Autore
: AxiaGenere: Introspettivo, Malinconico, Slice of live
Personaggi Principali: Atena; Efesto
Altri Personaggi: una maschera
Rating: Arancione
In proposito: Sono nata di Sciroforione. Oggi sarebbe fra giugno e luglio. Sono nata nella vampa dell’estate, fra i vicoli stretti dei fabbri e dei calderai; nell’invocazione per la Scirade dal viso d’ebano.
Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^
Note: one shot; missing moments
Cose: volevo un personaggio che permanesse nel corso della storia; volevo lo sguardo di qualcuno che avesse attraversato il tempo. E allora le scelte obbligate ricadevano su Atena e Pegaso. E non mi aggradavano. E poi: mi è venuto in mente un oggetto. Spesso presente, che non conosce l’assoluto dei fatti, ma che da sempre è accanto ad Atena. E così ho trovato la mia storia.
Nascondi chi sono,
e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni.
William Shakespeare, La dodicesima notte I 2
Mnemon
Sono nata di Sciroforione.
Oggi sarebbe fra giugno e luglio.
Sono nata nella vampa dell’estate, fra i vicoli stretti dei fabbri e dei calderai; nell’invocazione per la Scirade dal viso d’ebano.
Oggi non ci sono statue cui inneggiare; né dei da adorare. Oggi della mia casa natale restano ricordi che scolorano all’ombra di rocchi di pietra grigia.
Ma io ricordo. E nei miei occhi c’è un mondo fulgido di armi e valore; nella mia bocca le parole di uomini che hanno riscritto il destino; nel mio viso le generazioni future.
Io ricordo.
Dicevano che l’avesse vista nascere, fra gli ulivi e le tamerici di un lago remoto, azzurro come i suoi occhi antichi.
Dicevano che fosse per dispregio verso la sua nascita che la madre lo aveva generato nel fuoco dell’ira; e del fuoco ne aveva fatto il signore.
Dicevano che non avesse padre, come lei era da sempre orfana di madre.
Dicevano che la bellezza gli risiedesse nelle mani, grandi e callose e bruciate dal fuoco e dalla fatica; come di lei fosse fulgido il volto e raffinata la mente.
Dicevano.
Gli uomini hanno mente versatile, facile alla lusinga e all’inganno. E amano immaginare. I tempi di un’età svanita nello scroscio impetuoso dell’acqua; gli scontri su una terra vergine per la conquista del cielo; le verdi pendici d’Olimpo salire nei nembi soffusi a racchiudere palazzi d’oro e oricalco.
Dicevano.
E non pensavano a un uomo dal petto villoso e dal volto scurito dalla vampa; non pensavano alla folta barba scura bagnata di sudore e fatica; non immaginavano il digrignare di denti fra labbra carnose screpolate dalla calura della fucina.
Perché degli dei gli uomini conoscono solo la bellezza eterea e luminosa; perché degli dei l’uomo teme il sorriso arcano e sottile, la piega irriverente fra condiscendenza e disprezzo. Perché degli dei ignorano la mente sfuggente e immaginano l’algida alterigia.
Ma l’uomo che riverberava nel calore afoso della fucina; l’uomo dal respiro affannoso del battere ritmico del martello pesante; l’uomo coperto di lucido sudore. Quell’uomo. Il fabbro di una bottega qualunque all’ombra di scarne colonne doriche; quel fabbro di parole sfuggenti e lavori mirabili fra i vicoli stretti del Kolonos agoraion.
Quell’uomo.
"Ti stavo aspettando."
Aveva una voce forte, bassa e cupa come l’eco del martello sul ferro incandescente. Nella bottega calda di fuoco e metallo, quella voce suonava simile al rimbombo della terra, all’urlo del mare che si infrange possente sulle scogliere. Non era mai stato abile con le parole; brusco, a tratti sgarbato; più avvezzo ad impartire gli ordini nel calore della fucina che gli incendiava gli occhi piuttosto che a lusingare. Eppure. Eppure in quei gesti secchi, nell’arco ritmico del braccio che si alzava e si abbassava possente vi era grazia, un’armonia sottile e contorta. L’eleganza dell’artigiano che impone la bellezza nella materia informe. L’eleganza del dio che plasma dal nulla.
"Lo so."
Cos’è la complicità? Forse l’ombra di sorriso che sfiora le labbra; forse quel leggero singulto di sbuffo soffocato. Forse semplicemente il guardarsi e riconoscere, in membra umane legate dal tempo, la piega fugace del collo, il gesto sufficiente di una mano, l’inclinarsi fra docile e condiscendente della testa, in quel gesto accennato visto in un altro volto, in un altro corpo. Eppure la sensazione. Come l’elettricità del fulmine, come il riverbero di cosmo in occhi troppo alteri per essere di uomo.
Forse la complicità è semplice risonanza; di sangue antico che si riconosce, a dispetto di sembianze mutate e giochi mai dismessi.
"Glauko" soffiò l’uomo, abbandonando contro l’incudine il maglio. "Hai scelto un ragazzo che ti somiglia nel nome."
"Gli sei affezionato?"
Il sudore ha un sapore strano, vicino alla fornace; anche la polvere di ferro ha un sapore strano. Raschia nella gola simile allo sfrigolare della resina nel fuoco. E fissare le fiamme e fissare il ferro che si arroventa sono sensazioni così lontane, sono abitudini così umane.
"Lo sono" ammise alla fine l’uomo, piegando le mani sulle ginocchia muscolose. "È un bravo ragazzo."
Dov’è ora? chiedevano gli occhi. Dove? con l’urgenza mascherata in occhiate sufficienti al rettangolo luminoso della porta; con le mani contratte sul grembiule di cuoio e la fretta del pensiero trattenuta in un corpo troppo assuefatto alla solitudine per ricordare il fremito della paura e dell’attesa.
"Non gli farò del male. Mi conosci" gli sorrise.
Sì. Sì la conosceva. L’aveva riconosciuta subito, anche sotto quel viso maschile. L’aspettava, ed era venuta. Con il passo sicuro e la fronte alta del suo orgoglio; con la serena luminosità in quegli occhi azzurri di mare.
La conosceva. Ma.
Gluako.
Il taglio allungato degli occhi maliziosi sotto i capelli ribelli e lunghi; il corpo acerbo dell’adolescenza e l’ombra incerta della maturità sul viso. Il tono della voce, ancora perfuso di accenti infantili, così insinuante, quasi una cantilena che ride.
Glauko.
Quel suo modo di incedere, fra la danza e l’impaccio, troppo esile ancora per essere un guerriero e troppo gracile per essere un fabbro. Se avesse potuto. Se solo avesse potuto, lo avrebbe preso con sé, come allievo. L’avrebbe allevato come quel figlio mai abbracciato; lo avrebbe cresciuto nella frescura delle grotte marine, al riverbero di fiamme eterne che ardono dei riflessi dell’oro e dell’oricalco che vi si discioglie. Gli avrebbe insegnato la sua arte: i gioielli mirabili di oro fulvo e le armi istoriate d’avorio splendente. Gli avrebbe insegnato la maestria di ingranaggi complessi e la perfezione di intrecci sottili come la seta. Gli avrebbe insegnato.
Gluako.
Gluako figlio di Thyrsos; Glauko figlio di un pescatore e di una levatrice; Gluako destinato alla morte quando dal mare navi di Persia avrebbero tinto di rosso le spiagge di Salamina guardiana. Presto. Troppo presto. E di quel corpo inesperto di vita sarebbe rimasta la cenere sulla pira e la spada, bella, suo dono, piegata nel fuoco che un tempo l’aveva forgiata.
Gluako. Si ripetè, e la mano fremette nel gesto di sollevarsi, nell’abitudine ad una carezza ruvida e inesperta. Non è Glauko ricordò, e il gesto rimase sospeso, fra l’aria e il calore, nel vociare confuso dei vicoli di Atene signora.
"Me lo restituirai?"
"Questa sera. Al tramonto" assentì, la dolcezza nella voce ancora infantile. "Verrà da te. E avrà da raccontarti un sogno meraviglioso." Gli occhi sfuggirono verso la luce accecante del sole del meriggio; verso quell’unica finestra lassù, in alto, nella parete annerita dal fumo. "Morirà per me. Almeno un’illusione glielo posso donare."
"Non è il primo, Atena."
"No. Non lo è, Efesto" sospirò Atena; e il viso restò immobile. Quel viso abituato al peso dell’elmo crestato; quel viso che soggioga sul campo con il vibrare della lancia di frassino. Efesto lo vide, quel viso perfetto tremolare sotto le fattezze del ragazzo. Lo vide e vi vide il dolore della consapevolezza. Vi lesse la sofferenza della sovrana che ha scelta la guerra per costruire una pace sempre effimera e sempre insoddisfacente; della madre che alleva figli destinati a perire sotto i suoi occhi. Vi vide la forza, in quel viso, Efesto signore del fuoco, e vi vide il cupo doloroso strazio di un cuore che aveva imparato l’uomo e la sua mutabile seducente inconsistenza.
Vide Efesto, e ricordò l’urlo di una dea nata armata; quell’urlo possente come il clangore del metallo nella battaglia; quell’urlo straziante come i threnoi gettati al cielo crudele e spietato. Cosa aveva urlato Atena signora alla sua nascita? La forza della guerriera o lo strazio della donna?
"Soffrirai. Ogni volta" le ricordò, le labbra a sussurrare fra la folta barba bruna, un sospiro trattenuto nel petto possente.
"Lo so" gli concesse Atena con un sorriso placido, con la muta rassegnata accettazione di una scelta compiuta forse per orgoglio forse per inesperienza. E con il tempo virata in quieta consapevolezza: di non poter tradire; di non poter abbandonare chi accetta la morte con il suo nome sulle labbra, con il suo viso negli occhi. Con una preghiera alla sua gloria gorgogliante nella gola senza più respiro.
"Lo so. E lo accetto."
Efesto annuì.
"Sarai sola" le disse, alzandosi possente nella penombra calda dal sapore di ferro e ulivo. "Per quanti uomini ti siano fedeli; per quanti secoli potranno passare. Sarai sola, Atena."
"L’ho scelto, Efesto. Lo sai. L’ho scelto."
Sì. Si lo hai scelto.
Lo sapeva lei, e lo sapeva lui. E la mano si distese fino allo stipite sbecciato, si strinse contro la pietra grezza e gli occhi ardenti di fiamme la guardarono. E videro oltre le sembianze umane di ragazzo ancora bambino; videro negli occhi verdi i riflessi glucopidi di Atena signora e quel sorriso sottile, di orgogliosa consapevolezza piegare le labbra carnose. La guardò Efesto domatore di vampa e seppe che il fuoco di Atena, la luce che bruciava nel suo cosmo ardente, non avrebbe mai potuto assoggettarla. E rimase in piedi, a sovrastare il corpo gracile di un bambino; rimase in piedi, il cosmo a lambire un gesto mai concesso, a condividere una consapevolezza rimasta inespressa.
"Avrebbe potuto essere diverso" soffiò Efesto con distrazione. In quel silenzio di sguardi consapevoli e gesti abbandonati, le parole suonarono roche e inusuali. L’impacciata gentilezza e la timida consolazione di un uomo avvezzo al maglio e non alla raffinatezza della retorica. Eppure. Eppure Atena sorrise nel viso fanciullo, gli occhi socchiusi nell’assaporare quell’invito inaspettato e così familiare. Parole dal sapore dolce di ore trascorse fra colonne antiche, in cieli inviolati; parole dal suono di incenso che arde nei braceri di bronzo. Parole di un uomo, di un dio, che forse l’aveva amata forse solo desiderata.
"Sì. Avrebbe potuto."
Quella volta.
Se quella volta Efesto avesse chiesto a Zeus sovrano la mano di Atena dall’elmo lucente; se quella volta lei non si fosse sottratta al suo abbraccio, irruente e voglioso. Se quella volta. Quella volta.
Non è accaduto.
E Afrodite dall’aureo trono ha condiviso il letto dell’abile Efesto; e il talamo alto, di legno intarsiato profumato d’olivo, è rimasto vuoto di un amplesso strappato con la forza.
Non è accaduto.
E il figlio nato dal dio e dalla Terra è cresciuto all’ombra delle colonne d’Atene; e il figlio è stato cullato nell’egida d’oro di una madre vergine e benigna. Erittonio. Figlio senza madre; figlio del fuoco e della nera terra nutrice di genti; figlio di Atena dal seno di bronzo.
"Ma non lo è stato" sospirò Atena, nella voce forse il rimpianto di una vita non conosciuta; nella voce forse la malinconia di quel figlio allevato e visto morire col tempo; nella voce la carezza di mani che hanno scelto di non conoscere né uomini né dei.
"Già. Non lo è stato."
Era caldo, nella fucina annerita dal fumo. Era caldo e silenzio del ferro che si arroventa, spandendo nell’aria l’odore acre del metallo e della brace. Era caldo fra le strade di Atene, nell’aria immota del meriggio che si va macchiando dei papaveri e della ginestra.
Era caldo quando Efesto si voltò, la testa in un invito discreto verso il pergolato sul retro. Era caldo quando Atena lo seguì, la grazia di donna e la forza del guerriero nell’incedere sempre solenne. Era caldo quando il vino di Lemno, dal dolce profumo di resina e mare, riempì le coppe smaltate e i pensieri lasciati vagare.
Era caldo quando Efesto distese sul tavolo rozzo, di legno appena piallato, l’involto di grezza lana tinto di porpora. Era caldo, e Atena avvertì quel calore fremerle nelle mani raccolte sulla stoffa, scorrere come eccitazione nel corpo.
"L’ho completata. Come la desideravi" le disse, la bocca premuta contro la coppa e il gusto del vino mielato sulla lingua. "Come la userai?"
"Per custodire un uomo" sussurrò Atena, nel fruscio nella lana che scivola sul viso di oricalco e avorio. Nel frinio delle cicale, la maschera si svelò nei risvolti di porpora, perfetta: gli occhi di rubino iridescente, il contorno raffinato di lucido scuro colore.
Atena ne accarezzò il profilo con la punta del dito. Delicata e assieme possessiva. Ne saggiava il lavoro mirabile, gli sbalzi ad arte levigati dal fuoco e lucidati dall’olio, il profilo assoluto di un volto inespressivo. E sentire il cosmo crepitare nel meriggio e l’eco di una risonanza nel metallo fra le mani, all’improvviso caldo, molle e malleabile come cera; sentire la propria mente pervadere la maschera e gli occhi restituirle altri occhi, altri tempi, altre vite. Sentire.
In quell’istante; in quell’unico solo respiro, Atena vide.
E seppe.
Ade signore d’eserciti sfidarla su una terra priva di sole; Posidone domatore di cavalli scuotere il mare in cerca di una rivincita per ostinazione; il tempo fluire senza ritorno, con nella sabbia le vite infrante e i rimpianti vissuti, con nei ricordi gli onori conquistati e le scelte orgogliose intraprese.
Seppe.
Seppe il viso di un uomo carico di anni. Il peso di un ruolo accettato con orgoglio e determinazione; e nella mente risuonò un nome: Sage.
Sage del Cancro; Sage Sacerdote d’astuzia.
Vide il trono. Il seggio di Grecia diviso fra fratelli che hanno rivaleggiato con gli dei e gli uomini. La determinazione di strategie contro generali d’Inferni, per distruggere un sogno di amore troppo intenso per non essere oscuro. Vide le sue decisioni ingannate per umiltà, la maschera e l’elmo alato scambiato con le alte vette innevate.
Vide la vita, di Sage devoto, e la bimba da lui allevata in vesti di croco. E ne vide la morte, all’ombra di un portale, negli occhi la determinazione, nel cuore la volontà. Vide il sacrificio per un sigillo imposto col sangue e il sorriso spegnersi nei riflessi d’argento di una corazza infranta.
Vide.
Vide l’inaffidabilità sottile e irriverente di Shion dell’Ariete.
Le sue decisioni improvvise e i secoli consumati nella solitudine dei templi, raccontando nelle crepe e nelle ricostruzioni guerre mai dimenticate e morti mai davvero accettate. Vide il sorriso nascosto nel viso inespressivo e la spada brillare, lucida di oro e oricalco, al fulgore delle stelle di Grecia.
Sentì.
La consapevolezza di una morte necessaria per Lei, per un amore troppo profondo per accettare il dolore. Anche di una dea. La leggerezza di parole giocate in un ruolo troppo stretto e il rimpianto di un viso infantile lasciato. Lo strazio e la dolcezza dell’abbandono e il riposo agognato, assieme a compagni finalmente ritrovati.
Sentì. Di Shion d’Ariete la profonda umana incapacità e la determinazione ostinata al rispetto della Sua volontà.
E le lacrime.
Le lacrime mute su un viso ancora bambino; sul viso distorto e nella mente confusa di un cavaliere; di un uomo che per Lei aveva scelto la morte alla vita di strazio. La dolcezza di occhi di mare sfumati di rosso; l’affetto di mani insanguinate accarezzarla con l’amore pungente dell’infanticidio nella mente.
Le lacrime di Saga di Gemini, le lacrime di un uomo troppo orgoglioso e troppo umano per non soffrire di una bambina destinata all’arena.
Ne vide il ginocchio piegato a Crono dominatore del tempo, la mente forte nell’inganno costruito; l’arroganza o forse la blasfemia di piegare un dio ai propri voleri. Per Lei.
Per Lei che si era sentito strappare dalle mani; per lei che era pronta ad uccidere, il dolore celato nella maschera di sacerdote.
E vide quella stessa maschera precipitare a terra dalla mano pronta al combattimento; la vide fissare i soffitti istoriati di un tempio ormai costruito, di quel tempio che, in quel momento, stava ponendo il basamento nella spianata remota a settentrione di Atene del mare.
Di quel tempio creato a immagine d’Olimpo, la maschera che stringeva avrebbe visto la nascita e le morti: le colonne schiantate da cosmi ardenti in battaglia e la lenta carezza di un tempo che nemmeno Lei avrebbe potuto arrestare. Avrebbe visto il sangue di eroi e le urla dei traditori, la corsa affannosa di un ragazzo giocato a fare l’eroe, un’infante fra le braccia ancora bambine e i pensieri a rotolare nella mente senza volersi fermare.
Avrebbe accolto un fanciullo destinato a rifulgere di tredici ataviche stelle; e avrebbe ordinato la vittoria ad un cavaliere troppo devoto per accettare il sangue che il servirLa impone.
Avrebbe guardato fratelli dilaniarsi e gli stessi visi che avrebbe celato raggrinzirsi negli anni. E sparire. Ora sul campo di battaglia ora nel fumo odoroso di mirra dei braceri del tempio.
Avrebbe visto.
E avrebbe ricordato. Per Lei e per i corpi che si sarebbero susseguiti nel tempo, membra fragili di ragazze chiamate a consumare la vita e l’orgoglio nell’ardere di un sogno o forse di un’illusione.
Le vide tutte: Sasha dal profumo di fiori; Saori dal sorriso di luce. E altre; tante ancora. E di ognuna avrebbe ricordato emozioni e dolori; di ognuna avrebbe conosciuto il volto impresso in occhi di rubino che l’avrebbero omaggiata. Forse per una vita intera; forse solo per pochi istanti.
E ancora.
Conobbe il riposo del tempo che si sarebbe susseguito, nel buio di un nascondiglio sicuro. Conobbe il riso di un bimbo traballante stretto al seno di dea. Un bimbo del cielo per Lei, di nuovo madre. Un nuovo Erittonio da preservare e poter allevare. E visse lo strazio delle membra marcire di cosmo oscuro e gelato, fra le braccia il pianto di un neonato e negli occhi i corpi straziati di uomini a Lei sola devoti, il rifulgere ossessivo di cosmi indomiti.
Conobbe. E la maschera tremò nelle mani di Atena protettrice. Tremò e le ricordò, di nuovo, le scelte compiute e quel destino accettato. Ancora da venire; già segnato.
"Atena."
Era calda. La mano di Efesto. La mano di Efesto sul suo polso sottile; la mano di Efesto, ruvida e scorticata dal legno. Era calda. E ricordava la stretta di guerriero che non cede sull’asta levigata; ricordava la presa sicura del fuoco sul metallo incandescente. Ricordava.
Ricordava le braccia avvolte al suo corpo e il brivido profondo di eccitazione e rifiuto che aveva accolto.
Era calda, la mano di Efesto. E Atena accettò quel muto sostegno di un pigro giorno d’estate, all’ombra di un pergolato dal sapore della polvere rossa, sotto l’ombra rassicurante del tempio dai colori accesi.
"È mirabile" gli sussurrò, sfiorandogli il viso con la bocca piegata a sorriso. Mirabile. Perché molti l’avrebbero guardata; perché molti l’avrebbero desiderata; perché molto avrebbe visto negli occhi ciechi di fiamma ardente. E molto le avrebbero fatto conoscere nel tempo.
"Ne hai fatte costruire altre" le ricordò Efesto, tornando a rilassarsi contro il semplice scranno. "Hai i tuoi forgiatori. A Mu. Perché questa l’hai chiesta a me?"
Cos’aveva visto nel virare di quegli occhi azzurri? Cosa si era agitato nel cuore di Atena da farla trasfigurare e fremere in contorni evanescenti? Cosa aveva risvegliato un cosmo tanto potente da atterrire per il disorientamento che lo pervadeva?
Efesto l’aveva guardata: fra le mani la maschera e l’estasi della divinazione sul viso. E forse. Forse davvero Atena aveva visto qualcosa nei contorni perfetti di quella maschera sacerdotale. Forse aveva spiato il futuro; forse aveva conosciuto il terrore di illusioni naufragate.
Non glielo avrebbe detto.
E Atena avrebbe comunque taciuto. E avrebbe sorriso. Di quel placido rassicurante sorriso di sole che sapeva dominare uomini e dei. Di quel sorriso dalla linea crudele del perdono elargito con quieta spietata condiscendenza.
È dea terribile e benigna, Atena dalla lancia lucente.
Dea che soggiace con le mani aperte e la fermezza negli occhi; dea che conquista con la mitezza e governa con la forza. Ed è dea dalla mente sottile, fluttuante e rapida simile allo scorrere di un fiume, simile allo sciabordio eterno del mare.
Atena nata da Zeus; Atena figlia del mare.
"Per gli uomini bastano artefatti dell’uomo; contro gli dei occorrono manufatti di dei" gli ricordò, in una risposa senza risposta reale. In una frase gettata fra loro come dadi. A lasciar decidere alla sorte e al volere il desiderio di continuare a domandare.
"La indosserai?"
"La indosserà il mio Sacerdote."
Sarà l’onore; e sarà la condanna. Sarà il suo viso e la sua voce; sarà il suo corpo anche quando di corpo non ne avrà. Sarà strumento di sciamano; sarà ponte di sacerdote fra l’uomo e lei, racchiusa in corpi bambini. Sarà la sua volontà. E il suo pensiero lasciato a preservare menti libere di ragionare, libere di coltivare , libere di costruire convinzioni, libere di scegliere il giusto nell’onorarla.
E sarà difesa: arma in mano ad un uomo contro il volere di dei possenti e capricciosi; contro il sondare di menti abili nella lettura dei pensieri; contro costrizioni tese a piegare. Sarà muro invalicabile, e pesante eterna condanna. A rinunciare al nome e alla parola; ad avere un solo volto, una sola voce, mille pensieri. Sempre uguali per uomini diversi negli anni; sempre uguali nella malinconica dedizione nel servirLa.
"Basterà?"
"Avrà anche paramenti di ordito sottile, intrecciati dei fili eterei d’Olimpo."
"Opera tua?"
"Opera mia."
Efesto sospirò. Il cielo di Atene era macchie azzurre accecanti fra i pampini maturi; era il riflesso fulgido della caldera incandescente.
"Sarà potente, Atena. Forse troppo potente."
"Dovrà esserlo" acconsentì, la stoffa di nuovo a celare un viso destinato a non invecchiare. Un viso come di dio.
Dovrà.
Perché dai suoi occhi verrà il discernimento. Perché dalle sue labbra usciranno parole di comando. Perché sotto l’elmo alato, quella maschera avrebbe rifulso di antica splendente autorità.
Non se la sarebbe presa il tempo né il dolore; non l’avrebbero scalfita i rimpianti né le follie. Avrebbe continuato ad osservare il mondo. Nei secoli. Avrebbe continuato a proteggere la mente del suo custode. Per Lei.
Sono nata di Sciroforione.
Oggi sarebbe fra giugno e luglio.
Sono nata nella vampa dell’estate, fra i vicoli stretti dei fabbri e dei calderai; nell’invocazione per la Scirade dal viso d’ebano.
Sono nata dalle mani di Efesto possente. Sono nata per Atena gloriosa.
Sono nata per ricordare. Negli occhi ciechi e nella bocca immota. Guerrieri prostrati al mio lucore; guerrieri febbrili d’ardore negli occhi accesi di cosmo. Guerrieri passati e cavalieri futuri.
Sono nata per conservare. Forse la follia forse la dedizione di uomini consumati dall’amore. Sono nata. Ed era il mito. E sono ancora.
Io.
Maschera sacerdotale.
Note: