Autore:
AxiaGenere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life
Personaggi Principali: Aiakos Di Garuda, al secolo Rishav Sherpa, del clan Khapa dei Minyakpa,;Ade
Altri Personaggi: Radhamantys come guest star
Rating: Arancione
In proposito: Voglio il cielo pensò, mentre con un cenno salutava Radhamantys e il vento lo rapiva in alto.
Voglio il cielo negli occhi di Ade signore.
E le ali delle aquile.
Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione invece la rivendico mia^^
Note:one shot; missin moments;
Cose: da quando ho letto Lost Canvas mi ha affascinato ancora di più la figura di Aiakos di Garuda, la sua aspirazione al cielo e il fatto che, ironia della sorte, gli sia toccato come simbolo proprio l’aquila tanto cara a Zeus. Insomma: un giudice degli Inferi figlio di Zeus e che aspira al cielo è un richiamo mitologico-antropologico troppo suadente perché lo possa ignorare. Ne?
In più, oltre a fornirmi l’occasione di approfondire un po’ la cultura sherpa e di ripercorrere le isole della mia amata Grecia, Aiakos mi ha permesso di analizzarlo in tre spezzoni temporali: il passato storico-mitologico; il passato settecentesco del Lost Canvas e il presente kurumadiano, di una ventina d’anni precedente la serie classica.
Rishav Sherpa, questo per me il nome al secolo del mio Aiakos, è prima di tutto un figlio delle montagne del Nepal; e di quei luoghi di sublime ascetica bellezza incarna una delle creature più ancestrali: l’aquila. Da qui il collegamento al mito antico e a Zeus è stato facile. Mi sono chiesta il perché del cielo; il perché delle ali e della devozione ad Ade signore. Mi sono chiesta tante cose di un personaggio che, purtroppo, Kurumada fa vivere all’ombra di un fratellastro un po’ troppo imponente come Radhamantys e che sacrifica senza permettere di scoprirlo davvero.
Ho cercato di legare il Canvas alla serie classica, pur senza restarne intrappolata. Ne ho preso spunto, amalgamando il tutto con l’onnipresente mito greco e con un filtro di credenze nepalesi che sono gli occhi stessi di Rishav.
L’ambiente è il Nepal degli anni 1960-1970; il Nepal sognato dagli hippie sullo sfondo della guerra del Vietnam e raggiunto a piedi o con mezzi di fortuna in quei grand tour che volevano essere riscoperte di un ascetismo vissuto senza conoscenze e sulle suggestioni di Siddharta. Un Nepal non ancora realmente turistico, ma già ricco di esperienze e di dolore. Un Nepal da sempre punto di passaggio.
Enfin: ho utilizzato il nome Aiakos per indicare lo spectre e la variante Eaco per indicare il personaggio al tempo del mito. Rishav è il nome che compare qui e là, e Radhamantys immagino lo usi per sottolineare un momento per lui avvertito come molto particolare, forse ancor più che cameratesco davvero fraterno.
Come aquila
"A mia nonna Ada.
Per la persona che era,
e perchè continui a guardarmi dal cielo.
Con amore."
Axia
Le vedeva spesso.
Quando era ancora sherpa le vedeva spesso. Nei cieli immensi e accecanti sopra le montagne sempre innevate, le vedeva volare come in danze senza tempo.
Le aquile.
Le aquile dalle grandi ali spiegate a sfidare il cielo. E sembravano schernirlo di quel corpo troppo pesante per poter volare; di quelle braccia senza ali con cui potersi lanciare. E allora era lui a cercarle. Era lui a provocarle, salendo le vette apriche fino alle cime taglienti di ghiaccio. Scalando le montagne eterne solo per raggiungerle e vedere ancora e ancora la saggia e austera forza nei loro occhi. In quegli occhi che conoscevano il cielo e sapevano della terra e della sua piccola semplice esistenza.
Quando era ancora sherpa Rishav c’era salito spesso sulle montagne del Nepal. Come suo padre e suo nonno prima di lui.
Suo nonno. Sonam.
Era stato lui a insegnarli la montagna. E le aquile.
Lui che non era mai andato a scuola; lui che era cresciuto senza elettricità e acqua corrente, con una cesta sulla testa come suo padre prima di lui. Lui che l’unica cosa che conoscesse era la montagna con i suoi segreti e le sue seduzioni. La montagna con il suo accesso al cielo, ben custodito negli stridii alti delle aquile maestose.
Le aveva viste anche quella notte d’autunno, mentre saliva sul Kailash con una cordata, lui davanti e i quattro escursionisti ad arrancare dietro, il fiato sempre più corto e la fatica che scendeva nelle gambe.
Lo avevano ingaggiato a Thamel. Tre ragazzi e una ragazza. Giovani, forse giovani come lui. Non lo sapeva. Parlavano tanto e avevano addosso l’odore forte di erba e fumo speziato. Parlavano di amore libero e avevano i capelli lunghi; parlavano di strade percorse in autostop o a piedi, con poco bagaglio e niente soldi in tasca.
Parlavano di una guerra. Di una guerra voluta per soldi e per la morte. Una guerra combattuta oltre le grandi montagne, in foreste che si gettano in mari limpidi e caldi. Parlavano di guerre contro la guerra.
Dicevano di voler raggiungere l’universo. Dicevano di cercare qualcosa che a Rishav ricordava la fede dei monaci dalle tuniche arancioni. Il credo di uomini che vivevano come le aquile, appollaiati sulle montagne, il capo rasato e il sorriso placido. Li aveva visti alcune volte, quando aveva seguito suo padre oltre la corona di creste per ridiscendere fino a Gyantse.
Dicevano.
A Rishav non interessavano le loro parole; interessavano i pochi dollari che avevano messo sul tavolo. Perché suo nonno aveva iniziato a tossire e faticava a salire in cordata; perché suo nonno era troppo orgoglioso per ritirarsi ed era uno sherpa. E per gli sherpa la montagna è la vita e la religione.
Ma Rishav aveva scoperto un’altra religione, senza dei e senza preghiere. Una religione che tenevi in tasca e che poteva tutto. Allora aveva preso il denaro; ed era partito.
Sarebbe dovuto restare lontano un mese. Diciassette giorni per andare; diciassette per tornare. Sarebbe dovuto entrare nel Tibet da ovest e seguire la kora attorno alla montagna, fino a Rupa e Manosarovar. Fino ai laghi che specchiano il cielo e le aquile irriverenti.
Sarebbe dovuta essere una cordata come un’altra; come le altre che aveva accompagnato da quando aveva dodici anni e sulle montagne ci si arrampicava veloce e leggero come uno stambecco. Verso le aquile. Verso i nidi arroccati negli anfratti a precipizio sui canaloni sempre bianchi, sempre mortali.
Sarebbe dovuto tornare, anche se era Settembre e le nuove nevi già scendevano a falde larghe e l’aria sapeva di metallo. Aveva un odore particolare, l’aria, nelle giornate d’inverno: un misto di libertà ed elettricità che ti scendeva nelle viscere fino a farti rabbrividire. Aria maledetta qualcuno la chiamava; perché con quell’aria la montagna è più traditrice che mai. E se non ci sai fare ci puoi restare, sulle montagne maestose come gli dei. E l’aria, quel Settembre, sapeva di neve e di vento freddo, come le ali delle aquile.
Rishav, però, se ne era andato, un saluto veloce alla sera e la notte che va schiarendosi ad inghiottirlo.
Sarebbe dovuto tornare, dopo giornate ad arrampicarsi verso i cieli, fra le aquile che lo sfioravano lanciando richiami sempre più acuti. Era quasi la stagione delle migrazioni, quando anche le aquile lasciano le montagne per l’Occidente infuocato. Non importava: Rishav sapeva che sarebbe tornato e avrebbe potuto chiamare il migliore dei medici di Kathmandu per suo nonno. E forse avrebbe avuto anche i soldi per la dote di sua sorella.
Le aquile. Le aquile lo avrebbero protetto pensava, mentre risaliva la valle fino a Nyalam. E ancora oltre verso Lhatse, lungo il versante occidentale, sicuro anche per degli inesperti pieni di sogni come i ragazzi che accompagnava.
Le aveva viste le aquile, quando col fiato corto aveva alzato gli occhi sottili e affilati verso il cielo che andava scurendosi. Troppo presto aveva pensato. Troppo presto anche per Settembre e nello stomaco era risuonato il rimbombo cupo delle nuvole che salivano da dietro il versante. Rishav aveva socchiuso gli occhi: poteva vederle, grossi serpenti di fumo scuro dai bagliori azzurrini. Portavano pioggia gelida e grandine; portavano la furia della montagna che si appresta al riposo invernale. Portavano la morte nella roccia resa infida dall’acqua e nello sferzare gelido di venti come furia di valanghe.
Aveva gridato. E la sua voce era suonata come il richiamo stridulo dell’aquila quando il vento l’aveva rapita. Aveva gridato, quando la corda stretta alla vita gli aveva strappato il respiro e si era sentito trascinare giù, verso l’abisso nero che rumoreggiava. Aveva ansimato con il moschettone conficcato nello stomaco e la schiena strappata nello sforzo di non cedere al vento e alla montagna.
Poi erano state le grida confuse con i tuoni sopra la testa e il sibilo della corda che gli frustrava forse le gambe forse la schiena. Si era sentito d’improvviso leggero e sbilanciato, la tensione dei muscoli senza più appigli e il vuoto del cielo grigio negli occhi.
Om.
Era stato in quella sera d’autunno, mentre la neve gli sferzava la faccia e negli occhi alle lacrime si confondeva la piaggio, che aveva visto.
Mani.
Il cielo e il vuoto inghiottirlo, assieme alla voce che restava gelata nella gola. Il cielo sbeffeggiarlo e sorridere crudele del terrore di un ragazzo che lo aveva desiderato. Che lo aveva sfidato come aveva sfidato le montagne e le sue divinità tanto indifferenti quanto capricciose.
Padme.
E mentre precipitava Rishav aveva desiderato.
Aveva desiderato avere ali per salire nel cielo. Aveva desiderato avere altri dei da pregare e altri sogni da sognare. Aveva desiderato il cielo prima che la terra lo distruggesse. Un’ultima volta ancora, aveva desiderato vedere un’aquila.
Hum.
E vide.
L’aquila aveva le ali del colore delle nevi al tramonto, ed era grande. Più grande delle aquile che conosceva; più grande dei pochi aeroplani che tentavano di raggiungere Lukla.
La vedeva precipitare al suo fianco, il becco forte aperto in un richiamo lungo e dolce, come nostalgia. La vide o sognò di vederla, quella grande aquila dalle penne di nuvole al crepuscolo e con l’oro indomito in occhi troppo alteri.
E avvertì il fuoco incendiargli la carne quando il becco aguzzo lo trapassò; avvertì gli artigli smembragli il corpo e il sangue spezzarsi nel cielo e nella neve, quando le ali si spiegarono e il suo corpo fu strappato alla terra e alla caduta.
E risaliva. Risaliva ancora.
E dell’aquila avvertiva la sensazione di potenza e maestosità. Dell’aquila assaporò l’immortalità giocata col cielo. E si ritrovò sopra le nuvole e le montagne; si ritrovò nella notte quieta d’autunno, lunghe ali di fumo scintillante a sorreggerlo.
E rivide le lande desolate del Tibet ed una tomba appena creata. Rivide se stesso o un’altra identità raccogliere da terra ciò che restava di ali spezzate e di orgoglio mai domo.
E in quei ricordi che vorticavano rapidi, lo stridore delle aquile erano voci di uomini e canti di guerra. In quei ricordi, c’era il ricordo di una vita; di tante vite trascorse. E la dolce malinconia di un’esistenza ritrovata, assieme alle ali superbe che ancora lo trascinava in alto; sempre più in alto.
C’era stato un trono a contenere le possenti spalle della Garuda, un tempo.
C’era stato un trono e il ponte di una nave che solcava il cielo aprirsi sulle lande desolate del Tibet, nel riverbero di ghiacciai eterni e di armature avversarie.
C’era stato un sorriso di sprezzante sicurezza sul volto di Aiakos di Garuda quel giorno, mentre sedeva al comando di un piccolo esercito a lui solo fedele.
Lui nato dal nulla; lui cresciuto nel nulla.
E c’era stata lei.
Lei.
Violante.
La ricordava. Adesso la ricordava.
La ricordava, fiera e ardita al suo fianco; sfrontata ai suoi piedi, l’armatura dismessa e la nudità ostentata come invito capriccioso.
Ricordava.
L’amante proibita e negata. Il languore di amplessi mai consumati, nelle ore trascorse a discorrere di strategie e battaglie. Gli occhi ai cieli rivendicati; la mente costretta a giuramenti giurati in tempi ormai passati.
E dentro Violante un’altra donna. Negli occhi ribelli e selvaggi i flutti furiosi del mare, le caccia a cavallo di squali dal corpo lucido di sale.
Dietro Violante l’ombra di un viso rincorso; il lucore dei seni nella sabbia divina. I seni fra le sue mani, e attorno sabbia bianca di spuma.
E prima ancora. Prima
Prima ci sono la rabbia e la pietà gridate ad un cielo maledetto; c’è lo strazio di sentirsi strappati la terra e i figli. Prima c’è l’affetto paterno ripagato col tradimento. Il figlio prediletto ucciso nei giochi e la discendenza bandita.
Prima.
Prima c’è il ricordo della solitudine vissuta negli anni, dimentico di padri e inesperto di abbracci di madri. Prima c’è la follia di un’isola selvaggia e primordiale.
E c’è il ricordo di un sorriso arrogante fra le nubi del cielo. Il ricordo di Zeus, alto nel cielo. Del padre mai conosciuto e delle preghiere gettate nel vento, simile allo stridore delle aquile. Di preghiere senza parole urlate con la mente e il cuore
E la donna.
La donna ricorsa e piegata. La donna amata su scogli di sole, le mani a scivolare sul corpo informe di una foca, le mani a riplasmare il corpo che tanto bramava. E negli occhi grandi e rabbiosi di Psamate il desiderio di Violante.
Violante.
Desiderata; bramata; voluta.
Voluta al proprio fianco per capriccio e compiacimento. Voluta per arroganza. E gettata prima nella mischia per ricordare.
Ricordare sempre e ancora lo strazio della solitudine di quella prima vita vissuta fra uomini dalla pelle brunita. Fra uomini che furono formiche e che come formiche seguivano lui.
Lui.
Eaco figlio di Zeus.
Eaco signore di Egina feconda.
Eaco bramato da Ade.
Eaco simile alle aquile.
Rishav sorrise al cielo turchino.
Non era più tornato a Kathmandu. Non aveva più rivisto le altere montagne della sua infanzia e del suo nome e della sua stirpe aveva racchiuso ogni memoria.
Quando Ade signore gli era apparso, mentre ancora vagava smarrito nei ricordi e nella follia; quando Ade misericordioso gli aveva concesso il riposo di un nido in cui ripiegare con stridore di metallo le grandi ali della Garuda, Rishav aveva sorriso impudente agli occhi rilucenti di cosmo orgoglioso.
Vedeva azzurro.
L’azzurro dei cieli bramati e mai prima toccati.
L’azzurro della quiete delle notti nepalesi che fanno rifulgere i ghiacciai perenni.
L’azzurro degli occhi di Ade signore e il sorriso sottile di labbra compiaciute di tanta immutata passione. Perché non era cambiato Eaco di Egina spumosa, figlio di Zeus.
Non era cambiato, e nel suo viso brunito bruciato dal sole spietato del tetto del Mondo ardevano gli occhi dell’aquila di un tempo ormai trascorso.
Gli occhi terribili che delle aquile conoscevano la feroce pietà.
Vedeva azzurro, Rishav.
L’azzurro degli occhi di Ade.
A quegli occhi pieni di antiche dolci promesse; a quegli occhi e ad Ade signore Rishav Sherpa degli orgogliosi Khapa aveva piegato il ginocchio, la mani congiunte e la voce antica a mescolarsi con l’accento della giovinezza.
Namastè aveva detto.
In quell’unica lingua che sola sapeva e che andava velocemente sbiadendo nella mente, confondendo i suoni e le pronunce; recuperando conoscenze mai studiate e saperi mai indagati.
Namastè gli ripeté, nel vedere lo sguardo compiaciuto del suo Signore, sapendo di essere di nuovo, ancora, quello che desiderava: un uomo che del mondo aveva conosciuto la dolcezza e la ferocia, la passione e gli inganni. Un uomo capace di vivere di un sogno senza chiedere se sia sacrilegio o blasfemia il concepirlo. Senza chiedersi se il sogno diventerà ossessione, purché Ade signore gli conceda di nuovo ali splendenti per servirlo. Come un’aquila.
"Cosa desideri?" gli aveva chiesto Ade, il cosmo d’argento a lambire la fronte ostinata che non si piegava.
"Il cielo" gli aveva risposto Rishav, sorridendo del sorriso orgoglioso del suo signore. E lo aveva seguito sotto un cielo rosso pieno di stelle nere. Lo aveva seguito senza voltarsi indietro, le vette inviolabili alle sue spalle: abbandonando il ricordo di un volto seppellito con mani di uomo e le proteste di un cuore riconoscente.
Lo aveva seguito fino a quel giorno, quando aveva avvertito il richiamo di un altro cielo, azzurro. E dello stridore delle aquile su onde turchesi.
Delle piccole aquile che vorticavano nel cielo primaverile, screziando la luce fra i rami dei pini frondosi. Delle aquile così piccole e così conosciute che dominavano il cielo di Egina antica.
E all’ombra delle antiche colonne di Afaia; all’ombra dei ricordi che rimontavano con lo spumeggiare del mare lontano, laggiù oltre il confine dell’orizzonte dalle dolci colline, Aiakos di Garuda si era concesso di nuovo il ricordo di una vita lasciata alle spalle.
"Non è rimasto nulla" sussurrò con l’accento greco ironico su quel volto sfrontato e curioso, gli occhi fissi all’Oriente luminoso.
"Rishav."
E Aiakos sorrise di quel nome che non riusciva a cancellare; di quel nome che gli ricordava le aquile selvagge e una terra di dei indifferenti a contatto col cielo. Radhamantys lo chiamava raramente con quel nome così umano; lo chiamava raramente in ogni frangente, preferendo la serietà del suo sguardo alle parole superflue.
E Aiakos aveva riscoperto il fratello del mito: il fratello dal volto sereno e dalle parole pacate; il fratello che sapeva aspettare e concedere e proteggere senza legare e imbrigliare. Lo sentì sospirare, i sensi tesi per la vicinanza pericolosa al regno di Atena sovrana. I sensi tesi per evitare uno scontro non ancora cercato, Radhamantys lo raggiunse all’ombra dei rocchi, sotto il timpano scarno e violato, con nella mente i colori sgargianti che riempivano gli occhi e la bella plasticità di corpi nudi scolpiti nel marmo.
C’erano i racconti della stirpe di Eaco glorioso, un tempo, incisi nella pietra viva da abili mani; e la fama di una discendenza dolorosa e il ricordo di un rapimento attraverso il cielo, il ricordo di Egina dalle candide braccia nelle braccia piumate di Zeus mutatosi in aquila. Di quelle decorazioni e di quei colori adesso restavano solo tristi ombre nella loro memoria antica, mentre l’odore di resina calda e olive mature si mischiava al profumo dolce del mare e allo stridore delle aquile.
"Lo sapevi" gli disse alla fine, senza sapere se per confortarlo o per scuoterlo. "Rishav. Sapevi che il tempo non lo avrebbe preservato. Il tuo palazzo; i tuoi discendenti. Anche Cnosso e Creta sono cadute. Non potevi sperare."
"Parlavo del Nepal" lo sorprese infine, regalandogli uno stanco sorriso che sapeva di infantile e corrucciato imbarazzo. "Parlavo della mia terra. Non è mi rimasto più nulla, laggiù."
Radhmantys si umettò le labbra, indeciso se tentare una risposta o parlare. Parlare di un passato che per tacito accordo nessuno di loro mai rivangava. Non era dolore; era solo privato. Ma in quel momento si avvide che di loro tre solo Aiakos non aveva mai fatto ritorno al luogo d’origine da quando si erano ridestati.
"Il Nepal" sussurrò, un lampo di crudele sorpresa negli occhi chiari. Perché nel Nepal Aiakos aveva perso la vita, durante l’ultima guerra. Perché in quella terra arida e straniera aveva seppellito una donna amata e aveva trovato prematuro riposo. Perché quella terra lo aveva reclamato di nuovo a sé, quando il suo corpo mortale era ritornato nel mondo.
"Sì: il Nepal" sogghignò Aiakos, un riso sottile a gorgogliare nella gola. Era morto odiando la terra che lo aveva visto sconfitto; ed era rinato in quella stessa terra imparando ad amarla. Imparando da lei a desiderare il cielo e le aquile con il cielo; imparando la determinazione che Egina selvaggia gli aveva insegnato ai tempi in cui ancora non c’erano guerre né indifferenza e agli dei si levavano accorate preghiere sotto alberi frondosi e ad Ade signore si sacrificavano neri tori con lo sguardo distolto.
"Ho imparato ad amarlo, sai? Il mio Nepal" riprese, gli occhi acuti che perforavano l’orizzonte: laggiù, oltre la nebbia della calura estiva, c’erano le nevi dell’Himalaya e il crudo tenero amore di una terra arida. "E ho abbandonato la mia famiglia per seguire le aquile. E il cielo negli occhi del nostro signore."
"Puoi tornarci" tentò Radhamantys.
"No" gli rispose risoluto, una scrollata indifferente nelle spalle libere per una volta dal peso della Surplice. Era stato piacevole anche quello: riscoprire la sensazione della stoffa sulla pelle nuda senza il peso dell’armatura. Riscoprire quella quotidianità di camminate lente e misurate lungo la strada che saliva alla collina del tempio, ridendo della fatica inesistente e ricordando altre camminate, su sentieri a strapiombo con zaini che piagavano le spalle. "Non ci tornerò. Non è permesso."
"Io torno, qualche volta" gli ricordò Radhamantys offeso di un’accusa sottile gettata come per scherno. "E anche Minos torna al luogo dov’è cresciuto. Non è proibito."
Aiakos rise: quella risata di ragazzino che in Ade suonava così adulta e austera; quella risata di ragazzino cresciuto in fretta e selvaggio. Quella risata che Ade misericordioso aveva cullato negli anni, aspettando paziente che Eaco d’Egina lo bramasse. Farlo capire. Come farlo capire a Radhamantys che chi è cresciuto sulle montagne e le abbandona non può farvi ritorno?
"Lo so" gli concesse alla fine. "Lo so che non è proibito. Ma io non posso comunque tornare. Ho abbandonato la montagna. Non sono più uno sherpa."
"Sherpa?"
"Sherpa. Guida" gli spiegò. "É. Era il nome della mia etnia. Un’etnia figlia della montagna. Se te ne vai, non puoi più tornare. Non ti caccerebbero, ma hai tradito lo stesso."
"Non capisco."
"Non puoi capire" lo redarguì con un sorriso sottile. "Se non ci sai nato, non puoi capire. É come essere uno spectre. Se non lo provi non sai cosa significhi. Essere sherpa è la stessa cosa. Ma non puoi essere due cose assieme."
"E tu hai scelto."
"Sì" gli rispose e sollevò le braccia al cielo fra i rocchi delle colonne. "Ho scelto le ali delle aquile. E il cielo."
Il silenzio che seguì fu senza domande e pensieri. Fu il silenzio di chi è rilassato e sicuro; di chi è orgoglioso della propria scelta e non ha rimpianti né rimorsi. Recarsi ad Egina; recarsi nella sua antica vera terra e ricordare il cielo. Ecco cosa era bastato fare per placare quella sensazione di malinconia che strideva simile alle aquile nel suo cuore.
Da quando Ade lo avevo chiamato.
Da quando Ade lo aveva ammesso al suo cospetto, il cosmo a disegnare un corpo fatuo che brillava del riflesso dell’universo. Da quando Ade gli aveva fatto racchiudere fra le mani guantate un lembo di lana grezza dall’odore forte di cenere e vento di neve.
"Mi dispiace" gli aveva sussurrato.
E Aiakos aveva capito. Ed era ritornato Rishav mentre stringeva le mani e negli occhi simili all’aquila aveva formulato una supplica muta. Una preghiera mai espressa che Ade aveva accettato. E negli occhi azzurri del suo signore; negli occhi azzurri che danno la morte Rishav aveva visto un’altra morte. Aveva visto il corpo di Sonam Sharpa. Il corpo di suo nonno avvolto dai variopinti teli di lana colorata; aveva sentito i mantra dimenticati di suo fratello e lo sfrigolio della cera che si consumava nella bocca troppo anziana.
Aveva visto; e aveva capito che il Nepal era perso.
Aveva capito che aveva smarrito quella terra che lo aveva accolto da morto secoli prima e lo aveva allevato quando era rinato. Aveva capito di dover ricordare.
Ricordare per cosa aveva lasciato le vette indomite e il richiamo delle aquile. Ricordare perché avesse scelto ai tempi del mito Ade signore.
E se il Nepal era ormai perduto, gli restava pur sempre un’altra patria da rivendicare. Un’altra terra piena di malinconia e dolci pensieri. Ed Egina lo aveva accolto con placida dolcezza, nello sciabordio delle sue acque su spiagge di sabbia calda.
Radhamantys lo aveva raggiunto quando l’assenza era diventata sorpresa, e aveva seduto con lui fra le antiche colonne, rispettando la confusione dell’aquila che per un istante non riconosce più il cielo.
"Cosa cercavi a Egina?" gli chiese Radhamantys, rompendo l’immobilità di un’estate che andava declinando sotto il cielo terso di Grecia.
"Non lo so" gli concesse alla fine Aiakos, una smorfia indispettita sulle labbra. "Risposte, penso. O forse ricordi" disse, e agitò pigro la mano nell’aria, come a minimizzare.
"Le hai trovate?"
"Mmh? Cosa?"
"Le risposte."
Le aveva trovate? Aiakos respirò piano, gustandosi quel sole caldo sulla pelle nuda del viso e delle braccia. Quel sole così diverso dal sole del Nepal, dal sole spietato della sua terra. Era piacevole il sole di Grecia. Piacevole e caldo sulla pelle abituata al metallo e a un sole nero. Aiakos socchiuse gli occhi: il sole. Desiderava guardare il sole fisso fisso. Come le aquile. Desiderava ricordare il primo viscerale recondito istante in cui si era inchinato ad Ade signore. Le sensazioni; quelle sensazioni che lo avevano tenuto al suo fianco nei secoli.
Lui figlio di Zeus; lui figlio del cielo.
"Radhamantys" chiamò alla fine, la voce un sussurro nell’aria che andava rinfrescandosi. "Perché hai giurato fedeltà ad Ade?"
"E tu perché l’hai fatto?"
Perché? si chiese. E risentì lo strazio della solitudine fra gli arbusti e le colline brulle; risentì la brama della morte vincere la vita e l’odio puro e ingenuo montare nell’animo. La disillusione verso un padre mai visto; l’umiliazione di una donna violentata e di una maternità rifiutata. Rivide se stesso, solo fra formiche ormai uomini. E risentì l’abbraccio di Ade misericordioso. La sua promessa di rispetto, di una vita nuova nella morte agognata. La promessa di una vita reale.
E si rivide piegare il ginocchio, gli occhi ardenti di cieli sconosciuti.
Si rivide piegare il ginocchio e Ade sovrano compiaciuto della sua selvaggia dedizione, dello screzio dorato in iridi umane.
E con la fedeltà l’orgoglio di un titolo onorato: lui nato per capriccio; lui figlio indesiderato. Una fedeltà non richiesta; una fedeltà quale semplice ripiego per il dono più grande: la libertà.
Libertà di scegliere il cielo o la terra; libertà di parlare o tacere.
Libertà di servire e odiare.
Senza obblighi; senza risentimenti.
"Per egoismo, penso" Aiakos ghignò. "Sì: per egoismo."
L’egoismo di poter decidere; l’egoismo di scegliere chi onorare e chi disprezzare. L’egoismo dell’orgoglio mai domo del suo nome che rimbomba sotto il cielo. L’egoismo per il cielo.
Le risposte che cercava non stavano a Egina; nè nel Nepal rimpianto e detestato. Non erano nemmeno in antiche motivazioni. Le risposte erano solo negli occhi di Ade: in quegli occhi che per primi lo avevano guardato. Sotto una quercia frondosa; nell’ombra della notte che saliva fra preghiere lanciate nel vento.
In quegli occhi stava tutto ciò che Eaco di Egina, figlio di Zeus, aveva cercato: accettazione.
E libertà.
"Rishav" lo richiamò alla fine Radhamantys, occhieggiando al mare che andava scurendosi con la notte che avanzava. L’aria era fresca di sale e Aiakos avvertì sulla pelle il desiderio di lasciarsi andare nel vuoto per risalire nel cielo appena screziato.
"Ti precedo al castello. La Germania non è adatta ai voli pindarici; ma la Grecia e il suo mare offrono ancora buone occasioni" gli sussurrò spingendolo oltre le colonne, nel meltemi furioso che si era alzato, facendo gonfiare la camicia leggera e arruffare i capelli nerissimi di Aiakos come piume frementi. "Bada solo di restare lontano da Atene."
Le ali della Garuda erano rosse con le striature dell’oro. E negli occhi di Rishav vi era quella giovanile arrogante ostinata impudenza che tanto compiaceva Ade signore. Quando si alzò in volo, le chiavi che sempre teneva al collo tintinnarono d’argento e corno.
Come stridio di aquila.
Voglio il cielo pensò, mentre con un cenno salutava Radhamantys e il vento lo rapiva in alto.
Voglio il cielo negli occhi di Ade signore.
E le ali delle aquile.
Note conclusive