Di fronte ad ogni desiderio
bisogna porsi questa domanda:
che cosa accadrà se il mio desiderio sarà esaudito,
e che cosa accadrà se non lo sarà?
Epicuro.
Capriccio d’uomo
I.
"Ti devo parlare."
"Domani mattina. Alle otto." Lo sbadiglio (un ruggito) arrotolato in gola, mentre la mano scivola a fermare ordinare capelli (troppo) ribelli. Kanon tenta (disperato) di mantenere un minimo di lucidità. "La strada la conosci."
"Ti devo parlare." Milo ripete ricalca, un labbro (strano) che freme e le mani – eleganti. E letali – aprirsi e chiudersi nervose (?). "Ho bisogno di parlare"
"Amèsos?"
"Amèsos"
"Entra" Uno sbuffo, un cenno (finto) distratto e le spalle (rassegnate) che si allontanano. "E spero che sia davvero importante".
Milo inghiotte a vuoto. Forse non è stata una buona idea. Forse.
II.
Kanon ha una certezza: Milo ha qualcosa che non va; Milo ha seriamente qualcosa che non va.
Perché se ne resta lì, seduto composto (troppo composto) sulla sedia, mentre il caffè (sketos. Senza zucchero; forte e amaro. Come ti piace) si raffredda e la schiuma diventa dura e cattiva.
Nai, c’è davvero qualcosa che non va.
Perché – di solito – Milo il caffè non lo lascia raffreddare –mai. Lo prende stringe forte, il caffè (nero; e amaro), Milo, e ti sorride con due sbuffi di schiuma sulla bocca.
E ti dice: agaton.
Ma Milo, adesso, non dice agaton e di baffi, sulle labbra (che ridevano), non ne ha. Ma ha le mani (bianche. Troppo bianche) strette e sembra (è?) impaurito. Tanto impaurito.
Mentre Kanon lo guarda (preoccupato. Davvero preoccupato) e si chiede cosa fare, esattamente. Perché una mano sulla spalla è confidenza.
(E io non sono un confidente.)
Perché le parole se ne stanno lì, in fondo alla gola.
(E io non sono mai stato bravo, con le parole.)
Perché sa (lo capisce; lo vede) con chi (Camus) Milo vorrebbe parlare.
(E non puoi.)
Perché Milo è un ragazzino.
(E io sono un uomo.)
E cosa si dice a un bambino che ti butta giù dal letto in piena notte – spaventato.
Cosa dici a un bambino (Milo) che ti guarda e ti supplica di aiutarlo, di dirgli che va tutto bene e che tutto passerà?
La tazza (fredda. Quanto tempo è passato?) fra le mani e quel peso in gola, che non se ne vuole andare. Kanon lo sapeva: non avrebbe dovuto farlo entrare.
Perché adesso deve (vuole) aiutarlo. E ha paura di non poterlo fare.
III.
"Ricordi Anthia?"
"Vagamente." Il labbro si stende appena e Kanon si accorge (deliziato) di voler sorridere. Milo è imbarazzato; Milo è molto imbarazzato. Perché a Milo non piace parlare di donne, proprio no. Forse. Forse con Camus lo faceva, forse.
O forse no. Perché (ricordalo. Te lo devi ricordare) erano bambini, allora. E di donne i bambini non parlano.
Il respiro (fondo) mentre la testa rotola un po’ stanca un po’ indispettita. Perché sì, ci vorrebbe Camus. Con Camus Milo parlerebbe. Anche di donne. E Kanon stringe socchiude gli occhi: Milo di donne non ama parlare – mai. E Anthia. Anthia è stato l’incidente.
E Kanon le ricorda ancora (divertito) le risposte brusche di Milo, giù al Pireo. Forse di maggio forse d’agosto, mentre i tetti si facevano rossi e il retzina mandava un bagliore irreale.
Era bella Anthia con il vestitino bianco e i risvolti blu; era bella nel modo un po’ sfacciato un po’ imbarazzato che aveva di guardarlo. E gli aveva teso la mano e gli aveva detto: Kéro polì. Sei il fratello di Milo?
E il sorriso (suo) Kanon lo ricorda, mentre le stringe la mano (nulla di particolare) e ammicca: qualcosa di simile.
E quella volta Milo di Anthia (una donna) aveva parlato – anche se Camus non c’era.
Ne aveva parlato, una bottiglia in mano fra gli scogli e il mare della notte. Ne aveva parlato come un uomo (e no, il bambino non c’era più) e alla fine (bambino) aveva sussurrato – la mano vicina alla bocca e quel mezzo irritante sorriso: è un segreto, Kanon. Mi fido.
"Si sposa. Fra un mese"
La lingua che si muove troppo lenta e il sussurro che occhieggia: c’è altro. C’è qualcos’altro. Di importante. Perché Milo non è bravo a sussurrare – nemmeno i segreti. Milo non ci va d’accordo, con il silenzio. E anche un segreto lo dice forte e chiaro, Milo. E Kanon vede – curioso – la sua voce tremare (ridicolo!) mentre il respiro si aggroviglia – fastidioso.
"È incinta"
IV.
"Ìsos"
E dopo Milo se ne è stato zitto, le mani strette e le spalle (larghe e forti) basse. Se ne è stato zitto ad aspettare, forse una condanna forse l’assoluzione. O una parola. Una parola qualunque che dicesse: va bene.
E Kanon quella parola (va bene) no, non l’ha detta. Perchè ìsos non è una risposta; perchè ìsos non vuol dire niente. E di niente e di pensieri, Kanon ne è convinto, a Milo non ne servono.
E va bene (una parola – una sciocca stupida facile parola) no, Kanon ha deciso che a Milo non lo dirà. Perchè Milo bambino non lo è mai stato (davvero); e delle decisioni deve imparare a non aver paura.
Kanon glielo ha chiesto: è tuo?
E Milo gli ha detto solo: ìsos. E ìsos no, non è una risposta; a Kanon non piace – assolutamente no – come risposta. Perchè non è ìsos una notte trascorsa in una stanza che sa di lavanda e rosmarino; una notte che non ti ricordi nemmeno se l’hai fatto per ricordo o rimpianto.
Perchè non è ìsos la notte che Milo Anthia l’ha rivista, gli occhi gonfi e una discussione in gola; e riaccompagnarla a casa e accettare una limonata fredda nel giugno che si fa afoso, e ritrovarsi stretti nel letto bianco di ferro battuto. Non è ìsos.
V.
"Naì e ochì?"
Milo ha gli occhi stanchi; e un sorriso che è una smorfia. Mentre le mani affondano nei jeans e dice solo: ti va di camminare?
Mentre gli uliveti sono cicale grigie; mentre il Partenone sfugge fra la gente; mentre le viuzze in ferro e azzurro si allargano. Mentre Piazza Syntagma è una macchia di fustanella e tsarouhia che ti mangia.
Lo sferragliare della metropolitana in un dondolio sonnacchioso. Milo ha gli occhiali da sole (scuri. Troppo scuri – anche per lui) e Kanon non vuole immaginare. Perchè quando Milo dice vuoi camminare? significa che ti deve parlare; e quello che ti devi dire no, non ti piacerà.
Kanon stiracchia le gambe e arrotola le maniche della camicia. Milo – di solito – le cose te le dice in faccia: ti pianta addosso (fastidioso) gli occhi e non ti lascia più andare.
Milo le cose te le dice in faccia. Ma non le cose importanti.
Le cose importanti Milo te le dice al mare, mentre il Falero sonnecchia nell’estate troppo calda e il meltemi è secco e sale sulla pelle, fra gli scogli bassi e la sabbia bianca.
"Naì e ochì?"
Kanon ripete, mentre il sole è un lungo tramonto; mentre Milo morde un labbro e scrolla le spalle e solleva gli occhiali (troppo scuri) e, senza un vero perchè, si tuffa in mare. E Kanon inghiotte (fatica) e lo guarda nuotare, gli occhiali e le scarpe fra la sabbia e un gorgoglio che sa di riso e di lacrime.
E il riflesso nel tramonto di Milo che alza la testa, su e giù e sussurra (urla; soffoca): ochì.
VI.
"Narses"
Kanon liscia le labbra: il retsina è dolce nella bocca salata, mentre la notte è una coperta di luci e stelle lontane; mentre la sabbia si fa fredda e la risacca è una paura lontana. Mentre Milo stringe le spalle ancora umide e lo guarda fra stanchezza e curiosità.
"Narses" ripete Milo, e la bottiglia passa di mano e confonde i sospiri e gli sbuffi. "Narses. É bello, vero?"
"Naì"
"Naì; bello"
L’accendino e il puntino distratto della sigaretta nelle prime ombre. É strano; tutto è strano. Milo che fissa il mare, senza costringerti a parlare; Milo che ti dice ti va di camminare? e ti trascina lì, per poi lasciarti su una spiaggia fra il sole e il vento, a masticare amaro perchè non sai cosa fare, cosa dirgli; Milo che non ti chiede niente ma ti vuole lì, in quel silenzio che è rumore di acqua, di voci su, sulla strada, e di qualcosa che non appartiene.
"L’ho amata, sai? L’ho amata tanto"
"Lo so. Ma era finita"
"Sì. Finita" O forse no. Forse nella risata stanca di Milo c’è no. Forse non era finita, per Milo. Forse era finita e basta, ma per qualcosa di più grande, di...Kanon aspira forte. Era finita perchè doveva finire. E Milo – Kanon lo ricorda – aveva detto basta.
Kanon se lo ricorda bene, Milo, quel mezzogiorno piovoso di febbraio salire le scale con un sorriso (una smorfia). Se lo ricorda bene: le mani nei jeans e gli occhiali scuri (anche se di sole non ce n’era); passargli accanto senza chiedere permesso, fermarsi nel colonnato grigio e dirgli: mi fai compagnia? Voglio bere.
Kanon lo ricorda, il Milo di quel giorno freddo e bagnato, con il mezzo sorriso di chi vuol dirti tanto e non riesce a parlare. Perchè ad Anthia Milo quel giorno aveva detto antìo, sotto un ombrello rosso e con gli occhiali scuri (ma il sole no, non c’era). Le aveva detto antìo e al cinema non ce l’aveva più portata. E mentre la guardava che se ne andava, le labbra strette e tanta rabbia dentro; mentre la guardava si era detto che no, non avrebbe voluto finire.
VII.
"Lo volevi?"
"Forse."
Milo ride piano, la testa fra le braccia e un pensiero che è un capriccio. Perchè è solo un capriccio un bambino che non sai se vedrai camminare; è solo un desiderio stupido le mani su un ventre un po’ più grande mese dopo mese e la curiosità di un rumore da cercare con silenzio, la bocca socchiuse e gli occhi ben aperti. Perchè è come vederlo, quando quel calcio batte e ne senti l’eco; è come vederlo.
É capriccio.
Scappare da una casa che non sarà mai tua, e aspettare un tempo da trascorrere ad una culla. Vedere un viso diventare più sottile e grande; vedere i passi sostituirsi al gattonare traballante e la corsa a un trotterellare incerto.
"Gli avrei voluto bene. Tanto bene."
Kanon vede il dondolio; vede Milo cullare se stesso, le braccia chiuse attorno al vento, attorno a un bimbo che non sentiranno (forse) mai. Lo vede stingere la testa e i capelli e le labbra in un singulto che vorrebbe essere altro.
"Lo so."
VIII.
"É sbagliato?"
"Non è proibito avere un figlio"
Milo sbuffa , mentre cerca fra la sabbia le sigarette e l’accendino. E Kanon gli allunga sulle spalle la giacca sportiva, nel fresco della notte. E lo sa bene che quella non è la risposta che Milo vuole. Lo sa e si diverte, nell’immaginare (di nuovo) le guance gonfie e un sorriso scivolare sulle labbra secche.
"Lo so anch’io, questo." Le mani nella sabbia a costruire collinette. "Ma è un capriccio"
"Capriccio?"
"Un capriccio, sì"
Kanon ridacchia e alza le spalle. Una volta (forse Aioria; forse...Camus?) qualcuno gli aveva detto che Milo è difficile. E aveva riso; riso tanto, perchè Milo è semplice – aveva pensato – da capire. Milo è la freschezza calda della Grecia. E adesso Kanon se ne accorge, che sì, Milo è difficile: una leggerezza che nasconde, dietro, tanto impegno. Perchè, Kanon lo sa, a Milo un figlio piacerebbe; piacerebbe troppo. E sa che gli vorrebbe bene e no, non ce la farebbe a immaginare mentre cresce. Milo un figlio lo vorrebbe, e non può (non se lo permetterebbe – mai) averlo.
Kanon sorride, una mano (impudente) fra i capelli ribelli di Milo, fra pensieri che sono grandi e pesano su un ragazzo (bambino). Kanon ride, mentre il braccio stringe e consola senza farlo pesare, per distrazione.
"Da quando sei diventato capriccioso?"
"Non lo sono mai stato"
"Già." Mentre Milo scivola contro Kanon; mentre le mani stringono e avvolgono. "Non lo sei mai stato."
Note linguistiche