Autore
: AxiaGenere: Introspettivo, Slice of live
Personaggi Principali: Icarus Touma; Marin dell’Aquila; Artemis
Altri Personaggi: Saori-Atena e Aioria di Leo solo nominati
Rating: verde
In proposito: Aveva desiderato. Si era illuso. Ed era precipitato. Come Icaro. Icaro. Un nome; il suo nome. Quello con cui Artemis lo aveva chiamato per la prima volta quando le ali si erano materializzate in lunghe piume flessuose intessute d’acqua e di cosmo.
Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^
Note: one shot; missing moments
Cose: Ho cambiato millanta volte il personaggio; ho iniziato quattro storie diverse; e le ho cestinate. Il fatto è che il promt mi piaceva; mi piaceva troppo; e non riuscivo a decidermi. Chi mi conosce sa bene che con la mitologia ci vado a nozze, e proporre un concorso con il mito per fulcro è per me come dare da bere a un alcolizzato ubriaco.
Il problema, tuttavia, era quel benedetto personaggio e quindi il mito di riferimento. Poi, mentre elucubravo a vuoto, mi sono rivista l’Overture al Tenkai, giusto per riempire uno spazio morto. È scattata la scintilla.
E questo è il risultato.
Dimentica la cera e le piume,
e costruisci ali più solide.
Stanley Kubrick
Apteros
Le ali delle gru sono bianche.
Lunghe piume fruscianti nel suono ritmico della danza; il collo elegante proteso verso l’alto. E l’incedere; quell’incedere altero e indifferente, simile allo sfilare del soldato, o all’epifania di un dio.
Hanno ali lunghe e colli flessuosi, le gru. E nel volteggiare bianco l’azzurro di zampe intessute d’oro stagliarsi contro colonne infuocate. C’è quel suono, sullo sfondo, il battere cupo e ritmico del tamburo e poi la malinconica cadenza del flauto.
Sono bianche le ali delle gru.
Lenti movimenti che scandiscono una preghiera di pace, le piume a fremere nell’aria tintinnante di aprile, il tepore del sole sulla pelle e le grandi ali aprirsi in lenti cerchi di armonia.
Asakusa Kannon lo si respira nell’odore penetrante dell’incenso, nel fruscio di seta e nella biacca di volti che invidiano compassata indifferenza con gli occhi dal taglio sottile rifiniti di nero e sulle labbra un bocciolo rosso; come lo sbuffo di sangue sulla testa della gru.
E c’è quel tamburo, il suo cadenzare lento che scandisce passi. E poi. Poi cresce, frenetico, ritmico, ossessivo, assieme alle ali, al frusciare di piume di stoffa e cartone che si agitano convulse nella piazza, fra coriandoli di petali e sbattere di braccia che ricordano il disperato tentativo di non affogare, fino all’ultimo raffinato spasmo.
Poi il tamburo tace, i campanelli si quietano; le grandi ali ripiegarsi lungo il corpo, perdendo la grazia di un istante, lo slancio armonioso di membra e corpi e mente verso il cielo, oltre il cielo.
Nel silenzio degli applausi la teoria lungo il Nakamise-dori è un brivido che stringe lo stomaco, simile alla chiazza verde che si intravede laggiù, oltre la porta Kaminarimon.
Touma respira piano.
Sulla pelle riavverte la sensazione irreale di piume e l’ebbrezza del volo nei cieli; sulla pelle indovina il ricordo dell’acqua scivolare fredda fra gli intarsi dell’armatura, lungo la tessiture invisibile delle ali che lo avevano sostenuto nella sua scalata al cielo.
E poi.
Poi c’è il bruciore. Il bruciore di una ferita che sarà sempre dolore e rimpianto; il bruciore del ricordo di una freccia che lacera carni e metallo. Il bruciore di occhi del colore pungente del cipresso, la disincantata malinconia che vi aveva imparato a riconoscere.
Artemis.
Aveva danzato per lei.
Per la sua compiacenza e per la sua vittoria; per la sfumatura di dolcezza in quella voce impalpabile, simile al mormorio di un ruscello di montagna. Aveva danzato per il suo piacere una danza di amore e dedizione, una danza di aria e argento, le vesti a frusciare nei cieli, il fremito di membra a lungo costrette all’immobilità.
Aveva danzato per lei. Come una gru.
C’era stato l’orgoglio, in quella danza, la sua consacrazione.
Negli occhi di Artemis, in quel suo primo timido volo, nel primordiale dispiegarsi delle sue ali nei cieli immoti di quel mondo fatto di torri di oricalco e xantos, Touma aveva visto riflesso negli occhi di Artemis il compiacimento e un indecifrabile senso di possesso.
Aveva amato quegli occhi.
Aveva amato la nostalgia che vi scorgeva e la violenza stanca che li incendiava; aveva amato il modo in cui lo guardavano, sospesi fra egoismo e desiderio. C’era fame, negli occhi di Artemis. Una fame profonda, viscerale, atavica. La fame selvaggia della dea che era abituata a correre libera per vette inviolate; la fame del predatore che persegue la sua preda. La circonda; e poi la divora.
Artemis era la cacciatrice; e lui. Lui era stata la preda tanto ambita, l’uomo elevato al suo fianco, l’uomo disposto ad amarla, ad adorarla. L’uomo che le aveva fatto ricordare, in quella dedizione che sfiorava la blasfemia, che era ossessione prepotente e primordiale, ferina, la sfacciataggine di altri occhi, la follia di un altro sguardo che aveva osato desiderarla.
Touma si era chiesto chi vedesse Artemis in lui.
Si era chiesto di chi fosse il corpo che immaginava di accarezzare; a chi appartenessero le ali che gli lisciava, una lenta sensuale carezza che sapeva di gesti lasciati sbiadire nei secoli. Si era chiesto se guardasse i suoi occhi nella maschera che gli celava il viso, o se cercasse altri occhi, altro desiderio, altra devozione.
Per mesi; per i lunghi mesi di quella snervante iniziazione, quanto la sola compagnia era il tintinnio doloroso di una campanella e il crepuscolo perenne di un mondo che sembrava ancorarsi con tutto se stesso ad un presente statico; per quei lunghi mesi in cui l’incoscienza e la determinazione si erano mescolati alla follia e al delirio; per quei mesi che erano trascorsi in anni e condensatisi in ore di lento stillicidio, Touma aveva immaginato.
Aveva tentato di comprendere, di intuire, il serafico distacco di quella donna, di quella dea, che lo aveva raccolto in grembo nella confusione di un delirio di febbre e sfinimento.
Aveva immaginato; e aveva odiato.
Lo sguardo di un uomo mai conosciuto; la struggente gelosia che gli divorava la mente; il passato precluso alla sua conoscenza. Il passato di Artemis; e il suo passato.
Perché s’era stato un passato, nella sua vita, prima di Artemis. Un passato fatto di tintinnio di campanelle e del crepitio di risate; un passato sbiadito con la sua determinazione, con la sua volontà di travalicare i cieli e salire ancora, fino agli dei. Oltre gli dei.
Aveva detestato quel passato.
Aveva odiato i ricordi che lo tenevano ancorato al suolo, pesante e sofferente. Aveva odiato la frustrazione per il desiderio insopprimibile per il cielo; e il dolore delle braccia che ogni volta ricadevano a terra, sempre più deboli e stanche, sempre più gonfie e sgraziate.
Aveva odiato. Se stesso e la propria incapacità.
E ci si era aggrappato come un naufrago, vi aveva affondato i denti e le unghie come una pernice che difende il nido. Desiderava gli dei, desiderava essere degno di Artemis e condividere con lei la fierezza di quegli occhi antichi che conoscono e non tremano, cui è sconosciuta l’aspirazione e la delusione.
Aveva desiderato. Si era illuso. Ed era precipitato.
Come Icaro.
Icaro.
Un nome; il suo nome. Quello con cui Artemis lo aveva chiamato per la prima volta quando le ali si erano materializzate in lunghe piume flessuose intessute d’acqua e di cosmo. Il nome con cui lo accarezzava, la voce un sospiro sottile che sapeva di pericolosa concessione.
Icaro gli aveva detto, mentre lo accoglieva nel cielo, mentre le catene d’argento si mutavano in polvere di luce e una corazza di adamante e zaffiro lo rivestiva, forte di cosmo e di libertà conquistata.
Icaro aveva ripetuto Artemis, nel fulgore del cosmo e della luna. Questo sarà il tuo nome. Perché mi sei sacro aveva sussurrato in una carezza leggera che sapeva di nostalgia e un sorriso antico come falce di luna.
In quel volo era morto; ed era rinato.
"Touma."
La Ko-Omote lo osserva, il disegno sottile degli occhi sfuma nel bianco e il bocciolo rosso delle labbra possiede un miscuglio di conturbante grazia e di piccata insofferenza.
Touma sorride.
Marin. Dietro il sorriso nero della maschera, nella punta di apprensione nella piega del mento , nei petali intrappolati nei capelli, c’era Marin. C’era sua sorella.
Neesan.
Touma soffia la parola fra le labbra. Non l’ha ancora chiamata così; non l’ha più chiamata neesan da quando si è ritrovato senza le sue braccia a stringerlo e con una campanella ad ossessionarlo. Non sa nemmeno se la chiamerà mai più così, ma è felice.
Felice che lei lo sfiori in una carezza discreta; felice che cerchi di indovinare la sua stanchezza o il disagio; felice che lo costringa a seguirla, con quel modo di fare che è solo di Marin, la ruvidezza del soldato mescolata a discreta attenzione.
Il Dembo-in è silenzio e riflessi iridescenti sull’acqua. Nel frusciare lieve di aceri e glicini, il guizzo di una carpa koi si espande all’infinito, dilatando le percezioni e creando una piccola increspatura contro il fondo scuro dell’acqua.
Touma si appoggiò al parapetto di pietra del ponticello.
"È bello qui" respira con calma, mormorando le parole con lo sciabordio dell’acqua. "Sa di nostalgia."
Ed è un istante.
Nel mormorio sommesso dell’acqua, recupera la striscia luminosa di un fiume correre in una vallata verde, dal profumo di ulive e di fichi maturati al sole. Ha in bocca sapore di miele e una vertigine che gli strappa il respiro, mentre l’acqua del laghetto abbaglia.
È azzurra. Di un blu intenso che strazia il cuore. E lui se lo sente nella gola, nei polmoni, quel colore che gli impedisce di respirare. Ed è caldo. Caldo come le sabbie ardenti dei deserti; caldo come il sole; caldo come il cosmo di Artemis.
C’è la luce, dietro quel velo azzurro che lo vuole soffocare. Una luce forte e vivida, di una forza tale da accecarlo. È bianca, quella luce. Bianca come la luna; quella luna immane che lo vegliava indifferente nella sua prigione di vento e infinito.
C’era la luna, in quei giorni consumati uguali, e l’eco di parole che si ostinava a dimenticare, il sussurro di promesse che si intestardiva a voler ignorare.
C’era la luna, nei suoi deliri e nelle sue notti consumate insonni; la luna grande piena e bianca come una maschera. Come la maschera dai contorni indefiniti che lo osserva, l’ombra di labbra scure nella fessura nera e il guizzo preoccupato di occhi nel taglio sottile delle iridi.
Marin.
"Dicevi?" le chiede con un sorriso sottile sul viso all’improvviso troppo pallido, pregando di nascondere il tremito della voce. C’è il corpo di Marin accanto al suo. Quel corpo solido e caldo e forte, scoglio sicuro contro la debolezza delle sue membra non ancora guarite, contro lo spaesamento delle sue sicurezze frantumate.
C’è la sicurezza nei gesti di sua sorella, nel modo in cui gli offre aiuto senza imporglielo. Nella caparbietà con cui cerca di recuperare un fratello a lungo rincorso come si è ostinata a fare fin da quel primo momento in cui ha preteso che si ricordasse di lei.
Cos’è la consapevolezza?
Per Touma è sapere di aver perso qualcosa di unico e prezioso, qualcosa che né il tempo né la volontà potranno restituirgli. È sapere che Marin sarà per sempre sua sorella e un’estranea; cercare nelle sue parole l’ombra di un uomo, di un cavaliere, mai conosciuto e le ferite di un corpo che non ha visto crescere assieme al suo.
Consapevolezza è la caduta a terra dopo quel volo che lo aveva portato oltre i cieli; è scoprirsi nello stesso punto da cui si era partiti e non riuscire più a riconoscersi e a decidere se c’è stato qualcosa, anche un solo istante, che valesse ogni sofferenza, ogni rimpianto.
"L’acqua" ripete Marin. "Quando eri piccolo. Ti piaceva."
Ed è una sensazione rubata al tempo, una complicità che sfuma nel lampo di un ciliegio in fiore, una risata timida e la carezza della seta sul viso.
Marin ricorda.
In quella vita fatta di battaglie e rinunce; in quella vita in cui l’obbedire viene prima del volere, in cui è volere, Marin si è tenuta stretta il dolore di pochi istanti sopravvissuti nella memoria. È cresciuta, forgiata da solitudine e determinazione, e ha scelto la muta lenta agonia di una ricerca quasi senza speranza pur di giustificare la propria ritrosia, pur di dare un senso ai pochi frammenti cui si aggrappava febbricitante.
E io? Io cosa ho fatto?
Di ricordi non ne ha.
Estirpati dalla ferocia e dall’ambizione; lasciati svanire nel cosmo che cresceva libero e potente sotto i raggi della luna signora. Eppure. Eppure adesso li rivorrebbe indietro. Vorrebbe recuperare il profumo di sua madre o il sapore della strada; vorrebbe sentire ancora il calore dell’abbraccio di una bimba poco più grande di lui e il suono di una campanella in stanze piene di silenzi e disperazione. Gli basterebbe anche il dolore delle percosse ricevute.
Qualsiasi cosa.
Qualsiasi cosa pur di sentirsi ancora vivo. Vivo.
E non quello sfiancante senso di abbandono e disorientamento; non la sensazione di aver perso qualcosa, il dolore lancinante di qualcosa strappato a forza dalla sua carne viva.
Vorrebbe ricordare.
Vorrebbe ricordare il viso di sua sorella.
"Non mi mostrerai mai il tuo viso. Vero?"
Doveva essere una preghiera; doveva essere una supplica, il patetico tentativo di un ragazzino che si credeva uomo di riappropriarsi di qualcosa, di qualsiasi cosa che gli conceda tregua e riposo. Per un istante almeno, Touma vorrebbe davvero rivedere nel viso ormai adulto di Marin i tratti infantili di una bambina; e vorrebbe ritrovare se stesso in quel viso.
Il bambino che a volte gli trafigge la testa con il suo pianto disperato, alto e acuto come lo stridio delle gru.
Doveva essere una speranza, e anche una straziante consapevolezza.
Marin tace, il bel viso di porcellana immobile. Ha capito; negli occhi disperati di Touma, in quella richiesta troppo veloce, quasi precipitata dalle labbra, ha riconosciuto urgenza e terrore, ha intuito strazio e dolore.
Ma c’è anche la consapevolezza, in quelle parole. La sicurezza di una delusione attesa, la quieta rassegnazione di chi si accorge che, comunque, qualcosa è mutato e nulla potrà riportare indietro i legami smarriti fra scelte di volontà e ostinazioni.
"E tu non mi mostrerai mai le tue ali. Ne?"
Touma ride piano, un gorgoglio nella gola.
Delle ali conquistate; delle belle ali ampie di cosmo e trama d’acqua sottile rimane una sola profonda cicatrice sulla schiena, una bruciatura di cosmo e delusione. Ed è quella ferita, assieme al ricordo ossessivo dello sguardo di Artemis, a bruciarli più della ferita al petto.
Perché non c’era sorpresa negli occhi di Artemis.
Non c’era rabbia o dispiacere, nemmeno dolore. C’era solo tranquilla consapevolezza di un gesto, di un oltraggio che Artemis sembrava aspettare da sempre.
Fin da quel primo istante in cui lo aveva accolto, lui semplice essere umano, fra le schiere dei suoi prediletti; fin da quella prima notte in cui gli era apparsa ammantata di cosmo e gli aveva offerto la curiosità di una sfida al cielo e agli dei; fin dal primo respiro nella morsa dell’oricalco in cui gli aveva concesso di scegliere fra obbedienza e orgoglio; fin dal principio Artemis sapeva.
Aveva sempre saputo che lui l’avrebbe tradita.
Lo aveva letto nei suoi occhi, profondi come le più intricate foreste; lo aveva letto nella piega stanca di una bocca abituata un tempo a lanciare l’urlo del cacciatore; lo aveva intuito nel fremito di membra che avevano conosciuto la libertà della corsa primordiale accanto ai lupi feroci e ai cervi nobili.
Mentre la freccia gli straziava le carni; mentre il cosmo splendente di Artemis lo avvolgeva spietato e indifferente; mentre le braccia di Atena sovrana lo sorreggevano e il sangue era la consapevolezza di quell’umanità mai davvero voluta abbandonare, Touma aveva guardato Artemis.
L’aveva guardata con nelle parole una supplica che sfiorava la blasfemia; l’aveva pregata nel cosmo che sfrigolava impotente verso il dissolvimento; l’aveva amata per quel destino che gli aveva offerto.
L’aveva guardata; e negli occhi antichi e immoti, in quegli occhi in cui aveva sempre scorto stanca indifferenza, aveva visto la rassegnazione di un antico tradimento, aveva ritrovato il dolore di uno strazio già affrontato.
L’aveva guardata e aveva visto se stesso negli occhi di Artemis e il riflesso di un altro uomo, di un ragazzo come lui. Dalle ali ormai strappate.
C’era una danza, negli occhi di Artemis.
C’era il vorticare di piume e il ritmo cadenzato di una spirale che si contorceva simile al serpente. E c’erano i colori intensi del mare e di una città senza mura, la porpora di forti colonne lignee e l’armonia di un palazzo adagiato su una collina, il pigro declinare di terrazzamenti verso il mare.
C’era il miele, nei ricordi di Artemis. L’oro del miele in brocche di creta e la frenesia di ritmi veloci, del seno nudo di donne con i capezzoli tinti di rosso. C’era il muggito potente di un toro nell’aria e l’odore acre del sudore e della polvere rossa dell’arena.
Nella bella Cnosso della labris di bronzo e del labirinto di volteggi sensuali tutto era rosso. Rosse le colonne possenti; rosse le melograne offerte in dono; rosse le labbra e i seni piene delle donne; rosso il sangue delle vittime del sacrificio.
Sarebbe stato rosso anche il sangue del ragazzo che danzava nel labirinto, le lunghe ali dispiegate sulle sue braccia lucide di olio e di cera. Aveva occhi di cielo e il sorriso sfacciato della giovinezza, lui nato da una schiava e un artista, lui fuggito da Atene signora del mare, lui accolto in seno ad una terra primordiale, dolce abbraccio di dea antica e fiera.
Lui. Ikaros.
Ikaros dalle ali d’acqua intessute del miele offerto agli dei, offerto a quella sola dea che lo contemplava e lo rivendicava a sé. Perché era per lei che Ikaros danzava; era per lei che Ikaros batteva ritmico il piede per terra; era per lei che Ikaros imitava, inesperto, l’erotismo di una danza sfrenata di vita e fertilità.
Ed era per lei che era morto, in quell’ultimo sublime volo sospeso fra cielo e mare; in quel tendersi spasmodico di membra vigorose che avrebbero dato alla terra di Creta e vita e prosperità future.
Aveva pianto Artemis splendente per quel ragazzo strappatole troppo presto.
Aveva pianto per le ali che gli aveva donato e per l’aspirazione insensata al calore del sole che covava nel cuore. Aveva pianto per un re fanciullo destinato alla morte e vissuto un giorno come un’eternità, nell’ebbrezza inebriante della vita che arde di fuoco sacro.
Aveva pianto il bimbo offertole sulle pendici boscose dello Iuktas, il bimbo cresciuto per l’altare e il sacrificio. Lo aveva amato; come madre, come donna, come dea. Lo aveva amato e lo aveva lasciato morire per risentirlo nella terra ad ogni respiro, per riassaporare la sua risata nel sibilo del vento, per ricordarne la forza nei flutti impetuosi del mare che investono Creta signora.
Lo aveva perso concedendogli un ultimo estremo agognato volo a sfidare la sorte e la vita. E sapeva; sapeva che ali di cera e piume di pernice non sarebbero bastate. Sapeva che il Sole lo avrebbe disilluso con la ferocia del suo calore e gli avrebbe donato una morte crudele nell’acqua profonda e scura, come la notte senza luna. Come quella sola unica notte in cui Artemis lo aveva cullato fra le sue braccia, bimbo umano offerto ad una dea vergine e selvaggia, ad una dea che conosceva i dolori del parto e la ferocia di madri simili a leonesse per la prole.
Ikaros l’aveva tradita, aspirando al sole; e lei, Artemis dall’arco d’argento, Artemis facile all’ira, si era lasciata tradire, contemplando l’arco armonioso di un ragazzo troppo vicino ad una dea.
C’era la rassegnata consapevolezza dell’inevitabile negli occhi di Artemis quando Touma aveva osato guardarla. C’erano i ricordi di un viso lasciato sbiadire nei suoi pensieri e l’illusione coltivata con feroce inganno nel proprio cuore di un nuovo Icaro al suo fianco. Dell’affetto o forse dell’amore per un ragazzo che l’avrebbe tradita e le avrebbe regalato il ricordo di un emozione, di un dolore tanto lacerante da lasciarla priva di lacrime da versare.
Di quell’ultimo intenso sguardo, di quelle parole mai pronunciate, di un grazie che né Artemis avrebbe mai concesso né Icaro avrebbe mai accettato di pronunciare, a Touma restava solo un’ustione sulla schiena, lì dove Artemis gli aveva strappato con le sue mani quell’unica ala che si era radicata nel suo corpo umano.
Era stato il dolore, il sangue e il rimpianto di occhi di lauro lucente prima dell’oblio.
"Non ho più ali" soffia alla fine. "Non ho più nulla che mi leghi a lei."
"E lo rimpiangi."
Touma storce la bocca in una smorfia.
Lo rimpiangeva? Aveva scelto di salvare Atena, ma non aveva mai voluto tradire Artemis. Ancora, di notte, la cercava nelle ombre argentate della luna, nel fruscio di una foglia, negli occhi verdi di ogni gatto che incontrava. Avrebbe voluto rivederla; avrebbe voluto piegare di nuovo il ginocchio a terra per lei e restare così, ad ascoltare il respiro eterno del mondo, ad ascoltare il battito del proprio cuore e il cosmo freddo di Artemis, intessuto del profumo di terra e muschio.
Avrebbe voluto.
"Tornerai da lei?" gli chiede Marin, un tremito nella voce che voleva essere indifferente.
Touma sospira.
Artemis gli aveva dato ali per volare nei cieli e superare gli dei; gli aveva dato fiducia e lucore di cosmo indomito; gli aveva offerto l’infinito e le aspirazioni che travalicano la mente dell’uomo. Gli aveva dato tutto, anche la libertà di tradirla.
E poi lo aveva lasciato precipitare.
Adesso, delle ali di cosmo e determinazione rimanevano il formicolio della perdita e il dolce malinconico rimpianto della distanza creata. Adesso, Touma sapeva che per ritrovare lo splendore di Artemis avrebbe dovuto imparare altre ali, fatte di orgoglio umano e aspirazione simile alla blasfemia.
Ma c’era anche la sicurezza di un viso senza espressione; c’era il conforto del tintinnio di una campanella; c’era la terra sotto ai suoi piedi, salda e sicura.
"Forse" sussurra alla fine. "Un giorno."
Un giorno. Con nuove ali.
Note conclusive
Accanto alla lettura religiosa, si pone quella psicologica, con il complesso di Icaro inteso come aspirazione umana a valicare i propri limiti, interpretazione patologica di quello che è il simbolismo racchiuso nel mito stesso e che costituisce il peccato di hybris commesso dall’Icaro mitologico (nella fanfic, la parola è stata tradotta con orgoglio).