CAPITOLO UNDICESIMO: IL PASTORE DI ORSI.

Ercole doveva andarsene quanto prima dalla Valle della Rimembranza.

La terza valle della Sesta Prigione di Ade non era più luogo sicuro, per quanto forse mai lo fosse stata realmente, neppure per il figlio di un Dio. Il ponte di pietra su cui aveva affrontato Tuchulca era crollato, inghiottito dalle ingorde fauci dell’oceano di lava che scorreva implacabile, allungando flutti di magma nella sua direzione.

Così era rimasto là, al limitare estremo della seconda valle, la foresta ove dimoravano i suicidi, coloro che avevano levato contro sé medesimi violenta mano. Tramutati in alberi, dalle fosche fronde, con rami nodosi e spine avvelenate, subivano la pena che il Dio dell’Oltretomba aveva imposto loro.

Per Sire Ade infatti, che amava il suo corpo più di ogni altra cosa, l’aver deliberatamente recato danno a se stessi era il simbolo del loro massimo rifiuto della condizione umana, e li considerava perciò indegni di avere ancora un corpo.

Ercole rimase ad osservare per qualche minuto il sinistro luogo, da cui si levavano grida e lamenti, a tratti disumani. E si chiese se anch’egli vi sarebbe finito se quel giorno lontano, di quasi duecento anni prima, avesse avuto il coraggio di porre fine alla sua vita, abbracciando la nera signora. Se fosse davvero stato così codardo da scegliere di morire, anziché lottare.

Sorrise, e nel ricordo di Linceo si rispose da solo.

Si voltò di nuovo verso lo sconfinato magma, ove una lenta ma continua pioggia di fuoco martoriava i corpi dei bestemmiatori, e provò tristezza al pensiero di Tuchulca. E dell’orribile fine a cui era andato incontro. Una prospettiva che indubbiamente aveva messo in conto, accettando l’ordine impartito da Zeus, ma il cui timore non lo aveva comunque fatto indietreggiare mai.

Sospirò, mentre alle sue orecchie, quasi a sovrastare i lamenti dei suicidi, giunsero di nuovo le ultime parole del demone etrusco.

"Non sentirti responsabile per la morte degli Heroes, perché non lo sei! Il peso che hai portato finora nel cuore è qualcosa di cui devi liberarti se vuoi davvero arrivare! Le anime che hai visto, i volti accusatori che credevi appartenessero ai tuoi compagni, erano soltanto riflesso del tuo stato d’animo, di quel senso di colpa che ho risvegliato in te, in modo forse infame, ma non i loro! Che non ti biasimano niente, ma ti osservano e ti applaudono dal Paradiso dei Cavalieri, desiderosi di ammirare ancora le gesta dell’eroe per cui hanno dato la vita! Dell’eroe che ha ispirato l’agire di generazioni di guerrieri, umani o demoniaci che fossero!"

"Addio, antico Signore di Etruria!" –Commentò Ercole, con il volto rigato dalle lacrime, ed il pugno stretto, in una promessa con se stesso. –"Meritavi ben più di me il titolo di Dio dell’Onestà, perché sincero sei stato fin dall’inizio! Forse l’unica persona, tra le tante che ho incontrato in vita, ad esserlo stato davvero! E hai cercato di aiutarmi a ritrovare il mio io errante, un io non troppo dissimile da com’eri tu!"

Fu in quel momento che una luce catturò l’attenzione del figlio di Zeus e Alcmena, spingendolo a voltarsi verso il limitare della foresta dei suicidi, e a incamminarsi verso una sagoma splendente che stava cercando di comparire di fronte a lui.

Non ebbe bisogno di palesarsi per intero, che Ercole subito la riconobbe. E la trovò bella ed elegante come l’aveva sempre vista. Come l’aveva ammirata quando serviva con piacevole grazia ai simposi delle Divinità sull’alto cielo, senza mai risparmiare sorrisi a nessuna di loro.

"Avvicinati, Ercole!" –Parlò la figura di donna. –"Fai in fretta! Non potrò rimanere per molto, solo quel tanto che basta…"

"Per cosa?!" –Esclamò l’eroe con concitazione. –"Per cosa Ebe? Cosa ti ha spinto a inviarmi un segnale fin quaggiù, nei recessi dell’Inferno?!"

"Salvarti?!" –Si limitò a rispondere la Dea della Gioventù, allungando un braccio verso l’antico sposo e sfiorando i suoi arti muscolosi.

Quel contatto, così soave ma intenso, parve scuotere il Dio dell’Onestà e avvolgerlo in una calda luce che aumentò di gradazione, fino a divenire una piccola stella che presto esplose, lasciando la Sesta Valle di Ade ai suoi dannati.

Quando Ercole riuscì a riaprire gli occhi si accorse di essere di nuovo sull’Olimpo, nel giardino della residenza ove aveva vissuto per secoli, assieme alla Coppiera degli Dei, il cui cosmo, lo percepì chiaramente, stava calando di intensità a ritmo impressionante.

Cosa aveva rischiato Ebe, con quella mossa, il campione di Tirinto lo capì subito. E lo capirono anche Aniceto, Alessiroe e Alessiare precipitandosi di corsa nelle stanze della madre e trovandola distesa sul pavimento di marmo, a pochi passi dall’anfora d’oro ove ancora riluceva il suo sangue divino.

"Madre mia!" –Gridò il figlio maggiore, chinandosi su di lei e sollevandola, presto aiutato dal fratello. –"Cosa avete fatto? Siete debole, il vostro cosmo rifulge fioco nell’ombra di questa casa! Il vostro battito è debole! Aiutami, Alessiare, a distenderla sul letto!"

"Non temete l’ombra, figli miei. Solo così potrete apprezzare la luce!" –Commentò stanca la Dea della Gioventù, con lo sguardo perso nel vuoto.

Nel vuoto che pareva sovrastarla e dominare tutta la sua vita.

"Sta delirando…" –Commentò Alessiroe, sfiorando le braccia della madre e notando il brusco taglio alle vene. Spaventata, si ritrasse in malo modo, incredula che un nume del suo rango si abbandonasse ad antichi riti ormai vietati, ma Alessiare le afferrò l’arto ferito, coprendo la cesura con il suo cosmo divino e suturandola.

"Ci sarebbe riuscito da solo…" –Aggiunse Ebe, leggendo nella mente dei figli, che volevano comprendere le ragioni del suo gesto. –"Ne sono certa! I suoi poteri non sono calati, sono sempre grandi come allora, quando discese in Ade per la prima volta, tornandone con il cane infernale sulle spalle!"

"Perché allora? Perché rischiare la vita con un rito che il Sommo Zeus ha vietato? Sapete bene, madre, che soltanto con una sua autorizzazione avreste potuto recarvi nelle terre di suo fratello, durante i periodi di interregno!"

"Non me l’avrebbe concessa… L’ho letto, nei suoi occhi! Ma ho voluto lo stesso tentare, per aiutare l’uomo a cui mi unii un tempo! Affinché sapesse che non ho mai smesso di pensare a lui, né mai lo farò. Perché l’ho amato e lo amo ancora. Non vi sono motivi per cui debba smettere di amarlo!" –Confessò Ebe, con una maestosa sincerità che stupì i figli, che non immaginavano che ancora provasse sentimenti simili verso il figlio di Zeus.

"Ve ne sono eccome, invece!" –Tuonò Aniceto, allontanandosi dal letto e lamentando irato le mancanze di un padre irresponsabile. –"Madre, pensate a come vi ha trattato, quel vile! Vi ha abbandonato, lasciandovi sola ad affrontare la notte e le pene del mondo! Se ne è andato, senza darvi spiegazione alcuna, soltanto per soddisfare un’improvvisata voglia e per lanciarsi in fallimentari imprese continue, sfociate poi in niente! È soltanto un egoista!"

"Questo non è esatto, Aniceto!" –Intervenne il figlio minore. –"Nostro padre qualche risultato l’ha ottenuto! Tu forse hai smesso anni addietro di seguire le sue gesta, disgustato dal comportamento poco corretto che avuto verso nostra madre, ma se…"

"Delle sue gesta ben poco mi cale, Alessiare! E mi sorprende che tu ancora lo consideri nostro padre, dopo che ha osato abbandonarci, dopo che ha osato lasciare nostra madre, figlia di Zeus e della Regina dell’Olimpo, in lacrime, nel portico dell’incubazione, ad attendere un futuro che non è arrivato mai!" –Esclamò Aniceto, alzando il tono della voce. E obbligando il fratello a fare altrettanto, per imporre le proprie ragioni.

"Questa è la tua versione dei fatti! E non necessariamente corrisponde al vero!"

Aniceto avrebbe voluto rispondergli con un pugno, per strappar via il velo di inganno che offuscava gli occhi del fratello minore, ma fu fermato da un’imperiosa voce proveniente dall’ingresso della stanza.

"Parli con voce onesta, figlio mio! Proprio come avrei voluto sentirti!"

Alessiroe e Aniceto lo riconobbero all’istante, schierandosi d’istinto di fronte al letto ove giaceva Ebe. Del resto, per quanto affaticato dai recenti scontri, pieno di tagli sul nudo corpo e con la barba lunga di una settimana, Ercole era lo stesso eroe immortale che aveva rincalzato loro le coperte prima di andarsene. Quella notte.

"Padre!" –Esclamò Alessiare, sgranando gli occhi felice e muovendo un passo verso di lui. Ma fu fermato subito da Aniceto, che gli afferrò un braccio, stringendolo con rabbia, prima di lanciare una torva occhiata verso l’uomo privo di vesti, che ancora stava ritto sotto l’arco di ingresso.

"Ricomponiti, prima di entrare in questa stanza! Sebbene un chitone non basti per coprire la tua vergogna!"

Ercole non si curò troppo delle lamentele del figlio maggiore, incamminandosi all’interno, diretto verso la febbricitante figura distesa sul letto.

"Ebe…"

"Non hai udito le parole di mio fratello? Sei forse diventato sordo alle richieste degli Dei, tu che un tempo ne hai fatto parte?!" –Intervenne allora Alessiroe, ergendosi di fronte al padre e aprendo le braccia, a sbarrargli il passo.

"Ercole…" –Mormorò allora la Dea della Gioventù, prima di abbandonarsi ad un gemito, che richiamò l’attenzione dei figli, e perdere i sensi. –"La… coppa…"

Solo allora il campione di Tirinto la vide.

Riluceva al centro del salone, raggiunta dai raggi del sole, che parevano giocare con le sue curve perfette. E al suo interno, baluginavano le ultime gocce dell’Ichor della figlia di Era e Zeus, necessarie per concedergli un secondo dono.

Un occhio capace di spaziare su terre lontane.

Ercole sfiorò il sangue divino, che parve turbinare all’interno della coppa, disegnando figure che il Dio non tardò a riconoscere. Erano gli Heroes suoi seguaci, impegnati in sanguinosi scontri con i servitori di Dioniso di fronte alle porte della loro fortezza.

Un’immagine che non poteva appartenere al passato, bensì al presente in corso.

***

Tirinto era infatti sotto assedio da parte di una masnada di satiri armati e Invasate, inebriati dal folle cosmo del Signore del Vino e controllati a vista dal Luogotenente di Dioniso e dal Dio delle Selve. Ma soprattutto era la furia devastante e incontrollata di Nestore a preoccupare.

Tramutatosi in un immenso orso bruno, il Comandante della Legione di Fede era stato ammaliato dal suono del flauto di un Satiro Guerriero e istigato a riversare tutta la sua ira, tutta la sua bestialità, su Tirinto e sugli Heroes suoi compagni. E arginare la sua collera si stava rivelando impresa difficile, quasi disperata.

"Attentiii!!!" –Gridò Antioco del Quetzal, lanciandosi di lato ed evitando un pugno del gigantesco orso, che aprì un cratere nel suolo accanto a lui. –"Dobbiamo fermarlo! Quanto prima!"

"E come?!" –Esclamò Artemidoro della Renna, spaventato. –"Non è certo un docile gattino da domare, né possiamo affrontarlo direttamente! Rischieremmo di ferire il nostro caro amico Nestore, qualora riuscissimo a colpirlo!"

"Qualora… Già, hai proprio ragione!" –Commentò Anfitrione del Camoscio, gettandosi indietro e spingendo via anche l’amico, giusto in tempo per schivare un masso che l’enorme orso aveva sollevato e scagliato contro di loro.

"La furia di Nestore è devastante! Chiunque lo testimonierebbe!" –Annuì Antioco, sollevandosi in aria grazie alle ali della sua corazza. –"Ma ci deve comunque essere un modo per limitare i danni! Proviamo così! Piume del Serpente Infuocato!" –E gli lanciò contro centinaia di penne incandescenti, molte delle quali si persero nel vuoto, poiché l’orso si dimenava continuamente, agitando le braccia a spazzare, e le poche che lo raggiunsero non riuscirono a scalfire la sua cotta protettiva, né la sua coriacea pelle. Lo fecero soltanto infuriare ulteriormente.

"La situazione sta precipitando!" –Parlò allora Alcione, ancora intenta ad osservare la scena dall’alto delle mura di Tirinto, assieme a Neottolemo del Vascello. –"Tieni pronta la Nave di Argo! Abbiamo bisogno di un piano di riserva, per mettere in salvo gli apprendisti e i civili che vivono nella fortezza!"

L’Hero della Seconda Legione annuì, gettandosi in tutta fretta dall’alto bastione, mentre Alcione prendeva Penelope del Serpente sotto braccio, aiutandola a discendere le scale e a raggiungere l’ampio spiazzo di fronte al crollato ponte levatoio, ove la battaglia stava imperversando.

"Aaargh!!!" –Gridò Artemidoro, afferrato dalle possenti mani artigliate dell’orso bruno e stritolato con forza. –"Amico mio!!!" –Esclamò Anfitrione correndogli incontro, ma venne spinto a terra da un brusco movimento dell’animale.

Rimase soltanto Antioco di fronte a lui, ma prima che Nestore potesse avventarsi sull’ultimo Hero della Legione Alata, un’agile figura balzò sulle spalle del ragazzo, usandole come trampolino per spiccare un gran salto in avanti e liberare, con una rapida mossa del braccio, un nugolo di squame acuminate.

"Nesso…" –Mormorò Antioco, mentre l’ardito Eroe della Legione del Mare atterrava compostamente a pochi passi da lui.

Le scaglie affilate si piantarono nelle robuste mani dell’orso, facendolo urlare per quei tagli sottili ma penetranti che gli riempirono il pugno di sangue, spingendolo a gettare Artemidoro a terra, proprio contro Nesso e Antioco, abbattendoli entrambi.

"Beh… Almeno lo abbiamo liberato…" –Commentò l’Hero del Pesce Soldato, rialzandosi e cercando di aiutare i compagni a fare altrettanto. Ma l’ombra di Nestore calò subito su di loro, incapaci di qualsiasi difesa.

Nesso caricò le Frecce del Mare, sia pur dispiaciuto nel doverle usare contro un compagno, ma prima che potesse agire una gabbia di un materiale ferroso, di colore grigiastro, si chiuse su di loro, impedendo agli artigli dell’orso di nuocere.

"Adesso basta!" –Esclamò la virile voce di Druso di Anteus, apparendo alle spalle dei compagni. –"Per quanto tu sia uno degli Heroes più onesti e fedeli, non possiamo permetterci una seconda guerra civile! Non adesso!" –E nel dir questo sfoderò la sua arma da battaglia, un’affilata falce d’argento, alla cui vista l’immenso orso si agitò, ruggendo sotto il sole di quel pomeriggio.

"Druso…" –Commentò Antioco, abbassando lo sguardo addolorato. Per quella nuova guerra che nuovamente li metteva uno contro l’altro, recidendo i legami di sangue e di fratellanza con cui erano cresciuti.

L’infuriato animale fece per lanciarsi contro Druso, ma questi fu abile a balzare in alto e a scavalcarlo, atterrando proprio alle sue spalle e, approfittando della maggior lentezza del bestione, colpendolo con una raffica di pugni al petto, proprio mentre si stava girando. L’impatto fu tale da spingere l’orso indietro, facendolo barcollare, e Druso allungò allora la sua falce, usandola come gancio per afferrare una gamba dell’animale e tirarla in alto, facendolo crollare sulla schiena. Nella caduta, l’orso schiacciò anche alcuni satiri e delle Menadi, troppo lenti per spostarsi in tempo.

"E adesso…" –Mormorò a denti stretti il fabbro di Tirinto, sollevando la falce e caricandola di energia cosmica. Ma non riuscì a lanciarsi avanti e a calare l’arma sulla pericolosa bestia, perché, al di là delle forme disumane e dell’irrazionalità che la dominava, sapeva che era ancora il suo compagno. L’eroe senza macchia con cui il Comandante Chirone spesso battibeccava, segretamente invidioso del rapporto intimo che aveva con il Dio dell’Onestà.

Anche Druso, come Nestore e tutti gli altri, aveva perso molto in quella guerra. Il suo Comandante, a cui era stato fedele fino alla morte, sull’alto colle di Samo, e tutti i suoi compagni. Maschilisti, rudi, in battaglia freddi e spietati, ma permeati da quel senso dell’onore che Ercole aveva infuso in loro. E adesso, per sua stessa mano, avrebbe dovuto perderne un altro?

Tremò, Druso, e quasi perse la presa della falce, incapace di discernere tra la ragione e il cuore, e se non fosse stato per il grido di Antioco non si sarebbe accorto che l’orso stava cercando di risollevarsi, annusando l’aria in cerca di prede e sangue.

"Ma dobbiamo comunque fermarlo…"

"Proviamo così!" –Intervenne allora una giovane voce, mentre un’agile figura saettava attorno al corpo dell’enorme animale in procinto di rialzarsi, gettando su di lui una grande rete. Una maglia metallica recuperata poc’anzi nelle fucine di Tirinto.

"Archia!" –Esclamò il fabbro, alla vista dell’allievo di Gerione.

Antioco, Anfitrione e Artemidoro, esauritisi gli effetti della gabbia di Druso, corsero ad aiutare il ragazzo, cercando di tendere la rete di metallo il più possibile, per quanto la foga tumultuosa di Nestore rendesse difficile quell’impresa.

"Poveri stolti! Il delirio animalesco che ha invaso il vostro compagno ha dunque raggiunto anche voi? Perché soltanto dei folli possono pensare che quella misera maglia possa bloccare questa splendida creatura! E vi assicuro che io di orsi me ne intendo!" –Esclamò un uomo, apparendo accanto a Druso, quasi fosse stato al suo fianco per tutto quel tempo ed egli non se ne fosse accorto.

Non troppo alto, rivestito da un’armatura verdastra e marrone, coprente quanto una corazza di medio rango, il Satiro Guerriero dai capelli color verde pisello sorrideva soddisfatto, sfiorando con la mano il flauto a sei canne che portava legato al collo. La diabolica arma con cui aveva ammaestrato l’Orso Kodiak.

"Celeneo del Fauno, o Pastore di Orsi anche mi chiamano! Con riferimento al mito di Arcade, Arctophylax, figlio di Zeus e della Ninfa Callisto, da Era per gelosia tramutata in orsa e quasi uccisa dal figlio inconsapevole in una battuta di caccia!" –Ridacchiò, osservando i goffi tentativi di Archia, Druso, Antioco e degli altri di intrappolare Nestore con quella maglia, che già la furia dell’animale stava iniziando a strappare e lacerare in più punti.

"Non abbiamo la pretesa di fermarlo per sempre! Solo quanto basta…" –Commentò una leggiadra voce di donna, comparendo alle spalle del gigantesco orso e iniziando a chiamarlo per nome. –"Nestore! Nestore! Ascoltami, amico mio!"

"Penelope…" –Mormorò Antioco, osservando la Sacerdotessa del Serpente avvicinarsi con passo fermo, prima di essere sbattuto a terra da un brusco movimento dell’animale. –"Stai… attenta… indietro!"

Ma la donna parve non ascoltarlo neppure, tutta intenta a fissare dritta negli occhi la fiera che torreggiava sopra di lei. Apparentemente senza paura.

"Nestore, ascoltami! Sotto quella cruda pelle, e quest’irragionevolezza che ti ha invaso, il tuo cuore arde ancora! Il cuore di un eroe, di un amico! Di un compagno di vita! Risveglialo, e liberalo dalla maledizione del fauno!"

In tutta risposta il grande orso si agitò, strappando le maglie della rete con un sonoro ruggito e gettando Archia e gli altri Heroes a terra. Celeneo fece allora cenno ai satiri e alle Menadi di avanzare, mentre egli, sogghignando soddisfatto, pregustava già la caduta di Tirinto.

"Non devono passare!!!" –Gridò Druso, cercando di rialzarsi, mentre Artemidoro e Anfitrione si ergevano di fronte al ponte levatoio per impedire loro di attraversarlo. Ma, non volendo ferirli, potevano soltanto subire inermi i loro colpi, i loro graffi.

"E non passeranno!" –Mormorò allora Penelope, giungendo le mani a preghiera e concentrando il cosmo, che liberò sotto forma di un arco di luce che dalle mura di Tirinto si estese fin oltre il fossato, spingendo indietro i satiri e le Invasate e respingendo persino gli attacchi del grande orso. –"La mia maschera non coprirà soltanto il mio volto ma servirà per difendere anche la nostra città! La tua città, Nestore! Costi quello che costi!"

"È inutile, Penelope! Del glorioso Eroe che si batté con Era ben poco è rimasto!" –Commentò Druso, affiancando la compagna. –"Un tempo Nestore mi disse che ogni volta che adottava la sua animalesca forma da battaglia era come se perdesse una parte di sé, la parte più logica e misurata del suo essere! E temeva, disperatamente temeva, di arrivare un giorno a perdere il controllo!"

"Dovesse accadere… uccidimi, Druso! Cala la tua falce su di me, e mozzami la testa prima che mi macchi di vergogna!" –Gli aveva confessato, con tono implorante ma fermo, il Comandante della Legione di Fede.

"Quanto mi costò quel giuramento!" –Mormorò Druso, con gli occhi lucidi di rabbia e di lacrime. –"E quanto adesso desidererei poterlo infrangere!"

"Vorrei dartene l’opportunità, Hero di Anteus!" –Affermò Penelope, espandendo il proprio cosmo che si chiuse, come i petali di un bocciolo, attorno all’orso, serrandolo in un tenero abbraccio. –"Risveglia la coscienza che credi di aver perduto, Nestore! E torna da noi! Torna a combattere con onore! Come affrontasti Boopis ed Era, sul colle dal cielo rosso! Per Ercole, per i tuoi compagni, per tutto ciò che ritieni giusto!"

Le parole della Sacerdotessa volarono dritte al cuore dell’orso, che per un momento parve rallentare davvero la sua carica devastante, guardandosi intorno confuso. Ma bastò un nuovo soffio, del flauto a sei canne di Celeneo, per portarlo a ruggire ancora.

"Maledetto!!!" –Ringhiò Antioco, lanciandosi sul Satiro Guerriero con il pugno carico di infuocata energia cosmica. Ma l’assalto poco coordinato fu facilmente schivato dal Pastore di Orsi, che si portò alla destra dell’Hero e lo colpì con un calcio sul ventre, scagliandolo indietro.

Non fece però in tempo a poggiare di nuovo la bocca sulle canne che due sfere di energia sfrecciarono nella sua direzione, obbligandolo a balzare indietro per evitarle.

"Ci siamo anche noi!" –Dissero Anfitrione e Artemidoro, scattando avanti. –"Non dimenticarlo! E se riusciremo a toglierti il flauto forse la pazzia di Nestore scemerà!"

"Doppiamente illusi!" –Li sbeffeggiò Celeneo, soffiando nell’arma e rallentando la corsa dei due. –"In primo luogo perché credete di potermi raggiungere, senza mettere in conto una cosa! Il totem che vi rappresenta! Un animale anch’esso, come l’orso di Nestore! Poca rabbia, è vero, posso cacciar fuori da una renna o da un camoscio, ma sufficiente per farmi divertire ancora un po’!" –E osservò gli Heroes bloccarsi di colpo, quasi afferrati da mani invisibili, mentre fischiettava ridendo nelle canne del flauto. –"In quanto al secondo motivo che vi rende sciocchi e ingenui…"

"È che anche rompendo il tuo strumento musicale non porremmo comunque fine al delirio che ha invaso Nestore!" –Completò la frase Nesso del Pesce Soldato, avanzando fino a portarsi a fianco di Artemidoro e Anfitrione, che lo guardarono con rinnovata ammirazione poiché il ragazzo pareva non risentire dei suoni di Celeneo.

"Proprio così, barbetta! Sei anche acuto, oltre che irresponsabile! A starmi così vicino potrei tirar fuori tutte le tendenze guerriere insite nel tuo simbolo!"

Ma Nesso neanche lo ascoltò, limitandosi a muovere il braccio verso destra, liberando una freccia di energia azzurra che si piantò nel flauto, facendolo esplodere, e tagliò un pezzo delle labbra di Celeneo, portandolo a toccarsi la bocca con una mano e a vedersela inondare di sangue.

"Questo significa che non c’è modo per invertire il sortilegio, e che Nestore soltanto può ritrovare se stesso!" –Commentò l’Hero rattristato, voltandosi verso l’enorme orso che da qualche minuto martellava di pugni continui la barriera che con immensa fatica Penelope stava mantenendo, non essendo adatta per frenare attacchi fisici.

"Non c’è più tempo, amico mio!" –Mormorò la Sacerdotessa, cercando nuovamente di raggiungere il cuore dell’orso. –"Devi risvegliarti adesso e cacciar via questo velo d’ombra che ha offuscato il tuo animo!"

In quella la grande fiera ruggì di nuovo, dimenandosi forsennatamente e travolgendo tutti coloro che gli stavano attorno, persino alcuni satiri di Dioniso. Sollevò dei massi e li scagliò avanti, cercando di superare lo scoglio di Penelope, ma ella non cedette, rimanendo ferma, come un giunco in mezzo alla tempesta.

Fu soltanto la terza rinnovata carica dell’orso che mandò in frantumi la trasparente protezione, di fronte agli sguardi preoccupati dei compagni, impegnati in quel momento a difendersi dai satiri e dalle Invasate. Ma anche allora la donna non si mosse, né provo timore, poiché in cuor suo era certa di non doverne provare.

"Cosa mai dovrei temere dal mio Comandante, da uno dei più fedeli Eroi di Tirinto? Da un amico…" –Disse, mentre l’artiglio della fiera si chiudeva su di lei, stringendo con forza il suo gracile corpo e facendo vibrare la corazza del Serpente.

"Penelopeee!!!" –Gridò Antioco, dal campo di battaglia, mentre la Sacerdotessa veniva sollevata e stritolata dalla morsa del gigante. –"Consigliera…" –Commentò Artemidoro, con preoccupazione.

"Se siamo stati qualcosa di più che carne da cannone, se abbiamo vissuto davvero nel segno dell’onore e dell’amicizia, allora io non ho niente da temere!" –Furono le ultime parole della Sacerdotessa, il cui cosmo avvampò, chiudendosi sul rozzo corpo della fiera. –"In caso contrario, non ho capito proprio niente e merito solo di morire!"

Sembrò davvero che l’orso l’avrebbe stritolata, con quel pugno ferito così carico di furore, ma poi posò lo sguardo sulla sua maschera, sulle intarsiate decorazioni d’oro, e la sfiorò con un dito, quasi ammaliato, perdendosi nei ricordi che la stessa pareva emanare. Bastò il suo tocco, un po’ rozzo e goffo, a smuovere la maschera e a farla cadere, rivelando il volto della donna. Un volto che, seppur proibito, pure Nestore aveva visto, sulla cima di Samo, dopo che Era aveva distrutto la corazza del Serpente.

"Torna a rimembrar l’audace eroe che eri…" –Mormorò Penelope, bruciando al massimo il proprio cosmo. –"Abbandonati alla corrente del ricordo, lascia che la tua anima passeggi di nuovo nei Giardini della Memoria!"

Il colossale orso fu scosso da un tremito improvviso, perdendo tutta la baldanza e la carica che lo avevano contraddistinto, e mosse un passo indietro, barcollando incerto, di fronte allo sguardo ansioso degli Heroes e a quello attento di Celeneo. L’onda emotiva parve scuoterlo nel profondo e la Sacerdotessa sentì la morsa del suo arto cedere sempre più, finché le dita non si aprirono ed ella poté tornare a muoversi. Fu in quel momento che lo investì di nuovo, trascinandolo con forza nei Giardini della Memoria, lasciando che il flusso incessante dei ricordi lo dominasse, riportandolo indietro, a quel che era stato un tempo, prima che la bestialità lo divorasse.

Le sue forme presero a mutare, i muscoli si contrassero, il pelo scomparve, lasciando rivedere il volto rude e battagliero del Comandante della Legione di Fede, che si portò una mano alla testa, stordito e inizialmente dimentico delle ultime ore. Penelope, caduta accanto a lui, gli sorrise, prima di recuperare la maschera e indossarla di nuovo. Non ebbe bisogno di spiegargli niente, perché Nestore ritrovò tutto nella sua mente, gocce di memoria che la Sacerdotessa gli aveva infuso.

"Sono lieta di rivederti, Comandante!" –Disse Penelope, rialzandosi.

"Incredibile!" –Commentò Celeneo, sinceramente stupefatto che la donna fosse riuscita ad invertire la trasformazione. –"Credevo che niente avrebbe potuto vincere la furia animalesca, che non esistesse potere superiore alla bestialità! E invece, anche a prezzo della vita, questi uomini hanno lottato non per ferire il loro compagno, bensì per salvarlo! Quale sentimento straordinario e inconsueto per dei guerrieri!"

"C’è un fattore che non avevi considerato nel tuo piano, schiavo del Dio del Vino!" –Lo apostrofò Nestore, avanzando verso di lui. –"Qualcosa che supera ogni avversità! L’amicizia! E tu, che ti sei servito di me, per far del male ai miei amici, sentirai sulla tua pelle con quanta foga ruggisce davvero l’orso Kodiak!" –E nel dir questo caricò il suo possente braccio destro di cosmo incandescente, mentre Celeneo, indietreggiando impaurito, gli lanciava contro raggi di energia verdastra. Troppo deboli per poterlo ferire. –"Che nella tua prossima vita tu possa comprendere a pieno il valore dell’amicizia! Ruggito dell’Orso Bruno!"

La veemenza imperiale dell’attacco devastò la corazza e il corpo del Satiro Guerriero, cancellando dalla storia colui che aveva tentato di ammaestrare un orso ed era finito vittima della sua stessa zampata.