DAUKO DI LIBRA
presenta
"NELLE TERRE DEL TRAMONTO"
PARTE PRIMA
Capitolo I La promessa del re
Spagna, 1492
La festa era in pieno svolgimento. Quella mattina i cattolicissimi sovrani di Spagna, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, erano entrati in trionfo a Grenada, l’ultima fortezza degli Arabi sul suolo europeo. La riconquista era stata completata, e dopo secoli di divisione la Spagna era nuovamente una nazione.
Re Ferdinando era attorniato da una folla di cortigiani, la maggior parte dei quali sfacciati adulatori che non la finivano più di cianciare. Lui, troppo cortese per mandarli via, faceva finta di ascoltarli, sorrideva, stringeva mani, senza avere nemmeno il tempo di bere un sorso di vino dal grande bicchiere di cristallo di Boemia che teneva in mano.
Cercando di vedere al di là di quegli importuni, che quasi lo soffocavano tanto erano vicini, il re scorse un giovane nobile seduto su un divano, che conversava amabilmente con una dama. Il ragazzo incontrò il suo sguardo per un attimo, ma fu sufficiente. Re Ferdinando si liberò con una scusa e lo raggiunse, congedando la dama con un cenno della mano.
Poco dopo la regina Isabella entrava nelle stanze del marito. Re Ferdinando le presentò l’ospite.
Quell’anno era stato appena eletto il nuovo Grande Sacerdote, scelto come sempre dal suo predecessore tra i due Cavalieri d’Oro che si erano distinti per senso di giustizia, oltre che per la loro forza, necessaria per proteggere la reincarnazione di Athena se mai la Dea fosse apparsa al Santuario.
Durante il suo primo colloquio con Athena il nuovo Sacerdote aveva ricevuto informazioni riguardanti Cristoforo Colombo e il suo progetto di viaggio verso le Indie. Athena voleva che un cavaliere si imbarcasse con lui, sotto mentite spoglie. Nessuno sapeva dove Colombo sarebbe arrivato, se mai fosse arrivato da qualche parte, e poteva aver bisogno di protezione. Come sempre la Dea non aveva rivelato la ragione che la muoveva : aveva detto solo che la missione di quell’uomo avrebbe aperto una nuova era per il mondo, ed era compito dei cavalieri assicurarsi che tutto andasse per il meglio.
Il Grande Sacerdote, avendo saputo che Colombo si trovava alla corte di Spagna, aveva quindi inviato Jose del Capricorno, che essendo originario di quelle parti parlava perfettamente la lingua, per preparare il terreno alla partenza del navigatore genovese. Come tutti i sovrani d’Europa e del mondo allora conosciuto Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia erano a conoscenza dell’esistenza del Grande Tempio e dei cavalieri di Athena, e riconoscevano l’autorità del Grande Sacerdote.
Quando Cristoforo Colombo si presentò nuovamente a corte gli concessero il loro appoggio, e non si indignarono di fronte alle sue enormi pretese. Gli promisero tre navi e lo nominarono governatore di tutte le terre che avesse scoperto, che lui si impegnava ad occupare in nome della Spagna.
Capitolo II Rotta verso l’ ignoto
Porto di Palos, Portogallo, 1492
Serian di Orione arrivò a Palos, e si mise in fila per imbarcarsi sulla Santa Maria. Aveva nascosto lo scrigno con l’armatura d’argento nella sacca che portava a spalle, contenente i suoi pochi oggetti personali, e grazie al suo travestimento sembrava un comunissimo marinaio. Essendo di origine greca era esperto per davvero nell’arte della navigazione, e avrebbe potuto mescolarsi senza problemi alla ciurma. Questa era composta degli elementi più diversi : per radunare gli equipaggi, poiché molti non se la sentivano di partire per quello che era, a tutti gli effetti, un viaggio verso l’ignoto, Colombo aveva dovuto imbarcare persino dei galeotti, ai quali era stata promessa la grazia con un editto reale.
Lui disse di essere un marinaio greco, e fornì un nome falso. Era orgoglioso di essere stato scelto per questa missione. Si era messo in luce già durante l’addestramento, e aveva meritato l’armatura d’argento di Orione, tra le più potenti del secondo ordine dei cavalieri. Persino i Santi d’Oro erano impressionati dalla sua forza, e anche il Grande Sacerdote aveva dovuto riconoscerla. Lo aveva chiamato "orgoglio e vanto del Grande Tempio", e lui non avrebbe mai dimenticato quelle parole. Mai.
Salì a bordo, e si sistemò sottocoperta, insieme al resto dell’equipaggio. Non doveva temere furti : se un uomo comune avesse anche solo toccato lo scrigno dell’armatura sarebbe stato attraversato da una scarica elettrica che l’avrebbe fulminato all’istante.
Finalmente, davanti a migliaia di persone in festa radunate nel porto e sui moli, le tre caravelle mollarono gli ormeggi e si diressero verso l’oceano aperto.
La grande avventura era cominciata.
Da qualche parte in mezzo all’Oceano Atlantico, 1492
Acqua, acqua e ancora acqua. Non si vedeva altro da mesi. Le navi avanzavano spinte dal vento, che gonfiava le grandi vele sulle quali spiccava una croce rossa. Quando veniva a mancare restavano fermi per giorni, tanto che ci si augurava persino una tempesta pur di fare qualcosa. La noia, il caldo, le scorte che si assottigliavano e la convinzione di molti che non si sarebbe mai arrivati da nessuna parte avevano più volte condotto gli equipaggi sull’orlo dell’ammutinamento, e solo l’autorità degli altri due capitani, che comandavano la Nina e la Pinta, aveva trattenuto gli uomini. Ma anche loro si chiedevano dove intendeva condurli quel genovese. Erano in mezzo al nulla assoluto, sfuggiti per un pelo alle insidiose alghe del Mar dei Sargassi, che avevano avvolto gli scafi delle navi in un abbraccio che avrebbe potuto essere mortale. Sarebbe stato molto più saggio tornare indietro.
Sulla Santa Maria Colombo non si faceva vedere, sempre chiuso nel suo alloggio. Nessuno osava parlargli o avvicinarlo. Passeggiava su e giù per la cabina, controllando e ricontrollando le carte nautiche. Possibile che avesse sbagliato ? Possibile che la terra fosse piatta, che oltre il mare ci fosse solo altro mare, fino ai confini del mondo ?
Il vento teneva, e non c’era molto da fare. Il tempo si manteneva bello, e gli strumenti non segnalavano tempeste in arrivo. Serian era seduto su una gomena arrotolata, e stava intagliando una figurina di legno con il suo coltello. Cominciava ad essere nervoso. La terra non si vedeva, ma che senso avrebbe avuto accompagnare un uomo in mezzo a una distesa d’acqua ? Aveva riletto cento volte gli ordini del Grande Sacerdote, chiusi nel plico con il sigillo del Santuario : c’era scritto solo di assicurarsi che Colombo portasse a termine il suo viaggio. Si sarebbe aspettato almeno di imbattersi in qualche mostro marino, che avrebbe potuto sconfiggere facilmente senza farsi scoprire, poiché i suoi pugni erano portati a una velocità intermedia tra quella del suono e quella della luce, come era per tutti i cavalieri d’argento suoi parigrado. E invece niente. L’unica novità erano stati degli strani pesci che balzavano fuori dall’acqua e sembravano dotati di piccole ali, che permettevano loro di volare per brevi tratti come degli uccelli.
Si disse che forse il suo compito era aiutare quel Colombo a trovare l’Eldorado, di cui allora in tutta Europa si cominciava a favoleggiare. Subito dopo però gli venne in menta l’idea opposta. L’oro corrompeva facilmente i cuori degli uomini, che stavano appena uscendo dalla barbarie del Medioevo, dopo che l’antico impero di Roma era caduto. L’arrivo di nuove, immense ricchezze avrebbe potuto farli ripiombare in quei tempi oscuri, se non in altri ancora peggiori. Non sapeva proprio cosa pensare. Non gli restava che andare avanti, e vedere cosa sarebbe capitato. Doveva solo vigilare sull’incolumità fisica di Cristoforo Colombo, e assicurarsi che al termine del viaggio, ammesso e non concesso che si fosse arrivati da qualche parte, rientrasse sano e salvo in Spagna. Dopodichè la sua missione sarebbe finita, o almeno così gli era parso di capire. In effetti le istruzioni del Santuario non erano molto chiare.
Qualche giorno dopo avvistarono degli uccelli. Tutti sapevano che quello era un segnale sicuro, e infatti quando il sole salì allo zenit e il vento disperse la foschia del mattino dalla coffa si sentì la vedetta lanciare il grido tanto atteso.
Capitolo III Alla scoperta del Nuovo Mondo
Sbarcarono su un’isola ricoperta di vegetazione tropicale. Colombo si inginocchiò nella sabbia, e prese possesso del territorio in nome dei sovrani di Spagna.
Serian si teneva sempre vicino a lui, attento a ogni minimo rumore. Non sapeva assolutamente dove si trovavano, né se dietro quel fogliame impenetrabile ci fossero dei nemici ad aspettarli. Aveva lasciato l’armatura sulla Santa Maria, e in ogni caso non avrebbe potuto indossarla davanti a tutti, né usare i suoi poteri.
Avvertì una presenza. Qualcuno li stava osservando, là, dietro gli alberi. Ma non percepì alcuna aura cosmica. Decise di non avvertire i marinai, lasciando che lo scoprissero da soli.
Non passò molto tempo che dalla vegetazione uscì un piccolo gruppo di uomini, la cui apparizione lasciò di stucco l’equipaggio. Erano piccoli di statura, con la pelle brunita, nudi tranne per una piccola fascia attorno ai fianchi, ed erano armati di lance e archi. Non sembravano ostili, e si avvicinarono curiosi ai marinai, ai quali Colombo aveva dato ordine di abbassare i fucili.
Serian li osservò incuriosito. Non sembravano Indiani, perché non somigliavano per nulla al Cavaliere d’Oro della Vergine, che sapeva essere originario di quelle terre.
Col passare delle settimane indigeni e Spagnoli iniziarono a mescolarsi e a conoscersi. Colombo fece erigere un forte sulla spiaggia, e l’equipaggio delle tre caravelle partì per esplorare l’isola. Trovarono dell’oro, ma non tanto quanto avevano sperato. L’Eldorado non era lì.
Qualche mese dopo Colombo prese la via del ritorno con due sole navi, dato che la Santa Maria si era incagliata su un fondale basso e aveva dovuto essere abbandonata. Lasciò inoltre molti uomini sull’isola, acquartierati nel forte.
Serian si offrì volontario per restare. Colombo stava tornando a casa, ma lui sentiva che la sua missione non era ancora finita. C’era qualcosa che gli sfuggiva, qualcosa che non era contenuto nella lettera del Grande Sacerdote. E sapeva che finché non avesse capito cosa fosse non avrebbe potuto rientrare al Grande Tempio. Non poteva macchiare il suo onore, e il suo orgoglio, presentandosi con una missione compiuta solo a metà. Al Santuario si era fatto un nome, le sue gesta erano cantate in tutta la Grecia, e come spesso avviene la vanità, alla quale nemmeno i cavalieri erano immuni, aveva fatto breccia nel suo animo. Inoltre sentiva che tradire la fiducia che il Grande Sacerdote aveva riposto in lui significava tradire la stessa Dea Athena, e non aveva nessuna intenzione di deluderla.
Non poté fare niente quando gli indigeni, i cui rapporti con gli Spagnoli si erano fatti sempre più tesi, attaccarono il forte e gli diedero fuoco, uccidendo tutti i suoi occupanti. Afferrò lo scrigno dell’armatura e si nascose nella boscaglia.
Sopravvisse cacciando uccelli, pescando e mangiando radici, poi rubò una piroga e si diresse verso ovest, in mezzo ad altre isole simili a quella dove erano sbarcati.
Aveva deciso di accettare l’ipotesi di Colombo di arrivare alle Indie navigando verso occidente. Dopotutto, ormai era abbastanza noto che la Terra era rotonda, anche se non erano pochi quelli che si ostinavano a pensare che fosse piatta. Il Grande Sacerdote era ispirato da Athena, e la Dea non poteva sbagliare. Se avesse continuato a muoversi verso occidente prima o poi sarebbe arrivato in Cina e in India, dove la grande Dea di Grecia era ben conosciuta. Inoltre, ben tre Cavalieri d’Oro, quello dell’Ariete, quello della Vergine e quello della Bilancia erano originari di quelle terre, e i rapporti tra il Santuario e i vari regni e imperi locali erano sempre stati ottimi, sia dal punto di vista politico che da quello religioso. Da lì avrebbe potuto facilmente tornare a casa.
Per settimane si nutrì di pesce crudo, bevendo acqua piovana. Non sapeva dove si trovava, ed era impossibilitato a comunicare in qualsiasi modo con il mondo civile. Nemmeno il cosmo del Grande Sacerdote era tanto vasto da raggiungerlo così lontano. Né lui, essendo soltanto un cavaliere d’argento, poteva mettersi in contatto direttamente con Athena, privilegio riservato a colui che sedeva sul supremo seggio del Grande Tempio.
Il silenzio che lo circondava era rotto solo dalle onde lungo i fianchi della piroga e dalle strida degli uccelli marini. Ogni tanto qualche squalo si avvicinava, sperando in un facile pasto, ma bastava un pugno per liberarsene. Anche in quel mondo ignoto, essere un cavaliere aveva i suoi vantaggi.
- Forse mi conveniva rimanere sull’isola – pensò – Prima o poi Colombo tornerà, o manderà qualcun altro con altre navi. Ormai la via è aperta, e in ogni caso dovrebbero venire a recuperare gli uomini del forte. Certo è che questi indigeni ci avevano accolti pacificamente, ed ecco com’è andata a finire. La sete di conquista dell’uomo non si spegnerà mai. Se ci sono altre genti in queste terre ho idea che presto conosceranno gli uomini venuti da oltre il mare. -
Ma altri pensieri iniziavano a farsi strada dentro di lui. Quegli ordini così confusi non erano nelle stile del Grande Tempio, e di solito nelle missive era sempre specificato chiaramente di ritornare al Santuario appena conclusa la missione. Qual era allora il vero scopo del suo viaggio ? Ormai era chiaro che anche senza la sua presenza Colombo sarebbe arrivato ugualmente in quelle terre sconosciute. Allora, perché ? Perché non si faceva menzione del suo ritorno ? Athena di certo non voleva la sua morte, e lui non dubitava che se la situazione si fosse fatta davvero critica la Dea sarebbe giunta in suo soccorso.
Cosa si nascondeva dietro le parole del Grande Sacerdote ? Oltre ad aver riletto centinaia di volte la missiva se le era ripetute giorno e notte, e rivisse quella scena.
Atene, Santuario, qualche mese prima
Era in ginocchio ai piedi di una scalinata, l’elmo sotto il braccio. Il Grande Sacerdote apparve in cima ai gradini, avvolto nella lunga palandrana bianca che ne celava del tutto le fattezze. Il sole faceva brillare il suo elmo d’oro, ma il suo volto era in ombra. Discese lentamente, lo sguardo fisso su di lui. Per lunghi momenti lo squadrò in silenzio, e nonostante il caldo dell’estate lui sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena.
* * *
Era quella frase, "far rispettare la giustizia di Athena", che lo lasciava perplesso. Cosa poteva significare ?. Cosa c’era dietro ?
Tutte quelle domande, fatalmente senza risposta, gli procuravano solo un gran mal di testa.
Infine, dopo giorni e giorni di navigazione sulla fragile piroga di legno, che aveva dotato di un albero e di una rudimentale vela fatta con i suoi vestiti, arrivò su una spiaggia assolata, cinta da colline brulle battute dal vento. Fortunatamente gli era rimasto il suo coltello, che aveva in tasca al momento dell’attacco al forte. Spezzò uno dei remi e lo trasformò in un bastone, in cima al quale legò il coltello, ottenendo una lancia che gli sarebbe stata utile per cacciare.
Decise di riposare quella notte e tutto il giorno seguente, e rivoltata la piroga si preparò un giaciglio. Il mattino successivo si sarebbe diretto verso l’interno.
La cosa più urgente era trovare dell’acqua dolce.
Capitolo IV Un incontro inatteso
Camminava su un altopiano desertico, formato da alte rocce di colore rossastro. Il sole picchiava, e l’unica vegetazione era costituita da bassi cespugli spinosi. Aveva abbandonato gli oggetti inutili e trasformato la sua sacca in un otre dove raccoglieva l’acqua dei radi ruscelli. Sulle spalle portava lo scrigno con l’armatura d’argento di Orione, e le cinghie avevano scavato profondi solchi sulla sua pelle nuda, perché aveva usato la casacca per fabbricarsi una sorta di turbante e proteggersi così il capo dal sole.
Non si vedeva alcun essere vivente, né uomo né animale. Improvvisamente, una piccola sagoma di color verde brillante passò rapidamente davanti ai suoi occhi. Per un attimo credette ad uno scherzo del caldo, ma poi la vide di nuovo. Era un piccolo uccello, con morbide piume e una lunga coda. Si posò su una roccia sopra di lui, fissandolo.
Lui pensò che, sebbene piccolo, quell’uccello avrebbe comunque rappresentato un pasto, e stava per sollevare la sua rudimentale lancia quando udì una voce.
Si guardò intorno, ma non c’era anima viva. Sembrava quasi che fosse stato l’uccello a parlare.
Abbassò la lancia e sollevò le mani col palmo aperto.
Questa volta non si poteva sbagliare. A parlare era stato proprio l’uccello dalle piume verdi. Serian avvertì un cosmo sconosciuto sorgere da quel piccolo esserino, un cosmo almeno pari al suo. E sotto i suoi occhi stupefatti l’uccello si mutò in un uomo di alta statura, con lunghi capelli neri, che indossava un’armatura di color verde brillante.
Un cavaliere.
Lo sconosciuto fissò Serian, mentre dietro di lui si allargava un’aura cosmica dello stesso colore dell’armatura.
Serian posò a terra lo scrigno e tirò la maniglia. L’armatura d’argento di Orione apparve, composta nella forma dell’eroe : il suo colore viola scuro risaltava sotto i raggi del sole. I pezzi si disposero sul corpo di Serian, e colui che era già chiamato il più valente cavaliere della Storia bruciò il suo cosmo, preparandosi al combattimento.
Con un salto a piedi uniti Montezuma si librò in aria, e subito dopo puntò verso Serian, usando le braccia per governare il suo volo, proprio come le ali degli uccelli. Girò su se stesso e fece per colpire Serian con un calcio al volto, spinto da tutta la forza del proprio cosmo.
Serian puntò i piedi a terra e rimase fermo ad attendere l’attacco. Alzò le braccia e con le mani a palmo aperto si protesse il volto dal calcio di Montezuma, bloccandogli il piede. Resistette alla spinta, ma ci volle tutta la sua forza. Quando capì che era il momento diede un colpo di reni, e bruciando il suo cosmo spiccò un salto, spingendo Montezuma lontano.
La tecnica d’attacco di Serian era così inconsueta da lasciare qualsiasi avversario di stucco. Montezuma non fece eccezione, e alzò troppo tardi le difese. Venne sbattuto contro una roccia, e il piccolo elmo a coroncina che portava in capo rotolò ai suoi piedi.
Capitolo V. I Cavalieri del Sole Nascente
Montezuma teneva un passo rapido, e Serian faticava a stargli dietro : non per la velocità, che era pari alla sua, ma perché conosceva bene il territorio, mentre lui doveva badare agli ostacoli che aveva davanti.
Corsero per due giorni interi. Infine Montezuma salì su un picco roccioso che dominava il paesaggio intorno. Serian lo raggiunse, e quello che vide gli strappò un’esclamazione di stupore.
Di fronte a lui, su un ampio pianoro ricoperto di vegetazione, si stendeva una città splendida. Alte piramidi a gradoni svettavano verso il cielo, quasi facessero a gara per raggiungerlo. Lunghe mura in enormi blocchi di pietra cingevano per intero il pianoro, sovrastato dalla mole immensa di una montagna. La città era formata da varie cinte murarie, una dentro l’altra. Entro quella più interna si ergeva un palazzo appoggiato alla montagna stessa, tanto che non si capiva dove terminasse l’opera dell’uomo ed iniziasse quella della natura.
Montezuma guidò Serian per le strade strette e tortuose della città. Al loro passaggio la gente si ritraeva, inizialmente spaventata dal cavaliere straniero dall’armatura viola. Ma vedendo che Montezuma, che evidentemente era ben noto, non mostrava timore e anzi lo trattava da amico, presto furono in molti a seguire curiosi i due cavalieri, fermandosi però alla cerchia più interna delle mura, davanti a grandi porte di legno.
Riconoscendo Montezuma, alcune guardie vestite solo di un gonnellino a colori vivaci e armate di mazze di legno dalle quali spuntavano affilati frammenti di pietra aprirono le porte, non meno stupite della gente fuori nel vedere un cavaliere straniero.
Serian entrò in un’ampia sala, dal centro della quale partiva una scalinata in pietra apparentemente senza fine. Seguendo Montezuma, si ritrovò dopo molti gradini su una terrazza dalla quale si dominava l’intera città e tutte le valli e le montagne intorno.
Un grande altare di forma quadrangolare era collocato al centro della terrazza. E intorno ad esso erano radunati quattro cavalieri.
Anche loro rimasero esterrefatti nel vedere Serian. Il cavaliere d’argento alzò una mano in segno di saluto, e si tolse l’elmo.
Fu Montezuma a rompere il ghiaccio.
Uno dei quattro cavalieri si fece avanti. Indossava un’armatura arancione con striature nere, e il suo elmo ricordava il muso di un felino.
Il secondo cavaliere vestiva un’armatura nera munita di ampie ali piumate. L’elmo era conformato come un volatile, le cui ali scendevano a formare i paraguance.
Gli altri due cavalieri erano evidentemente fratelli, e solo allora Serian notò la somiglianza con Montezuma.
Fatte le presentazioni, Serian cercò di spiegare come meglio poté chi era e da dove veniva. Quando chiese se sapevano come raggiungere la Cina e l’India, terre dalle quali avrebbe potuto facilmente tornare a casa, ebbe però in risposta degli sguardi stupiti.
Serian fece un rapido ragionamento. Se quel dannato Cristoforo Colombo pensava di raggiungere le Indie navigando verso occidente, era evidente che la Cina e l’India si trovavano ancora più a occidente rispetto a dove era lui adesso.
Ma quando lo disse ebbe un’altra sorpresa.
- Ad occidente di qui c’è un altro grande mare. E’ là che il Sole si riposa ogni sera, prima di tornare ad illuminare il nostro mondo. Tu sei venuto dalla direzione del Sole che nasce, dal dominio degli antichi Dei. Forse è un segno. Forse gli antichi Dei stanno per tornare. -
Parlarono ancora a lungo, e Serian si sentiva sempre più confuso. Ma aveva capito una cosa : raggiungere la Cina e l’India era apparentemente impossibile. E forse era impossibile anche tornare a casa.
Capitolo VI. Il destino di un cavaliere
Nei mesi che seguirono Serian imparò a conoscere Macchu Picchu e la sua gente, ed apprese come era governato quello strano mondo. Scoprì che i Cinque Cavalieri del Sole Nascente erano i protettori dei loro popoli, e che la gente invocava il loro aiuto tramite complicate cerimonie che si svolgevano in cima alle grandi piramidi a gradoni. Tutto sembrava ruotare intorno al Sole, la Divinità più venerata, ma ve n’erano numerose altre. Gli Dei non sembravano interessarsi granché dei mortali : quando Serian raccontò delle Guerre Sacre che Athena aveva combattuto nel corso dei secoli per proteggere il mondo dagli altri Dei che volevano conquistarlo, rimase stupito nello scoprire che nulla del genere era mai accaduto nelle terre del Sole. Per questo c’erano solo cinque cavalieri, ed il fatto che nella patria di Serian ve ne fossero ben ottantotto era per loro quasi inconcepibile. I Cavalieri del Sole Nascente veneravano collettivamente il Sole, ma era più un omaggio che un’obbedienza specifica, e non esisteva nulla di paragonabile all’insieme di regole e precetti sui quali si reggeva il Grande Tempio di Atene.
Montezuma, Kanes, Xiu, Athualpa e Itza erano divenuti cavalieri dopo un addestramento durato cinque anni, ed erano stati scelti dagli Dei in persona. Molti erano coloro che aspiravano a diventare cavalieri, ma gli Dei sceglievano solo cinque ragazzi per ogni generazione. Chi decideva di tentare la sorte si sottoponeva a giorni e giorni di purificazione, al termine dei quali, dopo una cerimonia religiosa in cima alla piramide più alta di ogni città, veniva pugnalato al cuore e gettato in un pozzo senza fondo. Nessuno, era ovvio, tornava mai indietro, tranne coloro che gli Dei avevano scelto per diventare Cavalieri del Sole Nascente.
Serian apprese poi della profezia che annunciava il prossimo ritorno degli antichi Dei. Sarebbero venuti dalla direzione del Sole che nasce, e il loro inviato avrebbe avuto due teste, sei gambe e una pelle luccicante come la luna piena. Si sarebbe annunciato sprigionando fuoco dalle mani, e tutti i popoli sarebbero venuti ad accoglierlo come si conveniva, sperando di essere giudicati pronti e meritevoli per vedere nuovamente gli antichi Dei.
Ma con il tempo Serian apprese anche un’altra cosa. Non sarebbe mai più tornato ad Atene. E non perché fosse impossibile. Gli sarebbe bastato fare a ritroso la strada che aveva percorso, e tornare sull’isola dove era sbarcato insieme a Cristoforo Colombo. Se avesse fatto così, avrebbe trovato un insediamento piccolo ma fiorente, e avrebbe visto navi spagnole che andavano e venivano sulla via ormai aperta del grande oceano. Sarebbe stato in Grecia nel giro di pochi mesi.
Ma non poteva tornare. Ormai aveva capito cosa si nascondeva dietro quelle istruzioni confuse contenute nel plico con il sigillo del Santuario. Il Grande Sacerdote aveva voluto sbarazzarsi di lui. Era evidente che la missione di proteggere Cristoforo Colombo era una farsa. Il navigatore avrebbe scoperto quelle terre anche senza il suo aiuto, e la nuova era che quella scoperta aveva aperto per il Vecchio Mondo sarebbe iniziata ugualmente.
Serian si rese conto di essere stato solo uno strumento, un burattino, una pedina nel gioco del Grande Sacerdote, un gioco che non comprendeva ancora pienamente. Geloso della sua forza e della sua fama, e non potendo esiliarlo in quanto non aveva mai commesso alcun atto sacrilego, lo aveva allontanato, spedendolo all’altro capo del mondo e assicurandosi che non tornasse mai più. Aveva in mente qualcosa, un piano che avrebbe avuto in lui un ostacolo, se fosse stato presente.
Serian non poteva sapere quale fosse questo piano. Né riuscì a spiegarsi quell’ultima, enigmatica frase del Grande Sacerdote, il giorno che gli aveva affidato quella finta missione :
Di qualsiasi cosa si trattasse, non era certo il volere della Dea ad essere importante, ma quello del Grande Sacerdote. Athena non poteva volere che uno dei suoi cavalieri fosse cacciato, e morisse lontano dalla sua terra, senza aver mai commesso nulla di male, ed anzi essendosi distinto tra tutti i suoi pari, tanto da meritare il rispetto e l’ammirazione persino dei Santi d’Oro.
Le domande si susseguivano alle domande, i dubbi ai dubbi. E Serian pregò Athena che gli concedesse di vivere abbastanza da trovare le risposte.
Trascorsero ventisette anni.
PARTE SECONDA
Capitolo I. Cavalieri e
conquistadores
Atene, Santuario, 1516
- Venite avanti. -
Le grandi porte della sala del trono si aprirono. La figura del Grande Sacerdote assiso sul trono si intravedeva appena nella penombra.
Carlo V di Spagna era appena divenuto re dopo la morte di Ferdinando d’Aragona, suo nonno. Sapeva che presto, tramite legami dinastici e matrimoniali, avrebbe governato su mezza Europa, fino a farsi proclamare Imperatore del Sacro Romano Impero.
Ma voleva di più.
Quando il Grande Sacerdote lo aveva invitato al Santuario – invito che, in realtà, suonava più come una convocazione – lui aveva capito subito che non si sarebbe trattato solo dell’atto di omaggio che ogni sovrano del mondo conosciuto era obbligato a compiere nei confronti del Grande Tempio. Generalmente infatti si attendeva che il nuovo re potesse consolidare il proprio potere : troppi erano gli usurpatori che si impossessavano del trono e sparivano dopo poco tempo in congiure e lotte dinastiche.
Carlo V intuì che il Grande Sacerdote voleva qualcosa da lui. E forse in cambio gli avrebbe dato quel potere che tanto desiderava.
Il Grande Sacerdote lo fissò dritto negli occhi. E vi scorse una luce ben nota, la fiamma dell’ambizione.
Carlo V rimase esterrefatto. Quello che gli aveva promesso il Grande Sacerdote andava al di là di ogni sua più sfrenata ambizione. Un impero che si estendeva su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico, tanto grande che il sole che tramontava da una parte sarebbe sorto dall’altra, per tutti i giorni che Dio avrebbe mandato sulla terra.
- Ditemi cosa devo fare. -
Madrid, residenza privata di Jose del Capricorno, 1519
Il servo bussò alla porta dello studio. Jose stava per ritirarsi nelle sue stanze, esausto. Era stata una dura giornata. In città e a corte non si parlava d’altro che dell’imminente partenza di Hernan Cortés e Francisco Pizzarro per il Nuovo Mondo. Lui aveva raccolto quante più informazioni possibile sulla spedizione dei due capitani e sulle loro armate, sia in via ufficiale che non. Il Grande Sacerdote gli aveva chiesto un rapporto dettagliato nei minimi particolari, e con la massima urgenza. Questo gli era parso strano, perché di solito il Santuario non si intrometteva negli affari degli Stati del mondo, ma non aveva tempo di fermarsi a pensare. Aveva ricevuto un ordine, e doveva obbedire.
Quando il servo entrò, Jose sollevò appena gli occhi dalle carte che aveva davanti.
A Jose la stanchezza passò di colpo.
- Va bene, li vedrò subito. Puoi ritirarti per oggi. –
Il servo fece un inchino ed uscì, chiedendosi quale razza di affare fosse così urgente da non poter aspettare fino all’indomani. Segreti di Stato, si disse, scuotendo la testa e sbadigliando. Non era roba per lui.
Jose scese nel grande atrio del palazzo. Quando lo videro, i quattro uomini fecero per inginocchiarsi, ma lui li fermò con un cenno della testa e li fece entrare nel suo studio, chiudendo a chiave la porta.
Jose ruppe il sigillo e srotolò la lettera. Man mano che la leggeva il suo volto si fece sempre più serio.
Tenochtitlan, capitale dell’impero azteco, qualche mese dopo
Montezuma si spogliò dell’armatura ed indossò i suoi paramenti regali, tra i quali spiccava un largo copricapo fatto interamente con le verdi piume del quetzal.
Ai piedi della scalinata lo attendeva la portantina. Lui vi salì, ed assunse la posa sacrale a gambe incrociate.
L’inviato degli Dei era arrivato sulla spiaggia. E nel vederlo anche Montezuma del Quetzal, signore dei Cavalieri del Sole Nascente, provò un brivido di terrore.
Era esattamente come lo avevano descritto le profezie. Un essere con due teste e sei gambe, e una pelle luccicante come la luna piena. Una delle teste era come quella di un uomo, mentre l’altra non assomigliava a nulla che Montezuma avesse mai visto. L’essere aveva due braccia come gli uomini, e in una mano teneva un bastone di legno.
Se Serian di Orione fosse stato lì avrebbe potuto spiegare a Montezuma che quello era un soldato spagnolo in sella ad un cavallo, con indosso un’armatura di ferro ed un fucile in mano.
Ma Serian di Orione non c’era. Aveva lasciato Macchu Picchu molti anni prima, e nessuno sapeva dove fosse andato o dove si trovasse.
Montezuma si inchinò di fronte a colui che, come avrebbe imparato ben presto, altri non era che Hernan Cortés.
Cuzco, capitale dell’impero degli Incas, in quello stesso momento
Athualpa del Condor, vestito dei suoi paramenti regali, si tolse la corona, ed inginocchiatosi la depose ai piedi dell’inviato degli Dei.
Francisco Pizzarro lo guardò dall’alto in basso, e sorrise soddisfatto. Forse non avrebbe nemmeno dovuto combattere per conquistare quel regno. E se anche fosse stato necessario, era chiaro che gli indigeni non avrebbero potuto opporre una grande resistenza. Guardavano curiosi le armature di ferro, i robusti cavalli da guerra che ai loro occhi apparivano animali fantastici e mai visti, persino le ruote dei carri. Nella loro esperienza non esisteva nulla di paragonabile a quegli strani oggetti circolari, che giravano su se stessi come per magia.
Athualpa sollevò timidamente lo sguardo verso Francisco Pizzarro.
Preceduto da Athualpa, Pizzarro iniziò a salire la scalinata del palazzo reale. Ma un trambusto alle sue spalle lo fece voltare.
Un soldato spagnolo, desideroso di conoscere più intimamente la popolazione femminile locale, aveva afferrato una ragazza, cercando goffamente di baciarla. Un indigeno accanto a lei, probabilmente il suo promesso sposo, pensò che quella fosse un’ingerenza eccessiva, anche da parte di un essere divino, e si oppose decisamente.
Il soldato scoppiò in una fragorosa risata, imbracciò il fucile e sparò a bruciapelo sul giovane, centrandolo in pieno petto.
Il ragazzo lanciò un urlo lancinante e si accasciò a terra.
Tutta la popolazione si ritrasse terrorizzata. Proprio come dicevano le profezie, gli inviati degli Dei potevano scagliare lampi di fuoco dalle mani.
Pizzarro scrollò le spalle, sbuffando. Forse dopotutto avrebbe dovuto combattere.
Capitolo II. Sacrifici umani
Erano passati alcuni mesi. Le violenze degli Spagnoli sulla popolazione locale non si contavano più. Sia tra gli Aztechi che tra gli Incas regnava il terrore. Gli stranieri avevano portato anche nuove, terribili malattie, e la gente moriva come mosche.
Ormai al colmo della disperazione e della sopportazione, il popolo si rivolse a coloro che considerava i suoi protettori : i Cavalieri del Sole Nascente.
Montezuma del Quetzal, Kanes del Serpente Piumato e Xiu dell’Altare di Fuoco scesero in campo per primi, decisi a difendere il popolo azteco. Indossarono le loro armature, e bruciando il loro cosmo si prepararono alla battaglia.
Fu l’errore più grave della loro vita.
Jose del Capricorno uscì di corsa in strada. Yan e Relta montavano la guardia alla porta dell’alloggio che gli era stato assegnato.
I cinque cavalieri indossarono le loro armature, nascondendole sotto i loro normali abiti e celando gli elmi tra le pieghe dei vestiti.
Entrarono nel palazzo reale senza difficoltà, superando con un balzo le alte mura. Avvertivano chiaramente i tre cosmi sconosciuti nella sala del trono.
Procedettero in gruppo, con Jose alla testa, Relta e Yan ai lati e Lesia e Lino in retroguardia. I corridoi erano deserti. Non c’era anima viva, né Aztechi né Spagnoli.
Fu proprio l’assenza di questi ultimi a far preoccupare Jose. Sapeva che Cortés era partito per la costa, ma di certo doveva aver lasciato un presidio nel palazzo, insieme ad alcuni dei suoi capitani.
Anche la sala del trono risultò deserta. Ma poco lontano da loro echeggiò un grido agghiacciante.
Salita una breve scalinata, i cinque cavalieri uscirono su una terrazza che si trovava proprio al di sopra della sala del trono.
Arrivarono giusto in tempo per assistere all’esecuzione del primo soldato.
Ma lo spettacolo che avevano di fronte non era solo un’esecuzione. Era qualcosa di peggio.
Era un sacrificio umano.
Vestito della sua verde armatura, Montezuma del Quetzal trafisse il petto nudo del soldato con un pugnale di ossidiana, e il sangue che sgorgò a fiotti ne macchiò il brillante manico di giada. Poi infilò la mano destra nella ferita, e con un colpo secco estrasse il cuore ancora palpitante, sollevandolo al cielo.
La piccola folla che assisteva al rito, incitata da Kanes e Xiu, anche loro vestiti dell’armatura, proruppe in grida di trionfo. Nella mano di Montezuma, il cuore del soldato cominciò a bruciare, consumato dal calore del cosmo.
Altri soldati, le mani legate dietro la schiena, attendevano di subire la stessa sorte.
Montezuma stava per scegliere la seconda vittima quando Jose si fece avanti, seguito dai quattro cavalieri d’argento.
Per tutta risposta Jose si liberò dei vestiti, rivelando l’armatura nascosta sotto di essi, subito imitato dagli altri.
Montezuma, Kanes e Xiu non avevano mai conosciuto nulla di paragonabile al cosmo di un Cavaliere d’Oro, e rimasero atterriti nel constatarne la potenza.
La cosa non sfuggì ai quattro cavalieri d’argento.
Tutti si voltarono nella direzione dalla quale era venuta quella voce.
Serian di Orione apparve sulla terrazza, vestito della sua armatura d’argento.
Jose del Capricorno fissò Serian, e sul suo viso si delineò un sorriso di trionfo.
L’aveva trovato.
Nel plico con gli ordini del Grande Sacerdote che gli avevano portato i cavalieri d’argento era scritto a chiare lettere :
Partirai per il Nuovo Mondo, e porterai con te i Silver Saints latori di questi ordini. Là giunti cercherete notizie di Serian di Orione, il Silver Saint scomparso ventisette anni fa, del quale Io non ho più saputo nulla. Se doveste scoprire che è morto, portatene una prova. Se fosse ancora vivo, uccidetelo e portatemi la sua testa. In entrambi i casi la Silver Cloth di Orione dovrà essere riportata al Grande Tempio.
. . .
Questa era una domanda che, in effetti, Jose non si era posto. Doveva eseguire un ordine, e non si era mai preoccupato di pensarci sopra. In ogni caso il tradimento di Serian doveva essere punito.
Ma come faceva il Grande Sacerdote a sapere che Serian era passato al nemico ?
E soprattutto, come faceva a sapere che esisteva un nemico ?
Erano passati solo alcuni mesi da quando Hernan Cortés e gli Spagnoli avevano scoperto l’esistenza del popolo degli Aztechi, così come, molto più a sud, Francisco Pizzarro aveva scoperto il popolo degli Incas. E risaliva a pochi momenti prima la rivelazione che anche nel Nuovo Mondo esistevano sacri cavalieri, vestiti di armature e dotati di un cosmo.
Come poteva il Grande Sacerdote essere al corrente di tutto questo ?
Quelle riflessioni furono interrotte da Serian.
Jose prese il plico con gli ordini del Grande Sacerdote, e rilesse le ultime righe.
Ovunque arriverete, dovrete far rispettare la giustizia di Athena. Così vuole la Dea.
Non ci capiva più niente. Anche Serian aveva ricevuto le stesse istruzioni, ventisette anni prima ? E cosa significava quella frase ?
Lui frenò l’impazienza dei cavalieri d’argento con un gesto della mano. Dall’altra parte, Montezuma, Kanes e Xiu rimanevano immobili, in attesa. Non potevano capire cosa Serian stesse dicendo al potente cavaliere dall’armatura dorata, ma avevano visto che l’arroganza e la sicurezza che costui aveva mostrato al suo arrivo erano svanite, sostituite dall’incertezza e dal dubbio.
Jose si avvicinò a Serian, e gli porse il plico del Santuario. Serian lo scorse velocemente, soffermandosi sulle ultime righe.
Jose invece non capiva. Sentiva che la risposta era lì, vicina, quasi ovvia. Ma non riusciva ad afferrarla.
- Spero che lo capirete presto anche Voi. E quando questo avverrà, ci rincontreremo. -
Serian si accostò ai tre Cavalieri del Sole Nascente.
- Amici, andiamocene di qui. Per oggi, noi tutti vivremo. Per quanto ancora, non lo so. -
Insieme a Montezuma, Kanes e Xiu, Serian corse verso la scalinata, e scomparve nei labirintici corridoi del palazzo.
I soldati spagnoli, che mai più avrebbero sperato di avere il cuore ancora al suo posto nel petto, erano troppo terrorizzati per disobbedire. Jose e gli altri ripresero i loro abiti e se ne andarono, mentre il sole ormai tramontava sulla città degli Aztechi.
Capitolo III. Battaglia nella città sacra
Macchu Picchu, estate 1520
Tenochtitlan, qualche giorno dopo
Era più di un anno che si trovavano a Tenochtitlan. I quattro cavalieri d’argento erano impazienti di combattere. Al pari degli Spagnoli, che erano totalmente convinti della propria superiorità nei confronti della popolazione locale, essi erano sicuri di poter facilmente prevalere sui Cavalieri del Sole Nascente. Temevano molto di più Serian di Orione : avevano trascorso gli anni dell’addestramento ascoltando i racconti delle sue imprese, e lo consideravano già una leggenda, benché fosse, almeno nominalmente, un loro parigrado.
Erano alloggiati nel piccolo palazzo che era stato messo a disposizione di Jose. Il Cavaliere d’Oro li aveva presentati come la sua scorta personale, una copertura perfetta dal momento che, per tutti, lui era l’ambasciatore in Spagna di uno Stato straniero non meglio precisato. E a chi gli avesse chiesto cosa ci facesse nel Nuovo Mondo lui avrebbe mostrato una lettera firmata dell’Imperatore Carlo V, che gli concedeva totale libertà di movimento e d’azione, purché non in contrasto e anzi a vantaggio della Spagna.
Quella lettera era stata una delle prime cose che il Grande Sacerdote aveva chiesto a Carlo V, dopo avergli spiegato che intendeva mandare Jose nel Nuovo Mondo. Il Cavaliere d’Oro del Capricorno era al corrente dell’incontro avvenuto tra il suo signore e l’imperatore, ma naturalmente non poteva sapere cosa si fossero detti.
L’impazienza dei cavalieri d’argento era giustificata. Anche lui non vedeva l’ora che quella missione fosse finita. Aspettare senza far nulla era peggio, molto peggio che combattere.
Vestiti con normali abiti civili, Jose e i cavalieri d’argento entrarono nel palazzo reale, e si diressero subito verso la sala del trono. Gli Spagnoli avevano aperto una breccia nel muro di fondo, e scoperto una stanza segreta.
La stanza del tesoro.
Era piena d’oro, quasi fino al soffitto. Le stime fatte per quantificare quella ricchezza erano probabilmente molto al di sotto della realtà. Ci era voluto quasi un anno per svuotarla completamente e dividere il tesoro in parti uguali, una per Cortés, una per l’imperatore e la terza per i soldati.
Ora che la stanza era quasi vuota, si potevano vedere strani simboli scolpiti sulle pareti. Mentre i soldati portavano via l’oro, gli storici al seguito di Cortés, incaricati di scrivere la storia della spedizione, cercavano di decifrare quei segni misteriosi.
Jose ordinò ai cavalieri d’argento di aspettare fuori, ed entrò nella stanza.
Un lampo passò negli occhi di Jose.
Jose poté studiare gli appunti e i disegni già il giorno seguente. Si chiuse nella sua stanza, e quando ne uscì chiamò subito i cavalieri d’argento.
Macchu Picchu, due giorni dopo
I soldati di guardia alle porte esterne della città tentarono vanamente di fermare Jose, Yan, Relta, Lesia e Lino. Il Cavaliere d’Oro del Capricorno lasciò che fossero gli altri ad occuparsene, ed osservò indifferente la breve lotta.
Dall’alto del palazzo, Montezuma vide i soldati cadere, ed avvampò d’ira.
Kanes, Xiu, Itza ed Athualpa, obbedendo al comando del loro signore, scesero in un lampo nella città, la loro città. La battaglia stava per iniziare.
Il sole sorse dietro le montagne. Non vi erano nuvole nel cielo a velarne lo splendore, eppure poco dopo iniziò a piovere.
I cavalieri d’argento sapevano già cosa fare. Avrebbero affrontato i Cavalieri del Sole Nascente, per permettere a Jose di arrivare a palazzo senza fastidi. Là il Cavaliere d’Oro del Capricorno avrebbe ritrovato Serian e punito il suo tradimento.
Lesia della Freccia si diresse verso una delle grandi piramidi. Vi girò intorno, attento ad ogni movimento. Ma non guardò in alto, e scorse troppo tardi un’ombra in agguato su una sporgenza.
Il nemico gli saltò addosso, gettandolo a terra. Lui lo spinse lontano con un calcio e si rimise in piedi. Per il momento aveva riportato solo qualche livido, e si dispose ad affrontare il cavaliere, che indossava un’armatura rossa.
Xiu alzò le difese per parare quella pioggia di frecce, ma poi si rese conto che erano solamente illusioni.
Lesia insisteva nell’attacco, e Xiu si accorse per un pelo che in mezzo alle frecce illusorie ce n’era anche una reale. D’istinto saltò all’ indietro, un attimo prima che la freccia gli si piantasse nella coscia, l’unico punto della gamba non protetto dall’armatura.
Dalle mani di Xiu si originò un fascio di energia cosmica che, puntando verso Lesia, si divise in una miriade di smeraldi acuminati.
Lesia era giovane, ma non stupido. Il colpo segreto di Xiu non sembrava pericoloso, a prima vista : di certo c’era qualcosa dietro, proprio come nel caso delle sue frecce fantasma.
Un po’ parando l’attacco e un po’ scansandosi, riuscì ad evitare di essere colpito dagli smeraldi. Xiu stava tentando lo stesso trucco che sperava di usare lui.
I due colpi si scontrarono a mezz’aria. Entrambi i cavalieri spingevano al massimo della loro forza. Chi avesse ceduto per primo sarebbe stato travolto.
Fu Xiu a crollare. Il Cavaliere del Sole Nascente sentì che la pressione di Lesia stava aumentando, e non riuscì più a contenerla. Sbattuto contro i gradoni della piramide, non riuscì a rialzarsi in tempo, e la freccia gli si piantò nello stomaco, tra la cintura e il pettorale dell’armatura.
Lesia si avvicinò a lui, le difese alzate casomai riuscisse a tentare un ultimo attacco. Lo vide perdere i cinque sensi, uno ad uno, ed infine chiudere per sempre gli occhi, ma al tempo stesso sorridere soddisfatto.
Qualche secondo dopo, Lesia comprese la ragione di quel beffardo sorriso. Avvertì un terribile bruciore, e scoprì che uno smeraldo gli era rimasto attaccato sull’armatura. Con orrore vide la corazza sciogliersi, e con essa le sue carni, mentre tutto il suo corpo veniva avvolto da una fiamma.
Un attimo dopo, Lesia della Freccia, cavaliere d’argento del Grande Tempio di Athena, si era trasformato in una mummia rinsecchita, ancora ironicamente vestita dell’armatura, sulla quale era posato uno smeraldo verde.
Yan dello Scudo stava percorrendo un viale fiancheggiato da cespugli, oltre i quali bassi altari di forma quadrangolare spuntavano tra l’erba, come massi erratici gettati lì a caso dal capriccio degli Dei. Il viale terminava di fronte ad una delle piramidi a gradoni, e fu a piedi della scalinata che il cavaliere d’argento incontrò il suo avversario.
Yan scattò all’attacco, ma Kanes era veloce, e lo evitò, una, due, tre volte. Yan però non demordeva, e i suoi affondi erano sempre più precisi. Kanes capì che non poteva evitarlo per sempre : era il momento di contrattaccare.
Chiuse la mano destra a pugno e scagliò un colpo, protendendosi in avanti per dare una maggiore spinta all’attacco con tutto il peso del proprio corpo. Vide che Yan sollevava il braccio destro, protetto da uno scudo di forma oblunga : si muoveva lentamente, quasi a sfidarlo, beffandosi di lui. Sicuro della forza del proprio colpo, Kanes continuò la sua corsa.
Ma l’attacco si infranse contro lo scudo di Yan, che ne assorbì completamente l’impatto. Il cavaliere d’argento approfittò dell’attimo di sconcerto dell’avversario e lo colpì con un calcio, gettandolo lontano e mandandolo lungo disteso.
Prima che Kanes potesse rimettersi in piedi, Yan spiccò un salto in aria, e piombò su di lui girando vorticosamente su se stesso. Quell’attacco a mulinello colpì in pieno petto il Cavaliere del Sole Nascente, scavando un buco nelle pietre della pavimentazione, nel quale Kanes sprofondò.
Ma lui non era tipo da arrendersi così presto. Sebbene un po’ malfermo sulle gambe, emerse dal buco, e si scagliò nuovamente contro Yan.
Kanes scagliò un altro colpo. Yan si riparò dietro allo scudo, ma così facendo non vide che l’avversario si era fatto più vicino. D’istinto parò il pugno sinistro di Kanes con la mano aperta, ma ora era impossibilitato ad usare lo scudo. Attaccò prima che l’altro potesse approfittare dell’occasione, ma il suo pugno venne fermato dalla mano di Kanes.
Ora i due cavalieri erano bloccati uno contro l’altro. Le opposte spinte creavano scintille di energia cosmica tra di loro.
Afferrandosi ancora più saldamente a Kanes, Yan spiccò un salto in aria, trascinando con sé il Cavaliere del Sole Nascente. Senza mollare la presa, lo tempestò di calci, e lo lasciò andare solo quando gli parve che stesse per cedere.
Fu un gravissimo errore.
Sebbene ferito e con l’armatura ormai a pezzi, Kanes scagliò il suo colpo segreto.
Yan venne investito in pieno dall’attacco, e il sacro serpente piumato degli Aztechi si arrotolò intorno a lui. Nell’armatura d’argento si aprirono profonde crepe, e lui sentì che le sue ossa venivano ridotte in poltiglia. Sputò un fiotto di sangue, e il serpente sciolse la stretta mortale, che aveva già fatto un’altra vittima.
Yan crollò in ginocchio. Aveva ferite su tutto il corpo, e il sangue che ne usciva sgorgò dalle crepe dell’armatura, confondendosi con il rosso della corazza.
Il cavaliere d’argento volse il suo ultimo sguardo all’avversario, come a dire che si sarebbero rivisti tra non molto, e si abbatté al suolo.
Poco più in là, Kanes strisciò verso la piramide, tamponandosi la ferita con le mani e usando le sue ultime forze per issarsi sui gradini della scalinata. Morì in quella posizione.
Lino dell’Arpa oltrepassò le porte che immettevano nella cinta più interna della città. I blocchi delle mura erano intervallati da mascheroni di pietra a testa di giaguaro.
Lino li osservò distrattamente, ma poi ne vide uno i cui occhi brillavano di una luce rossa.
Con viva sorpresa del santo d’argento dal muro uscì l’intero corpo di un giaguaro di pietra. La belva divenne poi un felino maculato in carne ed ossa, ed un ruggito annunciò la sua ultima trasformazione : un cavaliere vestito di un’armatura arancione a strisce nere.
Lino pizzicò qualche corda dell’arpa, provocando una nuova risata di scherno da parte di Itza.
Per tutta risposta Lino iniziò a suonare, dapprima lentamente, poi in un improvviso crescendo.
Itza rise ancora, ed attaccò. Ma rimase sconcertato quando si accorse che la sua capacità di movimento era ridotta al minimo.
E Itza vide che le note lo avvolgevano per davvero. Le linee del pentagramma, originatesi dall’arpa stessa, affondavano nelle sue carni, spezzando anche l’armatura.
Lino continuava a suonare, e più suonava più i legami si stringevano.
Dando fondo a tutte le sue energie, Itza bruciò il proprio cosmo.
Tutti i fili si spezzarono. Tutti, tranne uno.
Ma per Lino era sufficiente.
Itza aveva meno di un secondo. Sollevò il braccio, e alle sue spalle apparve l’immagine del felino di cui portava il nome.
L’ultima nota iniziò la sua corsa mortale. Ma Lino, concentrato sull’attacco, non fece in tempo a difendersi, e subì il colpo in pieno. L’armatura d’argento venne perforata, e tre profondi graffi, lunghi dal collo allo stomaco, apparvero sulla corazza.
Lino barcollò, incespicò e cadde all’indietro, sbattendo contro i blocchi che sorreggevano la porta. Priva di sostegno, la porta crollò su se stessa, e la grande architrave si abbatté su di lui, seppellendolo.
Itza ebbe appena il tempo di abbozzare un mezzo sorriso. L’ultima nota arrivò a destinazione, spaccandogli il cuore.
IV. Il tramonto del sole
Relta della Croce del Sud seguì Jose dentro il palazzo principale di Macchu Picchu. Qualche gruppetto di guardie tentò vanamente di fermarli, finendo come previsto massacrato. Il santo d’argento, che provava un profondo rispetto per qualsiasi Cavaliere d’Oro e per Jose del Capricorno in particolare, non avrebbe mai permesso che il nobile guerriero si abbassasse ad usare i suoi colpi contro dei semplici soldati.
Dopo un’interminabile serie di svolte imboccarono un ampio corridoio, al fondo del quale si intravedeva la sala del trono. Ma prima che potessero arrivarvi dovettero difendersi da un attacco improvviso.
Nel buio del corridoio una grande forma alata calò su di loro con uno stridio acuto. Il condor aveva ali così grandi che quasi toccavano le pareti, e protese in avanti gli artigli affilatissimi, mirando al volto dei due cavalieri.
Jose intuì che avevano di fronte un altro Cavaliere del Sole Nascente. Evitò facilmente l’attacco e proseguì verso la sala del trono.
Jose non si curò di rispondere a quella vanteria. Eppure Relta doveva aver avvertito i cosmi dei suoi compagni spegnersi. Il Cavaliere d’Oro del Capricorno si chiese se fosse davvero necessario sacrificare ben quattro cavalieri d’argento solo per uccidere Serian di Orione e riportarne l’armatura al Santuario. Ripensò alle parole del Grande Sacerdote : "far rispettare la giustizia di Athena". Nel loro ultimo incontro, Serian gli aveva promesso che si sarebbero rivisti solo quando anche lui ne avesse compreso il significato.
Jose l’aveva capito. Ma aveva pur sempre una missione da compiere.
Proseguì verso la sala del trono, incurante della lotta mortale che si era accesa alle sue spalle.
Visti vani i suoi attacchi, il condor si trasformò in un cavaliere dall’armatura nera, con ampie ali piumate e un elmo conformato a testa di rapace.
Athualpa non si fece pregare. Allargò le braccia, imitando le movenze di un uccello che si accinge a spiccare il volo. Alle sue spalle il cosmo di colore nero assunse la forma del condor.
Era un colpo scagliato con entrambe le mani, e di notevole potenza. Relta alzò le difese, ma fu inutile. Venne scaraventato lontano, e l’elmo rotolò sul pavimento con un acuto rumore metallico, provocando un’eco che si propagò per i corridoi deserti.
Rimessosi in piedi, Relta assunse la sua posa d’attacco, con le braccia a croce davanti al petto.
Anche le difese di Athualpa risultarono inefficaci. Il Cavaliere del Sole Nascente subì in pieno l’attacco di Relta, e si ritrovò con uno squarcio a forma di croce sul pettorale dell’armatura.
Ma non era ancora sconfitto.
Relta contava proprio su questo. Usare due volte lo stesso colpo contro lo stesso cavaliere era una mossa sbagliatissima, perché permetteva di predisporre per tempo adeguate contromisure che rendevano del tutto vano l’attacco.
Relta si preparò a parare il colpo. Seguiva con attenzione i movimenti di Athualpa, ma quando la tempesta si sollevò non lo vide più. Non aveva però tempo di chiedersi dove fosse, perché doveva comunque difendersi.
Alzò le braccia e bloccò facilmente l’attacco. Ma dietro il turbinio della tempesta apparve Athualpa, trasformatosi nuovamente in condor. Questa volta il rapace attaccò con il becco, e aiutandosi con le grandi ali si gettò in picchiata contro Relta, centrandolo in pieno petto.
Incredulo, Relta vide una crepa allargarsi sull’armatura, e il sangue sgorgare immediatamente dalla ferita. Cadde all’indietro e si abbatté sul pavimento, scavando un buco profondo alcuni centimetri. Le braccia larghe, sembrava davvero una croce, ormai abbattuta.
Athualpa non poté gioire a lungo della vittoria. La vista gli si annebbiò, le gambe gli cedettero e crollò vicino a Relta. Essendo già ferito, lo sforzo del nuovo attacco e della trasformazione gli era stato fatale.
Jose entrò nella sala del trono. Dalle grandi finestre si poteva vedere il rosso sole del tramonto colorare di una tonalità sanguigna le candide nubi.
Al centro della parete di fondo, seduto su un alto scranno, stava l’ultimo avversario.
Vestito dell’armatura d’argento di Orione, Serian entrò nella sala del trono, e si pose a fianco di Montezuma.
Montezuma bruciò il suo cosmo. Per quanto vasto e potente, esso era poco o nulla a paragonare di quello di Jose del Capricorno.
Serian lo sapeva benissimo, e tentò l’ultima carta rimastagli. Era una mossa disperata, ma proprio per questo forse poteva funzionare.
Il cavaliere d’argento e il Cavaliere del Sole Nascente erano uniti. Uniti da un’amicizia più vasta dell’oceano che divideva i loro mondi, più forte delle differenze delle loro terre d’origine. Dopo tanti anni passati in solitudine, trascorsi in una semplice capanna in riva al mare, affacciata su quelle onde che lo avevano portato per sempre lontano da casa, Serian di Orione era tornato per difendere quella che era divenuta la sua nuova patria, a fianco dei suoi amici. Non provava disprezzo per Jose del Capricorno, perché si era reso conto che non aveva potuto agire diversamente. Sapeva che, se anche lo avesse vinto, forse non sarebbe servito a niente. Forse il destino era già scritto. Forse il giorno seguente il sole si sarebbe levato su un mondo devastato, violato, distrutto per sempre. Forse era tutto inutile.
Ma avrebbe tentato comunque.
Jose era preparato ad un attacco combinato, e nel suo sguardo passò un muto riconoscimento per il coraggio e l’onore mostrato dai due cavalieri. Parò prima il colpo di Serian, poi quello di Montezuma, senza indietreggiare di un passo. Li respinse entrambi solo con il suo cosmo.
Poi attaccò.
Serian si buttò in avanti, e fu il primo a ricevere in pieno petto la Sacra Spada. La lama di Excalibur era così affilata che dopo averlo trapassato non fermò la sua corsa, ma si piantò dritta nel cuore di Montezuma, spaccandolo in due come una mela.
I due cavalieri si accasciarono a terra. Serian riuscì ancora a sorreggersi sulle braccia per un attimo, e rivolse il suo ultimo sguardo a Jose del Capricorno.
- Promettetemi…promettetemi che combatterete per Athena. –
- Te lo prometto…nobile Serian di Orione. –
In quel momento il rosso sole tramontò dietro la montagna che vegliava su Macchu Picchu.
V. La follia del Grande Sacerdote
Atene, Santuario, alcuni mesi dopo
Jose non era disposto a sottomettersi alle regole. Non più. Non sarebbero stati dei semplici soldati a fermarlo.
Il solo gesto di levare in alto il braccio li indusse a correre via come lepri. Erano spaventati, perché lo conoscevano come una persona cortese e dai modi gentili, e non lo avevano mai visto così pieno di rabbia.
Jose entrò nella sala del trono, e chiuse le enormi porte di bronzo.
Avanzò nella penombra. I suoi passi non producevano alcun rumore, attutiti dal soffice tappeto rosso.
Giunto di fronte al trono, non si inchinò né si tolse l’elmo.
La figura sul trono, avvolta nelle sacre vesti, lo degnò appena di uno sguardo. Con fare ieratico si mosse, discese i pochi gradini e si piazzò di fronte a lui, fissandolo negli occhi.
A Jose parve che l’inespressiva maschera d’argento avesse un che di minaccioso. Ma scacciò subito quel pensiero. Doveva restare calmo.
- Mi hai portato la prova che ti ho chiesto ? Serian di Orione è morto ? –
- Vi ho portato la sua armatura, racchiusa nello scrigno d’argento. Quanto a lui, chi può dire se sia morto o vivo ? –
- Ti stai burlando di me, Jose ? Sappi che un simile atto di insubordinazione non sarà tollerato. Se persevererai con questo atteggiamento subirai una punizione tremenda. –
- Non temo alcuna punizione da parte vostra. Voi, piuttosto, dovrete temere l’ira di Athena. –
- Come osi ? Tu, un cavaliere, osi minacciare me, che sono Grande Sacerdote ? –
- Ebbene sì. Io oso. Oso perché nessun altro ha mai osato. Oso perché avrebbe osato Serian di Orione, quando avesse scoperto i vostri piani. Avete usato il nome della Dea Athena per conquistare il Nuovo Mondo, avete parlato di giustizia per accumulare oro e ricchezze, per essere più potente di quanto già non siate. Non vi basta governare sul mondo intero con l’autorità ed il prestigio. No, voi volete il potere. Il potere e la ricchezza. –
- E con questo ? Cosa c’è di male nel desiderare il potere, e nel prenderselo se se ne ha la possibilità ? Viviamo in un mondo dove solo i più forti sopravvivono. E’ sempre stato e sarà sempre così ! –
- E’ proprio un ragionamento degno di voi…Cavaliere d’Oro di Cancer ! –
Jose scagliò un colpo con il pugno, ma il Grande Sacerdote lo bloccò con la mano aperta e lo respinse.
Jose rotolò sul pavimento. Rimessosi in piedi, vide il Grande Sacerdote liberarsi delle sacre vesti e alzare una mano al cielo.
L’Armatura d’Oro della costellazione del Cancro apparve nella sala, illuminandola con il suo fulgore. I pezzi si separarono, disponendosi sul corpo del Cavaliere d’Oro.
Jose bruciò il suo cosmo d’oro, immediatamente imitato da Taras.
La Sacra Spada Excalibur era in grado di tagliare qualunque cosa, anche il cosmo stesso. Ma per quanto venisse colpito, Taras non desisteva nel suo attacco.
Era vero. Jose attaccava e si difendeva, si difendeva e attaccava. Ferì seriamente Taras una, due, tre volte, perché Excalibur poteva superare anche una difesa solida come un’Armatura d’Oro, pur senza produrre danni visibili sulla corazza.
Ma Taras aveva ragione. La Morte non si poteva fermare. Benché ferito, il Cavaliere d’Oro del Cancro aveva ancora energie.
E Jose subì in pieno il terrificante potere degli Strati di Spirito. L’onda infernale originatasi dalla Nebulosa Presepe, cuore pulsante della costellazione del Cancro, lo investì con una forza inaudita, strappandogli l’anima dal corpo come la corteccia viene strappata dal tronco di un albero.
Quando lo vide morto ai suoi piedi, e vide l’azzurra fiamma dell’anima dirigersi per sempre verso il luogo del non ritorno, Taras proruppe in un selvaggio grido di vittoria.
Quando l’eco del suo grido si spense, sul palazzo del Grande Sacerdote calò un silenzio di morte.
E in quel silenzio Taras udì chiaramente i passi di qualcuno che si stava avvicinando.
- Chi c’è ? –
Nessuna risposta.
- Chi sei ? Rivelati ! -
Ma i passi erano sempre più vicini, e sembrava impossibile capire da quale direzione provenissero.
Un’esplosione cosmica quale non si era mai vista al Santuario si scatenò nella sala del trono, distruggendola completamente. Il trono fu sbalzato via dalla sua sede, e venne scagliato addosso a Taras, che non poté evitarlo.
Rimessosi in piedi, il Cavaliere d’Oro del Cancro si sentì trascinare da una forza immensa, e innegabilmente superiore alla sua. Incapace di qualsiasi reazione, guidato da fili invisibili come una marionetta, si ritrovò di fronte alla grande statua di Athena.
E allora capì.
Quel cosmo del quale non si era mai sentito l’uguale era il cosmo di Athena, che sorgeva direttamente dalla statua.
La sacra effigie parlò, e la sua voce risultò spaventosa a colui che un attimo prima aveva identificato se stesso con la Morte.
Ancora incapace di qualsiasi movimento, Taras vide l’Armatura d’Oro della costellazione del Cancro staccarsi dal suo corpo, pezzo per pezzo. Prima un gambale, poi un bracciale, poi via via gli altri pezzi. Compostasi nella forma del granchio, la corazza sparì nel cielo : divenne un puntino luminoso tra le stelle della notte e poi scomparve del tutto.
La voce di Athena continuò, e una nuova condanna si abbatté su Taras
Questa volta fu Taras a sentirsi come se gli stessero strappando l’anima. Si rotolò per terra urlando di dolore, mentre dal suo corpo sorgeva un’alta colonna di luce dorata. La luce venne assorbita dal grande scudo che la statua di Athena reggeva con la mano.
Infine Athena pronunciò la condanna definitiva.
Taras non poté più nemmeno gridare. Divenne polvere, e ciò che restava di lui venne disperso dal vento della notte.
VI. Epilogo
Il cavaliere d’argento dell’Altare, Primo Ministro del Santuario, aveva assunto la reggenza dopo la morte del Grande Sacerdote. Come reggente aveva la possibilità, in via del tutto eccezionale, di convocare il Chrisos Sunaghein. In quell’occasione avrebbe passato, sempre in via temporanea, il potere al Cavaliere d’Oro della Bilancia, il più alto in grado dopo il Grande Sacerdote stesso. Il Custode della Settima Casa era infatti l’unico che, in caso di morte del supremo signore del Santuario e di concomitante assenza di una fanciulla reincarnazione di Athena, avesse il potere di nominare un successore.
Il Gold Saint di Libra prese lo Scettro di Nike dalle mani del Primo Ministro, e si voltò verso i suoi compagni Cavalieri d’Oro. Sarebbe stato suo pieno diritto autonominarsi Grande Sacerdote, ma non lo fece. Lasciò correre a lungo lo sguardo sugli astanti, senza soffermarsi su nessuno in particolare. Era impossibile capire solo dai suoi gesti chi sarebbe stato il prescelto.
Finalmente, dopo un lungo silenzio, Libra parlò :
Era una scelta storica. Fin da quando Athena aveva istituito la carica di Grande Sacerdote non era mai avvenuto che il supremo seggio fosse occupato dal Custode della Seconda Casa.
Primo atto del nuovo Grande Sacerdote fu di dare degna sepoltura a Serian di Orione e agli altri cavalieri d’argento. Non fu però possibile riportarne i corpi al Santuario, ed essi vennero sepolti in vari luoghi del Nuovo Mondo, il più possibile selvaggi o almeno difficilmente raggiungibili, affinché nessuno venisse a turbare il loro sonno. Solo Serian di Orione ebbe l’onore di una sepoltura in un cimitero. Fu l’ultimo omaggio che venne tributato a colui che era stato chiamato il più valente cavaliere della Storia. Col passare dei secoli il suo nome e le sue gesta caddero nell’oblio e infine vennero dimenticati del tutto.
Il Grande Sacerdote regnò per oltre duecento anni. Non si segnalò per nessuna iniziativa particolare, né in senso buono né in senso cattivo. Era un’anima semplice, un brav’uomo e nulla più, e proprio per questo Libra lo aveva scelto. Era necessario ritrovare l’equilibrio perduto del Santuario, dopo le pericolose oscillazioni causate da Taras di Cancer.
Negli ultimi anni però, forse a causa della vecchiaia, il Grande Sacerdote prese a fidarsi sempre più del nuovo Cavaliere d’Oro della Vergine, un giovane di nome Tien-Zin, fino ad affidargli il governo completo del Santuario. E nessuno si stupì quando lo nominò ufficialmente suo successore, sebbene vi fossero altri tre candidati che potevano legittimamente aspirare al trono : Sion dell’Ariete, Dauko della Bilancia e Adam dello Scorpione.
Tempio di Discordia, epoca presente
Come Serian, anche Yan, Relta, Lesia e Lino erano stati risvegliati dal loro sonno eterno. Un cosmo sconosciuto e potente li aveva guidati in quel luogo dalle loro tombe sparse per il Nuovo Mondo, che ormai non era più tale.
Mentre Yan, Relta, Lesia e Lino riflettevano sulle parole di Serian una luce abbagliante illuminò quello strano tempio nato dalla montagna. Avvicinandosi, i cinque cavalieri videro che la luce proveniva da una mela d’oro.
Poi apparve una fanciulla dai capelli biondi, e prese in mano la mela. Dietro di lei, legata ad un altare, stava una giovane donna dalle lunghe chiome viola, vestita di un bianco abito.
Seguito dagli altri, Serian si avvicinò alla Dea oscura e si inchinò ai suoi piedi.
Lesia fu il primo a presentarsi. Lino fu il secondo, ma prima che potesse aprire bocca Discordia lo interruppe.
Lino capì che sarebbe stato poco saggio dire la verità, e un rapido sguardo in direzione di Serian lo convinse del tutto.
- Sì, sono Orfeo, musico della Lira. -
Anche Yan e Relta si presentarono. Serian venne per ultimo.
Di lì a poco, una battaglia nuova, e altrettanto sfortunata, attendeva coloro che un tempo erano stati cavalieri d’argento di Athena.