Capitolo 11 – Intermezzo 1
Scrutava la vastità di quel deserto dall’alto delle Mura, le stesse dove aveva visto, poco meno di qualche giorno prima, combattere uno dei suoi amici più cari, anche se, forse, lui non lo aveva mai ammesso, né, tuttora, lo avrebbe ammesso, probabilmente, troppo l’orgoglio, troppo l’amor proprio che provava per dire a qualcuno ciò che passava nella sua mente.
Era pur sempre un giovane di nobili origini, un discendente di una grande famiglia italica, poteva dire di aver fatto amicizia con un qualsiasi ragazzo della plebe greca? O di aver stretto un rapporto di rispettosa rivalità con uno straniero dell’Egitto? Mai lo avrebbe fatto.
Lui era Damocle della Croce del Sud, cavaliere d’argento allievo del formidabile santo del Capricorno, non si sarebbe mai abbassato a dimostrare le proprie debolezze.
Queste le uniche certezze che aveva in quel momento, guardando la vastità del deserto: preferiva osservare ciò che avveniva lontano da se stesso, alienarsi da quella situazione quanto mai assurda.
Avevano combattuto per diversi giorni in quella città, Accad, contro gli eserciti di quelle terre, tre armate legati non solo dal desiderio di servire il sogno dei loro sovrani, ma anche dalla tela di inganni che alcuni fra loro avevano elaborato, inganni che avevano portato al quasi completo annichilimento di quelle schiere ed alla caduta di due dei cavalieri di Atena.
Ora, dopo quelle lunghe battaglie, ancora i santi d’argento si attardavano in quelle calde terre: feriti e con le vestigia ridotte in pezzi, non avrebbero potuto portare alcun supporto al Santuario, o ai loro compagni che stavano, in quel momento, combattendo in terre ancora più distanti; da ore, infatti, Damocle, come gli altri del resto, avvertiva un infuriare di cosmi intenti a duellare, mentre una concentrazione di entità divine sembrava indicare un rituale simile a quello che avevano già visto eseguire in quella città nel deserto.
Il cavaliere d’oro dello Scorpione aveva accennato ad una setta, o qualcosa di simile, un gruppo di rinnegati che rifiutavano ogni divinità e distruggevano qualunque ordine consacrato a qual si volesse entità celeste: Baal, il capo di quei cospiratori di Accad, era uno di questi congiurati.
Impaziente, il santo della Croce del Sud osservava l’orizzonte, voleva abbandonare quel luogo di brutti ricordi, ma non poteva! Era stato appena curato dalle sue ferite, ma malgrado ciò le vestigia che possedeva ancora dovevano essere riparate.
In uno sbuffo di frustrazione, il cavaliere volse il capo verso la città e su ciò che restava del palazzo centrale vide due maestose figure che osservavano, come lui, l’orizzonte.
Ben poco restava di Anduruna, uno spiazzo segnato dalla furia della battaglia con Baal, questo era ora la grande sala che s’alzava sulla sommità del palazzo: lì il corpo del Sole di Accad non vi era più, portato via dagli Annunaki, solo due figure s’ergevano immobili, in silenzio, Marduk, il Re di Smeraldo, ed Ascanus, cavaliere d’oro dello Scorpione.
"Vi dobbiamo molto, guerrieri europei.", esordì d’un tratto il sovrano, "Il vostro intervento ha impedito che l’empio piano dei traditori andasse a compimento, avete impedito che il crepuscolo calasse per sempre su Accad e sulle dinastie degli Ummanu.", ringraziò con il volto che si volgeva verso le due figure degli Annunaki che si aggiravano con i cavalieri d’argento poco più in basso.
"Non dovete ringraziarci, seppur al seguito di diverse divinità entrambi i nostri ordini cavallereschi credono nella Giustizia e nella Pace, poiché ambo le nostre divinità ne sono portatrici. Rimpiango piuttosto di non aver potuto salvare il resto dell’esercito che ti seguiva, Re di queste terre, né di aver impedito che i Ladri di Divinità vi derubassero dell’essenza di Shamash.", rispose con rammarico il santo d’oro.
Effettivamente, alla fine dello scontro, per quanto il caldo ed immenso cosmo del Giudice divino avesse abbandonato Baal, non era tornato a riempire i cieli d’Accad e della Mesopotamia tutta, bensì era scomparso del tutto, catturato da una forza lontana e sconosciuta.
La stessa forza che, entrambi ne erano certi, ora stava agendo in terre ben più lontane, cercando di incatenare ai propri desideri diverse divinità, entità che nessuno dei due conosceva, ma che, al pari di Shamash e di altri prima di lui, rischiavano un eterno oblio, o qualsiasi altra sorte questi misteriosi nemici avevano in mente.
"Chi sono questi Ladri di Divinità, cavaliere d’oro?", domandò d’un tratto Marduk, "Ben poco so di loro, quello che mi ha narrato il Sommo Sacerdote di Atene, a cui si aggiungono le frammentarie informazioni di Baal.", si affrettò a rispondere l’altro.
"Sembra che l’esercito nero d’Africa, che già alcuni cavalieri d’argento avevano incontrato, sia la loro avanguardia, probabilmente l’uomo di cui parlava il nostro comune nemico, la divinità della Guerra che diceva averlo iniziato a quel rituale, sarà un membro di quella setta segreta, non mi stupirebbe se anche l’armata che lo segue è stata raggirata e tradita.", ammise con preoccupazione il cavaliere dello Scorpione.
"Io l’ho conosciuto…", affermò ad un tratto il giovane re, "ho visto l’uomo di cui parlava, quando non era poco più che un ragazzo mio coetaneo, o quasi, per età.
Desiderio di potere e ferocia incontrollabile si leggevano nei suoi occhi neri e profondi. Allora si era unito a Tiamat, gli aveva offerto delle vestigia ed il supporto del suo infinito esercito, schiere di guerrieri che si erano gettati come un’ondata oscura sulle file degli Ummanu, uccidendo e massacrando, strappando a me e Sin la presenza materna e lasciando molti altri, orfani, soli, disperati.
Non mi sembrerebbe assurdo, dato quanto scoperto, che siano stati questi stessi Ladri di divinità, allora, a guidare l’alleanza del Coccodrillo Nero con quel Sovrano di terre straniere.", ammise con uno strozzato rammarico nella voce.
"Purtroppo non so dirti quando questo esercito africano s’è alleato con questi misteriosi nemici, né conosco i fili di inganni e tradimenti che hanno generato negli anni, posso solo dirti che la prima volta che noi, santi di Atena, siamo venuti in contatto con loro è stato dieci anni fa, nelle terre della Cina.", iniziò il cavaliere d’oro, prima d’iniziare a raccontare ciò che gli era stato detto dal Sommo Sacerdote tempo prima.
Poco più in basso, intanto, anche gli altri sopravvissuti parlavano fra loro.
Aruru di Golem era circondato dai resti delle vestigia dei diversi cavalieri d’argento, intento a lasciar scivolare il proprio sangue sulle stesse, mescolandolo con alcuni altri materiali di cui era in possesso, il tutto sotto lo sguardo indagatore di Zong Wu dell’Auriga.
"Sei sicuro di ciò che fai, Annunaki?", domandò d’un tratto il santo di origini cinesi, "So bene quanto questo tipo di operazioni sia faticosa e rischiosa per chi la compie su una singola armatura, pensare di riparare tutte e sette le nostre armature con il sangue tuo e del tuo sovrano soltanto è un’azione a dir poco folle, potreste non sopravvivere a questo sacrificio e non è di certo nostra volontà vedervi spirare.", affermò il cavaliere.
Poco tempo prima, infatti, Marduk, anziché farsi curare le ferite, aveva lasciato che parte del suo sangue scorresse, bagnando il più equamente possibile le sette armature d’argento, o ciò che ne restava, al pari di lui aveva fatto anche Ascanus, seppur in quantità ben minore, date le poche ferite subite, e lo stesso stava ora facendo il guerriero del Golem.
Zong Wu sapeva ben poco della riparazione di armature, le parole che una volta gli aveva accennato il suo venerando maestro, secondo cui solo il caldo della lava di un vulcano fra le isole del mediterraneo, oppure il sangue di un cavaliere, misto ad altri utensili, potevano fare tale miracolo, ridando vita a vestigia che, altrimenti, si sarebbero solo esternamente rimarginate.
Il santo dell’Auriga, dal canto suo, aveva visto ciò che l’Anunnaki di Usma aveva fatto alle loro armature giorni prima e riconosceva nei gesti dell’uomo dinanzi a lui la medesima sequenza di azioni.
"È stato il saggio Ea a mostrarmi come riparare le vestigia, non ti preoccupare, non rischierò la mia vita, così come non ho rischiato quella del mio sovrano, o del nostro salvatore.", affermò allora Aruru, richiamando l’interlocutore dai propri pensieri.
Un triste sorriso si dipinse sul volto del guerriero mesopotamico, "Aveva detto che un giorno, quando lui non sarebbe più stato fra noi, qualcuno doveva continuare a trasmettere le arti che aveva appreso in vita; mi aveva mostrato come riparare le vestigia sacre ed aveva aiutato Ninkarakk a migliorarsi nel curare le ferite dei guerrieri, tutto questo per il giorno in cui avrebbe dovuto abbandonarci per sempre, per quanto, probabilmente, nemmeno lui nella sua lungimiranza avrebbe immaginato che per mano di chi credeva amico sarebbe caduto.", ammise con voce triste l’uomo, che aveva saputo di come Sin ed i suoi compagni traditori avevano ucciso il consigliere di Marduk.
Triste e dolorosa era stata quella notizia per lui, poiché, come molti altri, vedeva in Ea una figura saggia, un padre, quasi, sempre pronto a dare consigli ed indicare la corretta via da seguire, qualcuno che ora avevano perso per sempre.
La certezza della giustizia compiuta non riempiva il vuoto, solo la speranza che gli insegnamenti dell’uomo potessero continuare a vivere attraverso Marduk, lui e Ninkarakk lo faceva appena sentire meglio, poiché guardava al domani con la possibilità che gli Ummanu non andassero perduto nel tempo e che con loro anche la nobiltà di Ea, il valore di Kusag, Girru e Nusku restassero per sempre nelle storie dei popoli.
Il cavaliere d’argento osservava ora in silenzio l’uomo che aveva davanti: non poteva negare di aver intuito la tristezza dei suoi pensieri, la tristezza dell’aver perso tutto il proprio passato, o quasi, mista ad una leggera speranza per il futuro, lo stesso che da sempre animava il santo dell’Auriga, che nella guerra civile che dilaniava la Cina aveva perso la propria famiglia, ma che prima nel proprio maestro ed ora nei compagni e parigrado, vedeva le possibilità di trovare qualcosa di simile.
E mentre quei pensieri li accumunavano, entrambi spostarono lo sguardo lì dove l’altra Annunaki curava una delle persone ferite.
Le doti curative di Khuluppu ormai erano ben mero ricordo, le vestigia dell’Albero sacro non potevano più molto, consumate dalle lunghe battaglie riuscivano appena ad alleviare il dolore e fermare le emorragie, il più doveva essere fatto dalle esperte mani di Ninkarakk.
Proprio la giovane guerriera mesopotamica stava, in quel momento, tamponando una leggera ferita alla base del volto celato dalla maschera d’argento di una di quelle donne guerriere europee.
La mano di Gwen del Corvo fermò quella dell’altra, quando stava avvicinandosi al bordo della maschera stessa, "Non posso toglierla, lascia che il resto della ferita si rimargini da se, nessun colpo ha danneggiato oltremodo la copertura del mio viso, in fondo.", affermò pacata la giovane sacerdotessa scozzese, memore di come, proprio in quelle terre sabbiose, il suo volto aveva per alcuni minuti, percepito di nuovo il calore del sole, durante la battaglia con Arazu, quando il cavaliere dell’Auriga aveva combattuto ad occhi chiusi, per impedirsi di vedere il volto di lei.
Per alcuni secondi, la mente della fanciulla tornò a quando qualcun altro aveva visto il suo volto, Gustave, suo compagno di addestramenti, ma subito volle scacciare quel pensiero, per quanto anche lei fosse cosciente di aver percepito proprio il cosmo del santo della Lira spostarsi, assieme a molti altri, dalle terre di Grecia fino a luoghi lontani, li stessi dove ora si stava combattendo.
In silenzio, anche Ninkarakk osservava la guerriera consacrata alla dea greca: era ben diversa da Dorida, la sacerdotessa con cui aveva combattuto, proprio per difendere Gwen, se l’una era ardente di determinazione ed impazienza, l’altra sembrava pacata ed attenta ad ogni particolare movimento, per quanto le sue forme fossero esili, aveva avuto la forza di sconfiggere Aruru, un guerriero, a detta di molti, invincibile.
Per un istante, balenò nella mente dell’Annunaki che tutti quei guerrieri stranieri avevano dimostrato una forza senza pari: avevano vinto gli Appalaku, sconfitto lei ed i suoi compagni dalle verdi vestigia, battuto persino i più spietati e sleali fra i seguaci del defunto Enlil e, non di meno, avevano tenuto testa persino a due dei Tre Sovrani, solo l’ultimo, Baal che tutti aveva tradito, era stato troppo per loro, così come lo era stato per lei, Aruru e lo stesso Re Marduk, solo l’arrivo di quel loro superiore, il cavaliere d’oro, aveva potuto salvarli.
Una goccia d’invidia scivolò nella mente della ragazza mesopotamica, subito respinta dal rispetto per quei coraggiosi combattenti che solo gli inganni, di nemici che credeva amici, avevano reso degli avversari; forse anche lei avrebbe dovuto accettare con coraggio il destino di battaglie che le era stato affidato, per difendere la pace delle sue terre, se fosse stato ancora necessario combattere, come la minaccia di questi Ladri di divinità, sembrava prospettare.
Un leggero lamento di Gwen, richiamò l’altra alla realtà. Subito Ninkarakk si scusò dei modi bruschi, accennando un sorriso, prima di volgere lo sguardo altrove, imbarazzata, mentre notava gli altri due cavalieri d’argento, seduti poco più lontano, intenti a discutere pacatamente, forse a chiacchierare, mentre riprendevano le forze.
"Li hai avvertiti anche tu, giusto?", questa la semplice domanda di Wolfgang dei Cani Venatici, sdraiato in un angolo di quei corridoi che lo avevano visto correre e combattere, gli occhi chiusi, mentre la mente vagava distante, cercando di seguire tracce che persino un abile cacciatore come lui faticava a mantenere sotto controllo.
"Sì, i cosmi di nove cavalieri che si muovevano, ore fa, dalla Grecia verso terre lontane, così come quelli di molti altri intenti già a combattersi in quei luoghi distanti.", concordò, pacato, Leif di Cetus, seduto poco lontano dal compagno d’arme.
"Molti cosmi e molto lontani, alcuni forse troppo potenti per dei cavalieri d’argento… poi c’è anche quella presenza, simile a quella che aleggiava su questo palazzo, in qualche modo.", osservò con tono preoccupato il tedesco, senza ricevere niente di più che un muto assenso dall’altro.
"C’era anche il cosmo di Ludwig fra loro, il mio compagno di addestramenti presso il Maestro Munklar.", aggiunse, mentre la voce si spezzava leggermente, tradendo della preoccupazione.
"Anche Rudmil era fra loro.", affermò secco l’altro, "Rudmil? L’altro allievo del cavaliere dell’Acquario?", domandò pacatamente Wolfgang, "Sì, il secondo di noi tre discepoli del Maestro delle Energie Fredde.", commentò semplicemente Leif.
"Immagino che avrà il tuo stesso accattivante carattere.", ridacchiò il cavaliere dei Cani Venatici, aprendo un occhio e rivolgendo un sorriso scherzoso al parigrado, "Di certo andrà d’accordo con Ludwig: in fondo il mio compagno d’addestramento è giusto un po’ vanesio e tende a mettersi in mostra, ma sa ben relazionarsi con chi combatte assieme a lui.", spiegò infine, mettendosi seduto.
"Tende a mettersi in mostra? Una caratteristica comune fra gli allievi del Sagittario, di certo parte delle vostre abilità nel individuare i nemici, altro motivo non troverei per una tale peculiarità.", ribatté l’altro, mostrando anche lui un sorriso accennato.
"Cavaliere di Cetus, noto una vena di ilarità nelle tue parole? Che le ferite ti abbiano riscaldato l’animo dopotutto?", domandò scherzoso Wolfgang, ricevendo di rimando una risata da Leif; ma le risate di entrambi suonavano nervose nelle orecchie di chi le ascoltava, cariche della preoccupazione per i loro compagni d’addestramento a cui non potevano portare aiuto, tanto che entrambi, alla fine, volsero lo sguardo verso l’esterno del palazzo, sul cui uscio risiedevano le due sacerdotesse guerriero.
Bao Xe della Musca era in meditazione, sedeva tranquilla, mentre il sole riscaldava il corpo in via di guarigione, accanto a lei, in piedi, che s’agitava sul posto battendo il piede al suolo, l’allieva, Dorida della Freccia.
Probabilmente l’allieva non lo immaginava, ma, la sua insegnante stava sorridendo sotto la maschera d’argento, sorrideva del nervosismo della giovane che aveva scelto come discepola, una delle peculiarità che con gli anni non aveva saputo toglierle, la sua impazienza che la rendeva una ribelle fra tutte le sacerdotesse, ma che, in fondo, aveva aiutato a forgiarla come guerriera.
"Maestra, perché dobbiamo stare qui in attesa?", sbottò di colpo la giovane spagnola, "Le ferite si stanno ancora rimarginando e le nostre vestigia sono tuttora sotto le cure dell’Annunaki.", rispose laconica l’altra.
"Persino Agesilea e Cassandra sono scese sul campo di battaglia e noi, anziché tornare al Santuario, che ora sarà sfornito di cavalieri, siamo ancora qui, a riposarci?", domandò ancora la ragazza.
"Tranquillizzati, mia allieva, così come il mio maestro Ascanus, aspetteremo che tutte e sette le nostre armature siano pronte per la battaglia, poi torneremo ad Atene a supportare le difese del Grande Tempio.", spiegò calma la sacerdotessa di origini mongole.
"Fino ad allora, cosa? Ho contato nove cosmi allontanarsi, nove! Tutti simili ai nostri per intensità, tutti di cavalieri d’argento! Nemmeno sapevo che ce ne fossero così tanti… ma chi sarà rimasto al Santuario? Forse i cavalieri di bronzo, oltre ai pari del Nobile Ascanus, che, di certo, difenderanno le Dodici Case, come è loro dovere.", sottolineò con agitazione montante Dorida.
"Vi è anche Degos di Orione, o forse credi che uno dei cavalieri d’argento più esperti sia incapace di difendere il tempio della dea? Abbi fede in Degos, poiché sono certa che darebbe la vita piuttosto che lasciar distruggere il Grande Tempio. Egli ha consacrato se stesso alla difesa del luogo dove ricevette l’investitura e, in fondo, è uno degli allievi del passato cavaliere del Toro, un pari del mio nobile maestro.", la rassicurò con voce tranquilla Bao Xe.
"Questo è vero, ma è uno solo, tutti gli altri cavalieri d’argento sono andati verso quel lontano campo di battaglia, chi più è rimasto di nostri pari?", domandò, la voce ridotta ad un sussurro agitato.
"Le allieve della possente Olimpia del Leone torneranno ad Atene, come tutti gli altri nostri parigrado e come noi, non preoccuparti, nessun altro morirà.", disse semplicemente la sacerdotessa della Musca, alzandosi in piedi e poggiando le mani sulle spalle dell’allieva, per tranquillizzarla.
Una voce, però, richiamò l’attenzione delle due, così come quelle di tutti gli altri ad Anduruna e nell’intera Accad: la voce di Damocle della Croce del Sud.
"Sta arrivando qualcuno!", urlava a gran voce dalle mura dell’Antica Capitale il cavaliere d’argento.
***
Il tempio di Urcaguary, presso la città di Cuzco era, ormai, solo il teatro di una tremenda ecatombe.
Alcuni di quei sacerdoti erano riversi al suolo, il corpo dilaniato da affilate lame energetiche, che segnavano il terreno tutto intorno ai cadaveri stessi, altri, invece, erano ridotti a mera cenere, scure carcasse anonime, bruciate fino alle loro povere ossa, unico memento di chi prima erano stati.
Quelli che, però, più di tutti sembravano avere il terrore dipinto sul volto erano stati uccisi dalle stesse lance consacrate agli dei Incas, lame che loro stessi impugnavano, o che erano strette nelle mani dei compagni, anch’essi uccisi da qualche altro sacerdote.
I tre figuri incappucciati, intanto, oltrepassarono quel mattatoio di cadaveri che avevano prodotto ed uno di loro si fermò dinanzi ad un ampio portone sigillato.
"Credo sia qui ciò che cerchiamo…", esordì, gli occhi rossi che si volgevano verso i due compagni, prima di indicare un’altra volta quella volta chiusa.
"Azteco, vuoi?", domandò beffardo l’uomo dagli occhi rossi, mentre lasciava spazio a quello dalle mani tatuate; un solo gesto di quelle stesse mani e delle lame energetiche divelsero senza ostacolo quei sacri sigilli vecchi di secoli, lasciandoli cadere al suolo.
Stava per osservare ciò che erano venuti a prendere, quando un rumore lo distrasse, un mugolio poco lontano, che, voltandosi, scoprì essere fatto da un ultimo sacerdote sopravvissuto, un uomo che aveva la sua stessa lancia conficcata nell’addome.
"Pellerossa, una delle tue vittime è sopravvissuta.", commentò laconico l’uomo dalle mani tatuate, volgendosi verso il terzo del gruppo, colui che aveva gli occhi color giallo marcio.
"Se ha saputo sostenere la prova che gli è stata posta dinanzi, non merita che ancora lo si affligga.", tagliò corto l’altro, volgendosi verso l’ampia sala che si rivelava loro.
"Nobili e ragionevoli parole, che non ci si aspetterebbe da uno come te, ma, purtroppo, non mi vedono concorde.
Siamo qui per un fine, è vero, ma anche questi sacerdoti hanno un fine, onorare i loro dei, ebbene gli permetterò di farlo nel loro Hanan Pacha, seppur vi arriverà diviso a metà.", tagliò corto l’Azteco, la cui cultura, così vicina a quella Incas, lo rendeva di certo non nuovo al concetto di Hanan Pacha.
Con un solo gesto della mano tatuata, una lama d’energia divise in due il corpo del ferito sacerdote, recidendone in un istante la flebile vita; poi, come se avesse semplicemente schiacciato una formica, l’uomo si voltò, imperturbabile negli occhi marroni, volgendosi verso ciò che i due compagni osservavano.
Una miriade di armature color oro e rubino erano posizionate le une accanto alle altre: vistosi danni, residui di una passata guerra, ne segnava la maggioranza, alcune erano addirittura ridotte a semplici frammenti, come molte delle armi che le adornavano.
"Questo il memento di quella vecchia guerra fra divinità di queste nostre terre?", domandò l’Azteco, "Sì, l’unica guerra, a memoria d’uomo, in cui gli Hayoka sono scesi in campo, in supporto dell’esercito del centro America contro i seguaci di Inti.", rispose l’uomo dagli occhi giallo marcio.
"Trovo giusto che siate voi a reclamare, che dalle due culture vincitrici provenite, questi… come chiamarli? Residuati? Strumenti del nostro prossimo risplendere?", chiese divertito colui che aveva le mani tatuate, ridacchiando.
"Non solo le reliquie qui presenti ci servono, ma anche ciò che gli altri recupereranno: tanto le ultime essenze che il Leone Nero sta intrappolando, aiutato dal Polinesiano, quanto ciò che le altre nostre due squadre stanno andando a recuperare. Tutto questo, assieme al potere che Baal ci ha gentilmente donato.", commentò con un ghigno sadico l’uomo dagli occhi giallo marcio.
"Verissimo, Pellerossa, sia le tre inviate fra le montagne asiatiche, sia i due che devono occuparsi di quel tempio… come lo chiamano i polinesiani?", domandò allora l’incappucciato dagli occhi rossi.
"Avaiki.", rispose secco il Pellerossa, prima che una quarta energia cosmica riempisse l’area circostante.
"Ecco il nostro secondo in comando.", ridacchiò l’Azteco dinanzi ad una sagoma che si delineava dal nulla.
***
"Anche Ayabba della Seconda Armata è caduto, ma assieme a lui anche una delle indigene è stata sconfitta.", esordì d’un tratto Ntoro, comandante della Quinta Armata, catturando l’attenzione dei suoi parigrado.
Erano rimasti lì, tutti e cinque di guardia alla sala dove il loro signore stava compiendo il rituale, attenti che nessuno si avvicinasse, alcuni catturati dalla noia avevano iniziato a scommettere su quali dei loro allievi e soldati potessero avere ragione dei nemici, altri, più preoccupati dell’esito della missione, o delle diverse battaglia, sembravano rivolgere sguardi più concitati verso il gigantesco capo dell’ultima legione.
"E non solo lui ha concluso la sua battaglia…", stava intanto per continuare Ntoro, prima che Moyna si fiondasse su di lui, scuotendone la massiccia figura e rivelando il bavero di una nera corazza, un bavero composto da quattro scaglie nere vicinissime fra loro, "Anche Ayabba è nel Guscio infinito adesso?", tuonò il guerriero dell’Aquila Urlante, gli occhi due sottili lame di rabbia.
"È il destino di chi viene sconfitto, Generale della Seconda Armata, niente di più.", rispose laconico l’altro, "La morte non fa distinzioni, al contrario della vita.", concluse.
"Non voglio per i miei seguaci questo destino!", ringhiò ancora Moyna, sordo alle parole dell’altro, quando una voce lo superò in tonalità, quella di Mawu, la Prima Comandante: "Adesso basta!", ordinò secca.
Per un attimo, l’Aquila Urlante rimase interdetto, guardando il gigante che lo scrutava incuriosito, poi gli sguardi divertiti dei due silenziosi parigrado poco lontano ed infine la guerriera del Mamba Nero, sapeva che rifiutarsi di rispettare quel singolo ordine avrebbe portato ad un conflitto di potere che sarebbe stato lavato con il sangue e non era i suoi compagni che voleva veder morire, né se stesso, così, alla fine, lasciò andare Ntoro, allontanandosi di qualche passo dai parigrado.
"Stavo dicendo…", continuò allora il gigante, ma stavolta fu un gesto della mano di Gu ad interromperlo, "Non ci interessano le storie di battaglie già concluse, specie se poco accattivanti, come quelli degli allievi di voi altri.", esordì, rivolgendosi ad Acoran con un sorriso beffardo a cui l’altro rispose mordendosi le labbra: il parigrado aveva preferito porre un velo sullo scontro di Garang accennando alla sconfitta di Buadza!
"Dimmi, piuttosto, quali scontri sono ancora in corso, o sono già finiti?", domandò Gu, scrutando i propri compagni comandanti uno dopo l’altro.
"Chikara, della Prima Armata, è prossima ad avvicinarsi a qualcuno dei nostri nemici… ed anche il tuo allievo, Heitsi, anche lui sta inseguendo delle prede.", rispose con tono pacato Ntoro, "In più, Anansi sta dirigendo più e più nemici verso diverse e mortali trappole.", concluse con soddisfazione nel parlare del proprio allievo.
"Akongo e Shango? Sono ancora vivi?", domandò Moyna, interrompendoli di nuovo, senza nemmeno voltarsi verso gli altri parigrado, "Sì, in movimento per ora, nessuno dei due sembra aver ingaggiato battaglia, ma il tuo discepolo si è diretto verso il luogo dello scontro fra il Gorilla della Terza Armata e gli europei.", rispose prontamente il gigante.
"In più, credo che i servitori dell’alleato del nostro sovrano siano entrati in azione in questo tempio subacqueo. Dovremo avvisare i nostri soldati prima che si uccidano fra loro?", domandò poco dopo Ntoro, notando il più completo disinteresse per quella domanda sui volti di Acoran e di Gu, "Se sono dei semplici indigeni dubito che possano uccidere alcuno dei nostri seguaci.", rispose anzi il comandante della Quarta Armata.
"Non è nostro dovere preoccuparci per loro.", sentenziò d’un tratto Mawu, "Sono servitori dell’alleato del nostro Sovrano, l’ultimo ad essersi unito al medesimo pantheon in cui il nostro Re riveste il ruolo di dio della Guerra, quindi non hanno meriti particolari per cui debbono essere rispettati.
Se oseranno attaccare qualcuno di noi, vedranno come un cane che morde la mano del suo padrone viene punito.", sentenziò decisa la donna guerriero, ritornando a concentrarsi sul cosmo del Leone Nero e del suo alleato, che s’espandevano per obliterare le entità divine di quelle terre.
***
Tre figure incappucciate si volsero verso un ponte che si diradava oltre un banco di nebbia.
"Sperare che una così misera illusione fermasse i nostri passi, questi guerrieri devono essere davvero sciocchi.", rise una di loro, poiché di una donna si trattava, una combattente che teneva sollevata sopra la spalla una gigantesca spada medievale a due mani con la sola destra.
"Non al tempio di una divinità ci stiamo dirigendo, ma piuttosto presso una loro armeria, o qualcosa di simile, da ciò che mi è stato spiegato.", s’affrettò a spiegare una figura più esile, che si volse verso le ampie montagne dell’Asia che le circondavano, cercando con lo sguardo la descrizione che le era stata data, in modo generico, prima di partire per quella missione.
"Qui nel Jamir gli ultimi discendenti del popolo di Mur, antichi creatori delle armature di Atena, hanno la loro fucina e, da ciò che mi è stato detto, vi è sempre almeno un discendente di quelle genti fra i cavalieri di questa dea europea.", continuò la seconda donna, avanzando seguita dalle altre due, gli occhi scuri e profondi come l’universo che guardavano avanti, verso ciò che cercava e che ora aveva trovato.
"Una buona strategia quella di nascondere nelle profondità dell’Asia le fucine consacrate ad una divinità della Grecia antica…", commentò laconica la terza, i cui occhi azzurri risultavano come deformati, poiché il sinistro appariva più chiuso del destro.
Il dialogo fra le tre s’interruppe quando si fermarono dinanzi alla maestosa costruzione priva di ingressi.
"Devo forse creare io una porta per noi?", domandò la donna armata di spadone, "Non prima di aver ricevuto l’accoglienza di chi questo posto sorveglia… rivelati dunque, chiunque tu sia, cavaliere!", ordinò, frapponendosi dinanzi a lei, colei che fin lì le aveva condotte.
Una giovane figura si frappose dinanzi alle tre donne che avevano invaso il Jamir, la figura di non di un cavaliere, ma di un ragazzino dai ribelli capelli bluastri, il cui capo era adornato da due nei, "Sono Ilo, apprendista cavaliere, discepolo del Sommo Sacerdote di Atene e custode, in suo nome, di questi luoghi, e voi chi siete, straniere?", domandò il ragazzino.
Era poco più che un bambino, non poteva aver superato i tredici anni, però il suo maestro gli aveva dato una missione d’altissimo valore: difendere il medesimo luogo dove, secoli prima, Sion stesso era stato addestrato da un altro discendente del loro popolo, Hakurei.
Ilo ricordava ancora con trasognante gioia i racconti del suo maestro sull’uomo che lo aveva addestrato e gli aveva mostrato i segreti per la riparazione delle armature, usando le polveri di stelle e tutti gli altri ingredienti che si trovavano tuttora nel palazzo del Jamir.
"Sei qui per onorare l’ordine del tuo maestro, quindi, bimbo?", domandò una delle tre figure, strappandolo ai ricordi e riportando all’intimorente realtà: quella donna aveva uno sguardo spaventoso, blu come il mare, ma, in qualche modo, sembrava che gli occhi fossero in due posizioni diverse, uno era quasi una sottile lama azzurra, mentre l’altra iride, ampia e vivida, lo osservava con odio.
"Tanto grande è il tuo affetto verso chi ti ha addestrato?", continuò la straniera, "Sì, immensa è la mia devozione verso il Sommo Sacerdote che mi ha scelto e cresciuto.", rispose secco il cavaliere, facendosi coraggio con quelle certezze.
Le lunghe maniche del mantello che copriva la figura si sollevarono, portandosi dinanzi alle restanti guerriere che avevano invaso quei luoghi, le mani non si vedevano, nascoste sotto le vaste maniche, "Che nessuno s’intrometta, mostrerò a questo sciocco bimbo quanto è futile affezionarsi ad un insegnante e seguire pedissequamente i suoi ordini.", affermò con voce gelida, "Rimpiangerà d’essere stato scelto come discepolo di questo Sommo Sacerdote e ne rinnegherà il nome, giusto prima di morire.", concluse, espandendo un feroce cosmo intorno a se.
Le missioni, in fondo, davano anche un certo piacere a chi sapeva trovarlo, pensò fra se, prima di iniziare quello scontro.