maestro.
"Dobbiamo sapere se questo misterioso nemico delle divinità tutte era solo un folle, o una vera minaccia, per cui dovremo prepararci, eventualmente.", concluse quel giorno Sion, Sacerdote di Atena.
Alla fine di quel ricordo, il cavaliere del Triangolo si trovò di nuovo davanti a molteplici ricordi sui diversi specchi e decise di seguire l’unico che lo avrebbe portato ad un percorso diverso da quelli visitati finora, il ricordo del primo incontro con il proprio maestro, lo stesso che aprì diverse nuove immagini, mentre lo riviveva, immagini della disperata infanzia che aveva vissuto, del lungo viaggio fino in Tibet a seguito di Samadhi e della prima vera prova dinanzi la quale questi lo pose.
In quel momento, osservando le scelte che si aprivano dinanzi, Amara fu d’improvviso scosso da una memoria ben più presente di tutti quei collegamenti inconsci che, fino ad allora, aveva compiuto, una memoria che volle rivivere, attraversando lo specchio che lo condusse alla prova di Samadhi.
Era più giovane di molti anni e viveva con il maestro da uno ormai, un anno in cui avevano viaggiato a piedi dalle strade della povera Calcutta fino alle fredde vette del Tibet, un anno in cui Amara era stato iniziato ai misteri del cosmo e dello spirito da cui esso proveniva.
Eppure, in tutto quel tempo, non aveva mai visto mangiare il suo maestro, né vi era stato fra loro il minimo contatto fisico, come quel giorno Samadhi stesso gli fece notare.
"Amara, mio allievo, avvicinati, allunga verso di me la tua mano.", gli aveva chiesto gentilmente l’uomo e, dinanzi all’incerto discepolo, l’uomo aveva a sua volta portato le proprie dita verso quelle del ragazzo e vi era passato attraverso, con grande stupore dello stesso.
"Finora, a dirti il vero, tu non mi hai mai realmente incontrato, poiché il mio spirito ha viaggiato con te, ma nel momento in cui mi hai visto, fra le strade di Calcutta, ho capito che tu avevi in te le capacità per diventare un nobile guerriero della dea Atena.", gli spiegò, lasciandolo sbalordito e senza parole.
"Devi sapere che, molto tempo fa, seguendo gli insegnamenti del mio maestro, cercai di andare oltre i limiti dei cinque sensi, oltre i limiti della carne e della mortalità e così iniziai ad espandere il mio cosmo e, attraverso quello, il mio stesso spirito, fino a manifestarlo in modo incorporeo al di fuori di me stesso, diventando un tutto con il mondo, poiché potevo viaggiare in esso senza muovermi dalle alte vette che mi videro ricevere l’investitura a cavaliere e, in effetti, sono dieci anni che vago per il mondo senza lasciare questi luoghi, invisibile a chi non possiede almeno una minima padronanza del proprio microcosmo, come lo sei tu, seppur, probabilmente, in modo del tutto istintivo.
Per questo ti ho scelto come mio allievo, perché tu potessi andare oltre l’istinto e riuscissi a sfruttare i poteri che il destino ti ha concesso ed ora, prima di iniziare il tuo vero addestramento, dovrai superare la vera prova: vedermi, al di là dell’emanazione cosmica, dovrai superare i limiti dei sensi e della coscienza fisica.", concluse l’uomo, lasciando al discepolo il tempo di prepararsi.
Furono quel ricordo e quelle parole che, nel labirinto in cui si trovava, rivelarono ad Amara la via d’uscita: trovare il proprio nemico e se stesso nell’universo, nel tutto, non nel piccolo mondo in cui Anansi lo aveva intrappolato con l’inganno, spezzare le barriere della mente e della fisicità, ampliare il proprio spirito, come aveva fatto allora.
Chiuse gli occhi, quindi, il cavaliere d’argento, non preoccupandosi di continuare a rivivere quella memoria passata, non interessandosi degli specchi che gli offrivano altri viaggi nella mente, non interessandosi a niente che fosse così limitante, niente che fosse l’inganno offertogli, ampliò il proprio cosmo e con esso lo spirito, che abbandonarono i limiti della fisicità, i limiti di ciò che era legato ai cinque sensi e seguirono l’intuito, superando anche quel sesto limite ed arrivando ad uno stato maggiore di conoscenza, qualcosa che lo rendeva, a detta di tutti, il più forte dei santi d’argento: il settimo senso.
Anansi non credeva a ciò che stava vedendo: il nemico che con tanto impegno aveva intrappolato, stava ora ampliando il proprio cosmo, un cosmo che sembrava senza fine, pari a quello del suo maestro Ntoro e degli altri Comandanti d’Armata, un potere che superava le sue aspettative e che, incredibilmente, lo intimorì ed ancor più timore nacque in lui quando, improvvisamente, quella stessa emanazione cosmica parlò di nuovo, mentre il corpo del cavaliere disegnava un triangolo nello spazio che divideva i due contendenti.
"Trigono Pneumatos!", invocò la particolare voce emanata da Amara, prima che quei segni nell’aria prendessero forma, per qualche istante, in una barriera triangolare, una barriera che spezzò il legame mentale fra i due nemici e che permise, infine, al cavaliere di Atena di riaprire gli occhi sul presente e sul suo avversario, di cui ora osservava l’aspetto.
Era alto e snello, incredibilmente alto, quasi quanto Mulungu, ma molto più snello, coperto da vestigia nere che, per la loro interezza, erano adornate da macchie di un colore giallastro, macchie che ricoprivano i lunghissimi gambali e le protezioni delle braccia, così estesi su tutti e quattro gli arti da arrivare fino a congiungersi al tronco ed alla cinta, senza lasciare il minimo spazio libero sull’armatura.
Degli zoccoli dalla forma piuttosto semplice costituivano le spalliere, sotto cui scompariva un piccolo lembo dei lunghi arti di quello strano animale, che Amara, in vita sua, aveva visto solo durante i viaggi in Africa; il tronco delle vestigia, poi, era caratterizzato dalla medesima semplice fantasia maculata del resto dell’armatura e si allungava fino a celare del tutto, il collo, la nuca, la testa ed il mento del guerriero africano, per la natura stessa di quella bestia, di cui, infine, il volto con le piccole corna, costituiva la maschera facciale, da cui solo gli occhi dorati s’intravedevano.
"Quella tua armatura, guerriero nero, rappresenta una Giraffa, giusto?", domandò l’emanazione cosmica del discepolo di Samadhi.
"Esatto, Anansi della Giraffa è il nemico che hai davanti a te, cavaliere di Atena, ma saperlo non ti salverà dal Grande Ingannatore che io sono!", minacciò ancora, cercando di restare pienamente padrone delle proprie emozioni, per quanto il discepolo di Ntoro temesse, ora, quel misterioso nemico, che era sfuggito al Labirinto dei Pensieri e che già aveva dimostrato di saper vincere sull’Estensione della Psiche.
"Rinuncia ai tuoi trucchi, Anansi della Giraffa, poiché il Triangolo dello Spirito è difesa invalicabile per qualsiasi cosmo, o almeno per il più degli stessi, finora nessun avversario che abbia provato a valicarlo vi è riuscito. Finché questo muro sarà fra noi posto, non avrai possibilità di colpirmi.", lo avvisò Amara.
"Forse, ma, al contrario mio, tu, cavaliere di Atena, hai fretta di raggiungere i tuoi compagni.
O, se ciò non fosse, sappi che ben presto lo sarà, poiché se anche Nyame sarà sconfitto, ultimo con me dei soldati dell’Esercito Nero, saranno i Cinque Generali d’Armata a scendere in campo e contro di loro il tuo aiuto potrebbe essere necessario a chi dovevi condurre in missione. Anzi, probabilmente nemmeno servirà la sconfitta del discepolo di Gu perché i Comandanti intervengano, troppi nemici sono rimasti rispetto alle forze in campo.", affermò con tono sicuro l’altro, "Quindi a te la scelta: restare qui, in una situazione di stallo, oppure abbassare quella difesa e tentare la sorte nell’attacco.", ammiccò sicuro di se Anansi.
"Se speri, nel momento in cui calerò le mie difese, di potermi di nuovo intrappolare in quelle tue illusioni, ebbene sappi che, per quanto probabilmente ne avresti modo, sarebbe tutto inutile, poiché ormai so come sfuggire da entrambe.", replicò l’emanazione cosmica del santo d’argento.
"Allora, guerriero di Atena, mi obblighi ad attaccarti sul piano fisico.", minacciò ancora Anansi, espandendo il proprio cosmo attorno a se e rivelando una miriade di sfere d’energia, simili alla chiazzatura che contraddistingueva la pelle della giraffa, rappresentata dalle sue vestigia; non era un colpo particolarmente potente, ma la virtù dell’unica tecnica realmente offensiva del guerriero nero stava nel numero di colpi che poteva portare contemporaneamente, un vantaggio su cui contava per abbattere l’altro.
"Vuoi dunque affrontarmi in un campo che non t’è il più congeniale, seguace del Nero Esercito? Sia pure, non mi tirerò indietro, né mi nasconderò dietro le mie difese, bensì ti risponderò con la medesima moneta.", replicò decisa l’emanazione cosmica del cavaliere, sciogliendo il Triangolo dello Spirito e concentrando il cosmo fra le proprie mani, ora chiuse in due pugni, l’uno vicino all’altro.
"Macchie della Mente! Colpite il vostro nemico!", ordinò a quel punto Anansi della Giraffa, scatenando la pioggia di globi contro il santo di Atena.
"Trigono Anatoles!", invocò l’emanazione d’energia di Amara del Triangolo, prima che lo stesso congiungesse le punte degli indici, ponendo il medio destro come base di quella piccola forma geometrica dalle tre punte e dalla stessa si scatenò una ben più vasta figura triangolare di pura energia diretta verso il Savanas della Quinta Armata.
Lo scontro si concluse in pochi secondi: non fu difficile per il triangolo d’argento oltrepassare la pioggia d’energia della Giraffa, investendone in pieno il fautore, distruggendone le vestigia e strappandogli via la vita, con la consapevolezza, per Anansi, che in pochi istanti anche lui sarebbe entrato nel Guscio Infinito, abbandonandosi a quella sorte che molto spesso aveva visto soffrire a diverse anime durante la loro lunga campagna di guerra.
Troppo forte per il discepolo di Ntoro si rivelò quel singolo nemico che, dopo tanto tempo, aveva deciso di combattere personalmente, colpito nell’orgoglio dalle sue capacità.
***
"Incredibile.", questa la prima parola che Gu, Acoran, Moyna e Mawu sentirono dire dal loro parigrado.
"Cosa è incredibile?", domandò preoccupato il comandante della Seconda Armata, "Proprio in questo momento, anche Anansi è caduto…", affermò sorpreso Ntoro, non dispiaciuto, o furioso, semplicemente sorpreso che, come ora lui ben sapeva, dell’immenso esercito d’Africa restavano solo sette elementi, contando anche il loro sovrano.
"Chi resta dunque? Deng, Nyame ed Akongo dei nostri seguaci?", domandò impassibile Acoran, "No, anche il tuo discepolo, comandante della Quarta Armata e l’ultimo membro della Seconda sono stati sconfitti; ormai solo il primo allievo di Gu è ancora in vita e credo che abbia già trovato un bersaglio.", rispose prontamente il gigante, prima che, nuovamente, Moyna gli fosse addosso, bloccandolo per la parte più alta delle vestigia che indossava.
"Akongo, lui è…?", ma non ebbe nemmeno il coraggio di concludere la domanda il guerriero dell’Aquila Urlante, "Esatto, è ormai nel Guscio Infinito, per mano di uno degli Areoi di questo Avaiki e sai la cosa più divertente, comandante? Ben presto i colpevoli delle morti dei tuoi ultimi due seguaci incroceranno le loro strade.", concluse con un ghigno divertito in volto.
Moyna lasciò andare allora il parigrado, il cosmo che già spalancava le ampie ali sulle sue spalle, "Dimmi solo dove trovarli.", ordinò secco a Ntoro, ma Mawu gli fu subito dinanzi: "Non hai ricevuto il permesso del nostro Sovrano per allontanarti da qui.", minacciò secca verso l’altro, guardandolo impassibile con il suo unico occhio.
"Ebbene, chiedo di avere udienza con il nostro Re, subito.", tagliò corto Moyna, con una determinazione che stupì gli altri tre che osservavano quello scambio di battute, ma la comandante della Prima Armata non si curò di lui, inizialmente, bensì si volse verso il gigante del Quinto Plotone: "Quanti degli indigeni alleati con l’ospite del nostro Re sono ancora vivi?", domandò semplicemente.
Ntoro rimase qualche istante in silenzio, prima di continuare: "Uno, forse due, non di più.", disse, "E quanti nemici sono ancora in piedi?", continuò l’altra, "Quattordici, da ciò che percepisco, divisi in più percorsi.", concluse il generale della Quinta Armata.
Rimasero quindi alcuni secondi in silenzio, i cinque, prima che Mawu si muovesse verso le porte che dovevano difendere: "Andremo tutti ad esporre i fatti al nostro Sovrano.", ordinò secca, subito seguita dai parigrado, prima di aprire, da sola, le due ante che conducevano alla sala del Comandante dell’Avaiki di Ukupanipo.