Capitolo 1: Africa
Tutto quel viaggio gli era sembrato un brutto scherzo. Se non fosse stato il Santuario stesso ad ordinarglielo, non avrebbe mai accettato di abbandonare quella che ormai chiamava casa per intraprendere quella traversata per mare.
Il Santuario, talune volte pensava che quel luogo non gli fosse poi così amico come doveva essere, ma, poi, il ricordo del defunto maestro, di come, anche nel momento dell’agonia, nel dolore delle piaghe che lo avevano torturato per tre lunghe settimane, sempre era rimasto fedele alla dea, ringraziandola per i suoi tre allievi, per Nirra, Husheif e per lui, Juno.
Il ricordo di Edward di Cefeo non lo abbandonava mai, ma, in quel viaggio solitario, gli era stato forse l’unica compagnia, dopo essersi salutato da Nirra, due giorni prima.
La sacerdotessa del Camaleonte aveva avuto un tremore, quando la missiva, sotto la forma di una colomba, era giunta sull’Isola di Andromeda, foriera di ordini; lesto le era tornato in mente come, anni prima, un altro volatile aveva portato un ordine del Santuario, inviando maestro ed allievi in terra d’Africa, lì dove il cavaliere di Cefeo aveva incontrato la malattia che poi lo aveva distrutto.
Maggiore era stato poi il terrore nella voce di Nirra, quando aveva supplicato il compagno di addestramenti di rifiutare: l’ordine del Santuario era di dirigersi proprio nello stesso villaggio, nella savana africana, dove anni prima erano stati inviati, lì avrebbe incontrato altri due cavalieri d’argento, per raggiungere con loro Atene.
"Non posso oppormi ad un ordine del Sommo Sacerdote di Atena, la dea stessa parla per mezzo di lui, chi sono io per oppormi al volere di una divinità? Non ricordi cosa ci ha sempre detto il maestro Edward? Le sue lezioni sono di certo vive in te, come lo sono in me, fino all’ultima e la più importante: l’assoluta fede in Atena, anche nel momento della morte.", queste le parole con cui Juno aveva risposto alla sacerdotessa di bronzo.
"Parli bene tu…", fu la prima obbiezione della ragazza, "Non a te spetta di restare qui, su questa desolata roccia, sola, senza conforto alcuno. Prima il maestro Edward ci è stato strappato via, poi Husheif ci ha abbandonato, per andare proprio ad Atene, ed ora tu? Perché quelli del Santuario non mandavano l’altro nostro compagno? Perché strapparti alla tua casa?", chiese ancora la giovane.
"Sono più che convinto che Husheif, al momento, sia impegnato in chissà quali missioni. Lo conosci bene quanto me: non è tipo da restare immobile, di certo starà combattendo per la dea anche in questo momento, pure se non lo sappiamo e, ne sono altrettanto sicuro, starà rivolgendo un pensiero al maestro Edward e, chissà, forse anche a noi, come sempre facciamo nei suoi confronti.", replicò Juno, poggiando le mani scure sulle spalle nude della compagnia d’addestramento.
"Husheif? Non credo proprio.", concluse con un tono di voce divertito l’altra ed in quel momento il cavaliere d’argento fu sicuro che, sotto quella maschera di bronzo, la giovane stesse sorridendo.
La sacerdotessa si abbandonò ad un abbraccio sul corpo dell’altro. Era la più piccola dei tre allievi di Edward, aveva solo cinque anni quando il maestro l’aveva raccolta, in una povera città del Sudafrica: da quel poco che Juno sapeva, era la figlia di due coloni olandesi morti in una rapina; Nirra nemmeno li ricordava, per lei, l’unico padre, era sempre stato il cavaliere di Cefeo, così come il resto della famiglia erano i due compagni.
La casacca da addestramento fatta di pelle nemmeno serviva a nascondere forme ancora troppo fanciullesche in lei per essere visibili e mentre la mano di Juno accarezzava i capelli biondi della piccola, il cavaliere comprendeva perfettamente come quella ragazzina di appena dodici anni vedesse nella partenza dell’altro la perdita dell’unica famiglia rimastagli.
"Se io…", due parole dette dalla sacerdotessa che catturarono l’attenzione dell’altro, "Se io mi togliessi la maschera ora, dinanzi a te, resteresti?", chiese titubante la ragazzina.
Il cavaliere rimase inizialmente interdetto, poi volse un sorriso bonario alla giovane interlocutrice: "Tornerò, non ti devi preoccupare. Il tuo volto è un bene prezioso, qualcosa che non devi offrire alla mercé di tutti, né alla mia, ricordatelo sempre.", quelle le parole con cui replicò, osservando il proprio viso color dell’ebano riflesso sulla maschera di bronzo.
"Sono pur sempre uno degli allievi di Edward di Cefeo, al pari di Husheif, mi farò nomina di grande guerriero, una nomina tale che anche il maestro possa sentirla dal Paradiso dei Cavalieri, una nomina che, un giorno, sarà anche la tua.", continuò, facendo l’occhiolino all’altra, "Fino ad allora ricorda queste mie parole: domani mi vedrai salpare, ma aspettami, ogni alba, guarda se una nave si dirige verso quest’Isola ed un giorno vedrai scendervi me, Juno di Cerbero.", concluse con fare sicuro, riuscendo, finalmente, a tranquillizzare la giovane.
Le parole sicure di allora gli erano tornate spesse in mente durante il viaggio, ancor più quando, sulla nave, aveva sentito esplodere un cosmo immenso e, dopo pochi secondi, si era reso conto che, per quanto maestoso, non era vicino a lui, bensì lontano all’orizzonte, un cosmo che, tuttora, a distanza di un giorno, aleggiava ancora su terre lontane ed a lui sconosciute.
In quel giorno, lui aveva attraversato quasi un oceano, giungendo lì dove tutto aveva avuto inizio e fine, nella sua vita con il maestro Edward.
Inizio, poiché nell’isola di Madagascar, a poca distanza da dove la nave aveva attraccato, il cavaliere di Cefeo lo aveva trovato: già da un anno, quel uomo di origini inglesi viaggiava per il Continente africano, portando con se il primo dei suoi discepoli, Husheif, un piccolo orfanello trovato per le vie del Cairo, in Egitto. Solo arrivato all’estremità opposta dell’Africa, Edward aveva trovato in altri due piccoli sfortunati i suoi allievi per il futuro; una era stata Nirra, l’altro, era lui, figlio di una povera famiglia, in una tribù dell’isola di Madagascar, lì il maestro lo aveva trovato ed aveva pattuito con i suoi genitori che lo avrebbe cresciuto, addestrandolo a diventare un guerriero.
Nessuno aveva obbiettato a questa proposta, tanto più che in quelle povere terre una bocca in meno da sfamare, in una famiglia con otto figli, era quasi una benedizione quando quella bocca non moriva di stenti, così avevano accettato di affidare a lui Juno.
Lui di questo era stato felice. La nuova famiglia composta da Edward, Husheif e Nirra era per lui la più bella possibile, tutto ciò che aveva fatto da allora, in fondo, era stato in nome ed in onore del suo defunto maestro, con la volontà di essere guardato con rispetto dal più anziano compagno d’addestramenti e di poter essere di supporto per Nirra.
Quella fu la sua vita fin quando non tornò la seconda volta nella terra natia: in un villaggio dell’entroterra, dove un guerriero dalle vestigia nere simili ad una Salamandra li sconfisse, tutti tranne Edward di Cefeo, che, comunque, proprio di ritorno da quella battaglia, iniziò ad avere i sintomi di una strana malattia, qualcosa che nessuno di loro riuscì a comprendere. Quello fu l’inizio della fine, la morte del maestro, l’allontanamento di Husheif ed ora, lui che veniva rimandato di nuovo in quel medesimo villaggio.
Juno si trovò a sorridere fra se di quella situazione, sorrideva, però, solo per farsi forza, mentre gli occhi grigi vedevano delinearsi i contorni delle piccole capanne ed i capelli bluastri, spettinati come li portava il defunto cavaliere di Cefeo, si muovevano, spinti dal vento.
Arrivato ai confini esterni del villaggio, trovò ad attenderlo gli altri due cavalieri di Atena di cui gli era stato accennato, o almeno tali gli sembrarono, dati gli abiti e gli scrigni con all’interno, sicuramente, le relative armature.
La prima a farsi avanti fu una sacerdotessa guerriero, data la maschera color argento che ne celava il viso, disegnando, con colori verdi accesi, delle onde all’altezza delle guance, e di un verde molto intenso erano anche i capelli, legati in una lunga coda che ondulava sulla nuca della fanciulla.
Gli abiti erano piuttosto semplici: una casacca in pelle con dei pantaloni, lunghi fin poco sotto le ginocchia della medesima fattura.
"Tu devi essere il cavaliere di Cerbero, giusto?", domandò la ragazza, "Sì, sono io.", rispose secco Juno, un po’ interdetto dall’irruenza della voce di lei, chiaramente innervosita dall’attesa cui, probabilmente, li aveva costretti.
L’altro era un uomo dagli abiti chiaramente orientali: indossava una lunga tunica color arancio, che si univa ad un mantello, bloccato su una spalla da una spilla argentea, portava dei sandali piuttosto semplici, come lo era tutto il vestiario in fondo, spilla esclusa.
Gli rivolse uno sguardo gentile, che Juno ricambiò, scrutando la pelle abbronzata dell’uomo, i capelli lunghi e color dell’argento, gli occhi verdi che lo studiavano con sincera curiosità.
"Salve, io sono Juno di Cerbero e tu?", domandò cordiale il giovane africano, ma bastò un gesto della sacerdotessa a mozzare ogni altra curiosità.
"Se speri in una risposta, non attenderla dalla sua bocca: costui non parla… il che non ha reso più piacevole l’attenderti.", sbottò nervosa la giovane guerriera, indicando poi i due scrigni d’argento, su un piccolo carro, "Riponi lì le vestigia di Cerbero, meglio non farci vedere con le sacre armature in questo luogo.", ordinò secca la ragazza.
L’altro non ebbe la prontezza di replicare, semplicemente obbedì alla dispotica sacerdotessa, per poi seguire i due parigrado all’interno del villaggio stesso.
Il trio di cavalieri raggiunse il centro del villaggio, dove vi era radunata, poté supporre l’allievo di Cefeo, l’intera piccola comunità, data il numero di presenti.
Altra cosa di cui il giovane cavaliere si rese conto fu, guardandosi attorno, che, rispetto a dove lo ricordava, il villaggio era stato leggermente spostato, o almeno le costruzioni gli sembravano in una posizione diversa in confronto a quel lontano giorno, seppur, allora, non aveva fatto molto caso alla morfologia del luogo, preoccupato da quel guerriero dalle nere vestigia che manovrava il fuoco.
"Cerbero!", fu la secca voce della sacerdotessa a destarlo dai suoi pensieri: "Chiedi loro se qualcuno era presente il giorno dell’attacco dell’esercito nero.", ordinò secca la ragazza.
"Esercito Nero? Sono stati attaccati di nuovo dopo la battaglia cui presi parte con il maestro Edward, Husheif e Nirra?", domandò di rimando l’altro.
"No, dalle ultime notizie che il tuo maestro mandò al Santuario, prima di morire, pare che la Salamandra Nera contro cui lo aiutaste fosse solo l’avanguardia di un esercito ben più pericoloso; un esercito che invase il villaggio, radendolo al suolo e lasciando ben pochi sopravvissuti, fra cui lo sfortunato Edward, che da uno di questi nemici fu avvelenato.", spiegò con voce secca la guerriera, lasciando sbigottito il giovane.
"Che storia è mai questa?", sbottò sbalordito il santo di Cerbero, "Cavaliere, ti prego, avremo tempo di discutere di questo in seguito.", esordì d’improvviso una voce alle spalle di Juno, mentre una mano si poggiava, gentile, sulla sua spalla.
Voltandosi, il giovane allievo del cavaliere di Cefeo vide il proprio parigrado muto sorridergli, gentile, con la mano poggiata sulla sua spalla, "Abbi pazienza, cavaliere, avrai tutte le risposte che potremo darti una volta finito in questo villaggio, mentre ci dirigeremo ad Atene.", esordì una voce, ma le labbra del santo d’argento dinanzi a lui non si muovevano.
Prima ancora che Juno potesse chiedersi come ciò era possibile, giunse la voce della sacerdotessa guerriero: "Parla attraverso il proprio cosmo, è una tecnica poco in uso, ma possibile.", spiegò gelida la donna.
Il giovane cavaliere proveniente dall’Isola di Andromeda si guardò ancora un po’ intorno, concentrando il proprio sguardo in parte sul villaggio di gente, ignara delle origini di quei guerrieri, in parte sui suoi due interlocutori, passando dal gentile sguardo del parigrado all’impassibile maschera della sacerdotessa guerriero.
"Poni loro la domanda, Juno di Cerbero.", chiese di nuovo la voce del muto, facendogli poi cenno con il capo, prima che il giovane dalla pelle scura si facesse avanti e rivolgesse al gruppo di indigeni quanto chiesto.
Ci furono dei lunghi secondi di silenzio, in cui la gente si guardò titubante, alcuni fecero dei gesti scaramantici, altri impallidirono al ricordo di quanto successo anni addietro, altri ancora iniziarono a fare segno di diniego con il capo, finché, d’improvviso, un vecchio zoppo si fece avanti.
Juno si occupò di tradurre le parole dell’uomo: "Dice che molti dei presenti erano al villaggio in quel triste giorno, alcuni hanno riportato ferite, altri hanno perso famigliari e congiunti, ma alcuni non sono qui per raccontare ciò che videro. Chiede, però, perché interessi a noi sapere degli avvenimenti di allora.".
"Dì che siamo qui in cerca di risposte, poiché quella stessa nera minaccia ha iniziato ad avanzare verso altre terre.", replicò secca la sacerdotessa.
Una risata fu, poi, la prima risposta a quelle parole, triste e sommessa, da parte dello zoppo, prima che questi continuasse, prontamente tradotto da Juno: "Quello è un esercito di conquista, i confini che la terra, o l’uomo, hanno sancito non lo fermeranno. Fin dalle ere più antiche del mondo quella scura armata imperversava per le terre dei suoi avi, ma solo negli ultimi decenni hanno iniziato a muoversi verso l’esterno, irretiti da parole di inattesi alleati."
"Di che alleati va parlando? Sa quali sono le origini di questa minaccia nera?", chiese di rimando la guerriera ateniese.
L’uomo rifletté alcuni secondi ed a Juno parve quasi farsi più scuro in viso, nel raccontare quella che, alle orecchie di quella gente, probabilmente, era stata per lungo tempo solo una leggenda.
"In tempi antichi, quando una grande forza proveniva dalle terre al di là del deserto e del mare, gli dei dell’Africa videro che questo esercito conquistatore, vinceva su ogni altra forza, dominando in ogni luogo arrivasse, fin oltre la mente delle genti di qui potesse immaginare, così, quando anche le difese dell’Orgoglioso Occhio d’Egitto furono vinte e quelle terre agglomerate, gli dei di questi luoghi scelsero decine e decine di uomini dalle diverse tribù e li unirono in un unico, immenso, esercito, scuro come la pelle delle genti di queste terre, diedero loro armature, che onoravano le bestie di questo continente e li posero a difesa di questo mondo, che rimase incontaminato dai giochi di potere di questi potenti invasori.", tradusse lesto il cavaliere di Cerbero.
"Probabilmente, gli invasori di cui parla questa leggenda, potevano essere gli Antichi Romani, che mai si spinsero nella conquista dell’Africa fin oltre il deserto del Sahara… forse questo antico esercito, ricco delle diverse tribù, riuscì a contenerne l’avanzata.", suppose ancora il giovane allievo di Cefeo.
"Potrebbe essere, in fondo gli stessi cavalieri di Atena hanno avuto modo, nel corso dei secoli, di contrastare diversi conquistatori anche umani.", concordò la voce del parigrado muto.
"Allora come, questo esercito nato per proteggere, è diventato un’armata conquistatrice?", domandò, incurante delle riflessioni, la sacerdotessa guerriero.
Subito Juno ripropose la domanda all’uomo del villaggio, il quale rimase per qualche secondo perplesso, in silenzio, prima di rispondere.
"Pare che la verità su questo cambiamento non sia certa, però, dalle storie che negli ultimi anni, quasi venti, hanno vagato per i villaggi di tutta l’Africa, l’ultimo sovrano di questo esercito, l’attuale comandante, divenne signore di questa immensa armata in giovane età, dimostrando con la forza del proprio pugno quanto egli fosse capace nel dominare.
Sembra che abbia reso un esercito, fino ad allora atto alla difesa, una forza d’invasione, con cui, una volta trovato un degno alleato in un Coccodrillo di terre lontane, partì per una guerra lontana dalle terre natie.
Questa guerra, però, si risolse in una disfatta, costringendolo a tornare sconfitto presso i confini che gli erano propri, ma ciò non ne fermò la fame di conquista e, trovati nuovi e più potenti alleati, iniziò ad espandere il proprio potere per tutta l’Africa, prima, e poi ad avanzare verso altre terre, in luoghi che questi popoli nemmeno conoscono, se non per racconti piuttosto confusi.", spiegò il cavaliere di Cerbero.
"Un Coccodrillo di terre lontane ed una sconfitta…", ripeté perplessa la sacerdotessa guerriero, che non poteva immaginare come quelle parole si riferissero a Tiamat, l’Esiliato di Accad.
"Un’ultima domanda…", continuò dopo una breve pausa, "chiedigli cosa, quel giorno, il nero esercito cercava in questo villaggio.", concluse.
L’uomo claudicante fu lesto nel rispondere, ma triste in viso nel dire delle parole che Juno si affrettò a tradurre: "Una grotta antica, in cui cercavano…", ma a quel punto le parole morirono sulle labbra del cavaliere di Cerbero; gli occhi sgranati che guardavano l’indigeno con perplessità.
"Che cosa cercavano?", chiese ancora una volta la sacerdotessa, "Il pozzo di Ga-Gorib…", affermò Juno, quasi stesse parlando al vento, affermando di qualcosa in cui nemmeno lui riusciva a credere.
"Che cosa?", domandò sbalordita, di rimando, la guerriera.
Juno dovette fare affidamento sulla propria memoria per riuscire a trovare un modo per esporre quella che per lui era solo una leggenda della sua infanzia.
"Il pozzo di Ga-Gorib è una leggenda, come il mostro stesso, una leggenda delle popolazioni Khoi, i cosiddetti Ottentotti, popolazioni originarie dell’Africa sud-occidentale, cioè della zona in cui ci troviamo adesso.", iniziò a spiegare l’allievo di Edward di Cefeo.
"Secondo queste leggende, Ga-Gorib era un mostro, custode di un pozzo senza fondo in cui gettava gli uomini che lo sfidavano. Diverse sono le versioni che ho sentito, ma ci sono degli elementi comuni in tutti: il pozzo e la capacità di questa creatura di rigettare le pietre scagliategli addosso contro chi le aveva lanciate, uccidendo il nemico e gettandolo, al qual tempo, nel pozzo. Questo mostro fu poi sconfitto da una divinità, che lo gettò a sua volta nel baratro senza fine.", spiegò il giovane cavaliere.
"E questa armata nera era convinta che si trovasse in questo villaggio tale pozzo?", incalzò ancora una volta la sacerdotessa, "Sì, in una grotta poco all’esterno dei confini in cui si trovavano le loro capanne allora.", confermò Juno.
"Chiedigli se può indicarci dove si trova questo luogo.", domandò la voce del cavaliere muto.
L’uomo acconsentì a guidare i tre stranieri fino alla grotta, non senza titubanza da parte del resto degli abitanti, che, da quel che aveva potuto capire il cavaliere di Cerbero, lo pregavano di non avvicinarsi a quel luogo, a loro dire maledetto, lasciando che quel gruppo di estranei rischiasse da solo la vita; lo zoppo, però, aveva deciso di condurli lui stesso.
Durante il viaggio fino alla grotta, Juno chiese al claudicante di raccontargli cosa era successo il giorno dell’attacco, nei particolari, così, l’uomo iniziò a raccontare, mentre lesto il giovane santo di Atena traduceva per i propri parigrado.
"Giunse di mattina la Nera Salamandra, lasciando molti sconcertati per le scure vestigia che ne celavano il corpo. Non ci diede modo di domandargli alcunché, né ci fece domande, semplicemente iniziò a scuotere una lunga coda di fuoco, incendiando e bruciando case e persone.
Alcuni di noi, i guerrieri più coraggiosi, si lanciarono contro di lei, impugnando fucili e coltelli, ma il fuoco e l’acciaio sembravano aver generato quel terribile invasore, che li vinse ed uccise quasi tutti. Io riportai una profonda ustione alla gamba.
In quel momento, però, quando pensavo di morire, vidi apparire dinanzi a me qualcosa di incomprensibile, un miracolo pensai, nel vedere una ragnatela di luce che si poneva in mia difesa e, poco dopo, quattro figure, coperte da corazze simili a quelle della Nera Salamandra, ma di ben diversi colori.
Due di loro avevano delle grosse catene con sfere chiodati, uno tesseva fili di luce con le mani, mentre una ragazza, con una maschera simile alla sua, aveva con se una frusta.", raccontò l’uomo, indicando alla fine la sacerdotessa guerriero, e quelle parole riportarono alla mente di Juno l’arrivo del piccolo gruppo di guerrieri dell’Isola di Andromeda in quel villaggio.
"Ci fu una battaglia fra questi guerrieri, che si preoccuparono anche di domare il fuoco nel nostro villaggio, una battaglia che vide tre di loro feriti e sbalzati al suolo, dopo i primi attacchi, da quella Nera Salamandra. Solo uno si ergeva ancora in piedi, coraggioso comandante di quel piccolo gruppo, di certo. Ci furono delle parole fra i nostri salvatori, parole che non capii, ma subito dopo i tre più giovani si ritirarono, preoccupandosi della gente del mio villaggio.
Io, che mi ero già nascosto, rimasi nelle vicinanze del luogo dello scontro, osservando quel guerriero straniero vincere sulla Nera Salamandra ed attendere. Inizialmente non capii cosa stesse aspettando, ma quando vidi sopraggiungere uno scuro ed immane esercito, osservai lo sguardo sicuro dell’uomo, mentre affrontava il Leone dalla tetra criniera e la donna, simile alla morte strisciante, che lo accompagnava.", queste parole interruppero la traduzione di Juno, che osservava sbalordito quello zoppo.
"Morte strisciante?", ripeté l’allievo di Edward di Cefeo, e come risposta ricevette una mimica di qualcosa che si muoveva sinuoso, oltre ad uno schiocco di lingua.
"Di certo un’armatura che rappresentava qualche serpente velenoso.", suppose la voce del cavaliere muto, trovando anche il suo parigrado concorde.
"Fu proprio la donna a combattere contro il mio salvatore. Forse per la battaglia precedente, forse per l’inaspettata velocità della guerriera, l’uomo con le catene non poté fare molto, anzi, parve quasi immobile, prima che un attacco lo ferisse al corpo.
Poi sentii la donna parlare, minacciarlo che avrebbe conosciuto il terrore del Leone Nero e del suo esercito mediante una lunga agonia.
Dopo quelle parole, il gruppo si mosse, allontanandosi dal guerriero sconfitto.", concluse.
Quelle parole fecero scendere delle calde lacrime sulle guance di Juno a cui, solo in quel momento, alcuni avvenimenti del passato sembravano diventare comprensibili, prendendo una forma che mai aveva immaginato.
"Chiedigli se ha notato qualche altro elemento di quel nero esercito, oltre al Leone Nero ed alla guerriera che lo affiancava.", ordinò d’un tratto la sacerdotessa guerriero, ridestandolo dai suoi pensieri.
Juno eseguì l’ordine, "Erano in cinque a seguire il Leone Nero più da vicino: la Morte Strisciante, sotto aspetto di donna; un Felino Notturno dagli occhi selvaggi; un Signore dei Cieli, che non si curò d’attaccarmi, malgrado, ne sono certo, mi avesse visto; un gigantesco rettile dalle molte voci e, infine, un Portatore di Carestia, lo stesso che ordinò la distruzione del mio villaggio all’esercito dietro di loro, incurante della gente che ancora vi abitava. Insieme quei cinque entrarono nella grotta con chi li comandava.", concluse l’indigeno, fermandosi dinanzi alla meta di quel piccolo viaggio.
Il guerriero di Cerbero ringraziò l’uomo che gli aveva fatto da guida, ricevendo, a sua volta, dei ringraziamenti da questi, prima di avventurarsi con i suoi parigrado all’interno della costruzione naturale nel fianco di una montagna.
I tre santi di Atena iniziarono ad avanzare, facendosi luce con una leggera emanazione dei loro cosmi: l’interno della grotta era ricoperto di graffiti, disegni antichi e dal significato forse disperso nel tempo, almeno per il cavaliere proveniente dall’Isola di Andromeda.
"Cosa credi che significhino?", chiese d’un tratto la sacerdotessa guerriera, rivolgendosi al parigrado muto, che poggiò la mano su alcuni di essi. Rappresentavano un gigantesco essere con braccia deformi rispetto al resto del corpo, inaspettatamente grandi, persino per il fisico maestoso della figura stilizzata: in alcune immagini erano vicine al corpo, in altre erano atte a colpire dei macigni, quando si trovavano dinanzi altri esseri. Tutte le creature, eccetto il gigante, erano di un colore azzurro, al contrario del mostro dalle braccia maestose, disegnato con un color rosso sangue. In ogni disegno, era il nero di grosse fauci a rappresentare il terreno sotto le sagome azzurre.
"Hai detto che Ga-Gorib era un mostro che gettava gli uomini nel suo abisso senza fondo, giusto?", chiese l’emanazione cosmica del santo muto, "Sì, esatto. Secondo alcune leggende fu poi una divinità a vincerlo.", rispose subito Juno, che guardava incuriosito ai disegni.
L’ultimo di questi, rappresentava un altro uomo dalla sagoma azzurra, che, però, non sostava sul nero baratro, bensì vicino alla figura mostruosa, le cui braccia erano ora divise intorno a lui.
"Se invece, al di là del mito, ciò che veniva gettato nel baratro fossero state sempre divinità? E solo una di loro riuscì a vincere questo Ga-Gorib?", incalzò l’altro cavaliere, "Potrebbe essere, l’eroe del popolo Khoi era detto una divinità, o un uomo, a seconda di come si voleva intendere la leggenda, potrebbe valere anche per le vittime del mostro.", suppose perplesso l’allievo di Edward di Cefeo.
"Capisco… credo che avremo molto da riferire al sommo Sacerdote. È tempo di tornare ad Atene.", convenne allora il cavaliere muto.
"Aspettate!", esclamò proprio in quel momento la sacerdotessa guerriero, allontanatasi di qualche passo, "Qui ci si sono incisioni più fresche.", continuò, indicano delle lettere scritte verso il fondo della grotta.
Avvicinatisi a lei, anche i due cavalieri notarono due serie di scritture, alcune utilizzavano l’alfabeto europeo, altre erano costituite da ideogrammi a tutti e tre sconosciuti.
"Che lingua europea è questa? Non assomiglia all’inglese del mio maestro.", domandò incuriosito Juno, leggendo le prime parole con un po’ di titubanza: "Ic sunt".
"Questo è latino… la lingua della mia terra natia.", osservò stizzita la sacerdotessa guerriero, iniziando a tradurre: "Qui sono riuniti i Tre Conquistatori. Da qui prenderà forma l’alleanza che renderà il Leone Nero parte dell’unificazione. I popoli non saranno più divisi dai loro credi, non vi saranno più divinità a scindere le genti e farle combattere. Un solo popolo camminerà sulla terra, guidato dagli unici veri dei che abbiano mai calcato i suoli del mondo: gli uomini.
Gli uomini saranno gli dei degli altri uomini.", così lesse la ragazza e la voce tradì sorpresa e timore a quelle parole, prima che si volgesse verso il guerriero muto. "E’ tempo di tornare ad Atene ed avvertire il Sommo Sion.", ripeté il cavaliere.
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La prima parte del viaggio per Atene fu in nave: i tre cavalieri di Atena non volevano farsi notare oltremodo, già il portare con loro gli scrigni delle armature era un elemento che li rendeva riconoscibili.
La nave era particolarmente veloce, avrebbe costeggiato l’Africa fino arrivare alla zona dell’Egitto, lì, dove avrebbero dovuto trovare un’altra nave, i tre cavalieri avevano già deciso di abbandonare ogni velo e muoversi con la velocità che gli era propria, per raggiungere il Santuario in tempo breve.
Sull’imbarcazione, Juno si perse nelle sue riflessioni: ora le parole con cui si erano salutati con Husheif avevano tutto un altro significato.
Li aveva accusati di non capire quel giorno, andandosene, aveva accusato sia lui sia Nirra di essere ciechi e sordi alla verità, di non sforzarsi nemmeno di comprenderla e poi aveva accusato anche se stesso di essere troppo debole.
Juno aveva creduto che fosse stato per aver abbandonato il maestro dinanzi alla Salamandra Nera, ma ora uno scenario diverso si apriva ai suoi occhi: Husheif aveva forse capito la verità, magari aveva chiesto spiegazioni al maestro quando loro non c’erano, e si sentiva in colpa per non essere rimasto ad aiutarlo, perché Edward non aveva gettato via la propria vita, bensì l’aveva sacrificata per fermare quei nemici neri, per salvare gli allievi e gli abitanti del villaggio!
Quelle verità fecero convenire il santo di Cerbero che anche lui doveva diventare più forte, degno del sacrificio del maestro.
"Immerso nei ricordi, cavaliere?", lo interruppe una voce, quella che proveniva dal cosmo del parigrado muto, avvicinatosi a lui assieme alla sacerdotessa guerriero.
"Sì, ripensavo a quanto qui scoperto sulla morte del mio maestro.", ammise il giovane, "Il prode Edward di Cefeo, un nobile guerriero, che si sacrificò contro un nemico che, allora, il Santuario non immaginava potesse avere tanto seguito. Troppo poco sapevamo di loro, ma sembra che ora si stiano muovendo più velocemente.", osservò il cavaliere che non parlava, volgendo il capo verso la fonte di un’immensa energia cosmica, la stessa che da ormai più di tre giorni aleggiava nel Medio Oriente.
"Sono quei guerrieri neri i fautori di questo immenso cosmo?", domandò, con un misto di stupore e rabbia, Juno, "Non saprei, mio giovane amico, ma anche per questo stiamo dirigendoci al Santuario, per sapere cosa è successo e per offrirgli le informazioni ottenute, oltre che ricevere nuovi ordini.", rispose lesto l’altro, prima di accennare uno sguardo perplesso.
"Che sciocco, non ci siamo ancora presentati!", affermò l’emanazione cosmica, mentre questi sorrideva a Juno, ricevendo, al qual tempo, un cenno affermativo dalla sacerdotessa guerriero.
Fu proprio la ragazza la prima a parlare: "Il mio nome è Iulia dell’Altare, allieva del Sommo Sacerdote Sion.", già quelle parole bastarono a stupire il santo di Cerbero che non immaginava di camminare assieme alla discepola dell’Oracolo di Atena.
"Io, invece, mi chiamo Amara.", continuò il secondo, "Sono il cavaliere del Triangolo."