CAPITOLO VENTISETTESIMO: LE ALI DI ICARO.
"Sei ancora in tempo a ritirarti, Toma di Icaro!" –Esclamò Chimera, puntandogli contro un dito. –"La mia tenzone non è contro di te, ma contro i Cavalieri di Atena. Ma non fraintendermi, sarò ben lieto di metterti al tuo posto, bruciandoti tra le mie fiamme come il tuo antenato mitologico, dopo aver portato all’estinzione la casta dei cosiddetti eroi di Grecia. Perciò, scegli! Puoi andare a farti ammazzare da Karkinos o dagli altri figli che la Madre sta generando o aspettare che finisca di massacrare questi pivelli, prima di massacrare anche te. Non ci vorrà molto, in fondo!"
"Sui Cavalieri di Atena non leverai la mano! Soprattutto su mia sorella!" –Tuonò Toma, facendosi avanti, avvolto nel suo cosmo intriso di fulmini azzurri.
"Ooh, dunque è per lei che combatti. Per difenderla? Per farla sentire degna di te? Uhm, abbiamo qualcosa in comune, sia pur alla lontana!" –Disse Chimera, strusciandosi il naso, prima di scattare avanti. –"Ma non credere che per questo mi tratterrò!" –Si staccò da terra e si lanciò di tacco verso il volto di Toma, che fu lesto a scansarsi e ad afferrarlo per un piede, scagliandolo lontano.
Ma Chimera, che aveva previsto quella mossa (o forse l’aveva provocata), sgusciò via dalla sua presa, piegando il ginocchio e poi tempestandogli la faccia di calci, così tanti da frantumargli la maschera e spingerlo a terra sanguinante.
"Toma!" –Gridò subito Castalia, rialzandosi, affiancata da Tisifone e Asher.
"Sta’ indietro!" –La intimò subito lui, strappando una risata a Chimera.
"Quanto amore fraterno! Sono commosso!" –Disse, prima di sollevare un piede e batterlo con forza nel suolo. –"Zoccolo della capra infernale!" –Una faglia si aprì davanti a lui, distruggendo in fretta il terreno che lo separava dai tre Cavalieri di Atena, che dovettero balzare di lato per non precipitare nell’abisso oscuro.
Asher, troppo lento, si aggrappò al bordo del burrone, prima che Tisifone lo raggiungesse, afferrandolo per un braccio. Ma per quanto tirasse, la Sacerdotessa non riusciva a tirarlo su, come se vi fosse qualcosa che lo ancorava in quella scomoda posizione. Sporgendosi leggermente e guardando in fondo, Tisifone vide una luce soffusa, di colore violaceo, baluginare fredda. E lampeggiare. Quasi stesse parlando. Quasi li stesse chiamando.
Sogghignando, Chimera batté di nuovo il tacco e il suolo tremò, gettando Asher e Tisifone nell’abisso.
"Nooo!!!" –Gridò Castalia, rialzandosi. –"Cosa hai fatto? Dove sono finiti?"
"Io non ho fatto niente. Sono loro che hanno prestato ascolto ai richiami della Madre. È comprensibile, in fondo, che li abbia voluti a sé. Ha fame. Molta fame. E deve nutrirsi, anche se da quei due ben poco nutrimento riceverà."
"La Madre?!" –Balbettò la Sacerdotessa dell’Aquila, ma Toma, riavutosi, si mise in mezzo ai due, evocando una lancia di puro cosmo.
"Smettila di perderti in chiacchiere! È con me che devi combattere!"
"Che fastidioso!" –Borbottò Chimera, mentre il Cavaliere Celeste scattava avanti, mulinando l’asta di energia, che l’altro prontamente evitò. –"Sicuro di non essere un Cavaliere di Atena? Sei noioso come loro!"
"E se lo fossi?"
"Oh! Incontreresti per primo la fine di questo lungo penare!" –Chiosò Chimera, gettandosi di lato, mentre la lancia di cosmo strusciava su un fianco della sua corazza, annerendola.
"Resistente quella tua armatura. E sembra anche di ottima fattura. Chi l’ha costruita?"
"Che Cavaliere Celeste sei se non riconosci neppure la mano di Efesto, Figlio e Fabbro del tuo Signore?"
"Efesto?! Impossibile! Perché mai avrebbe dovuto?" –Esclamò Toma, sorpreso, fermando la propria carica, giusto quel mezzo secondo di cui Chimera abbisognò per travolgerlo con una vampa di energia infuocata, spingendolo indietro e disperdendo la lancia di cosmo. –"Mentitore e baro!"
"E tu sei lento e stupido! Credi che un leone risparmierà una gazzella solo perché è carina, giovane o stanca? Le leggi della caccia sono altre, ragazzo. Le imparerai a tue spese! Ora muori! Sbranato dalle Fauci delle Tre Bestie!" –Gridò, liberando il proprio assalto, che sfrecciò verso Toma alla velocità della luce.
Il Cavaliere di Zeus incrociò le braccia davanti al volto, subendo in pieno l’attacco, che danneggiò i suoi bracciali, prima di venir azzannato a un fianco da un secondo colpo, che non aveva neppure visto arrivare. Solo allora, con la coda dell’occhio, notò un movimento alla sua destra, un ciuffo di capelli rossicci che si poneva di fronte a lui, il luccicare di un’armatura d’oro che venne danneggiata a una gamba.
"Castalia!" –Mormorò, vedendo la sorella accasciarsi ai suoi piedi.
"Era… un attacco in tre fasi… triplice, come la Chimera…" –Sillabò lei a fatica.
"Donna debole e imprevidente, ma acuta. Dovresti fare la maestra!" –Ironizzò Chimera. –"Ringrazia l’armatura dei Pesci o il morso del serpente ti avrebbe ucciso. Rimedierò adesso!" –E fece per scattare avanti, ma Toma, rapidissimo, saltò sopra la sorella, evocando una lancia di cosmo, e piombò sull’avversario, conficcandogliela in un piede.
Chimera strillò, mentre folgori azzurrognole scivolavano lungo l’asta, sconquassando il suo corpo e scheggiando la sua armatura, prima di accasciarsi davanti agli occhi di Toma, che allora ritirò la lancia, lasciandolo libero.
"Errore!" –Sibilò l’allievo di Polemos, rialzando il capo e rivelando un ghigno perfido, mentre già il suo cosmo turbinava attorno al braccio destro. –"Beccati ‘sta zampata!" –E lo mosse, artigliando il giovane al fianco già ferito dal precedente attacco, scagliandolo indietro, con l’armatura danneggiata, le vesti strappate e mille squarci aperti sulla pelle.
"Toma!!!" –Rantolò Castalia, allungando un braccio nella sua direzione.
"Non sprecare il fiato, vi riabbraccerete a breve! Dovreste persino ringraziarmi per il dono che vi faccio! Non è da tutti morire assieme a qualcuno che si ama!"
"Dunque è per questo che combatti?" –Lo interruppe la Sacerdotessa. –"Per vendetta. Per essere stato separato da qualcuno a cui volevi bene."
"In un certo senso. Morire fianco a fianco al mio maestro l’ho sempre considerato un onore. Se fossi riuscito a resistere, se avessi stretto i denti e superato ogni avversità, sarei potuto rimanere con lui, onorarlo e ringraziarlo per avermi scelto, salvandomi dalla mediocrità e dalla solitudine e facendo di me il suo secondo. Il fido secondo della Personificazione della Guerra, da cui ho appreso ogni tecnica di lotta, anche quelle più subdole. Ma quel privilegio mi è stato portato via dal Cavaliere di Phoenix, che ha ucciso il mio mentore, e per quell’oltraggio io punirò voi Cavalieri di Atena, che già odiavo, sterminando la vostra casta. Non ci vorrà molto, in fondo, quanti ne rimangono? Ben lontani sono i tempi in cui le ottantotto armature avevano tutte un possessore. Vi siete uccisi l’un l’altro e poi Ades, Ares e Anhar hanno fatto il resto. Peccato per me, che mi sarei divertito di più!"
"Tutto quest’odio, solo per vendicare il tuo maestro? Non fraintendermi, l’amore per il proprio mentore è bello e nobile ma…"
"Taci, donna! Non parlare del Sommo Polemos!" –Ringhiò Polemos, balzando su Castalia e tempestandola di pugni, che distrussero l’elmo dei Pesci e la maschera della giovane. –"Egli non era solo un maestro d’armi. Egli era…"
Già, cos’era davvero? Non avrebbe voluto farsi quella domanda, non adesso, non nel pieno dello scontro. Ma non poté evitarselo, perché Polemos era stato molte cose per Chimera. Molte cose per Vaughn. Ma la Sacerdotessa non avrebbe capito, nessuno poteva capire.
"Nessuno!" –Avvampò, colpendola con un pugno sul cranio e sbattendola a terra, in una pozza di sangue. Ansimando a fatica, il biondino si guardò il pugno insanguinato, rendendosi conto di aver disatteso proprio uno degli insegnamenti di Polemos.
"Mai, in nessun modo, perdere la calma di fronte a un avversario." –Ripeteva sempre. –"Un leone non deve dare spiegazioni. Un leone semplicemente si nutre. Le chiacchiere alle iene, i timori agli avvoltoi. La vittoria a noi."
Un rumore alle sue spalle lo fece voltare verso Toma, livido e dolorante, che si stava rimettendo in piedi. Chimera non gli diede tempo di riaversi, saettando su di lui e iniziando a tempestarlo di colpi, come aveva fatto con la donna. Era il fratello di un Cavaliere di Atena, era un amico dei Cavalieri di Atena e come tale doveva morire.
Sì, devono morire tutti quei bastardi che mi hanno umiliato! Si disse, espandendo il proprio cosmo. E, in quel momento, mentre uno schizzo di sangue di Toma lo bagnò in faccia, la sua mente volò indietro, a un giorno di dieci anni addietro, quando era la sua faccia ad essere una maschera tumefatta di sangue rappreso.
Era accaduto sui Pirenei, dove si era rifugiato per fuggire all’ETA che aveva massacrato la sua famiglia in un attentato. Ancora imbrattato dei resti dei genitori, aveva vissuto per una settimana di bacche, radici, frutti di bosco e vani tentativi di catturare un po’ di selvaggina. Era in quello stato pietoso che lo aveva trovato il Cavaliere di Capricorn.
"Bastardo, muori!" –Ringhiò, affondando il pugno nel ventre di Toma, incapace di capire a chi si stesse riferendosi. Tremando, Chimera estrasse il braccio, spingendo a terra il Cavaliere Celeste, che crollò a pancia in su, il viso rivolto alle stelle. Con aria schifata, l’allievo di Polemos scosse la mano dalle interiora del nemico, dispiacendosi che non fossero quelle del Cavaliere d’Oro.
Aveva saputo che era morto un paio d’anni addietro e che poi era risorto per aiutare i Cavalieri contro Ade. Ma entrambe le volte Chimera non aveva potuto intervenire. Era troppo presto, a sentire Polemos, per rivelare la loro presenza.
"Un cacciatore non è mai frettoloso, ma paziente. Sa aspettare, nell’ombra, mentre i nemici si sbranano tra di loro e poi, fresco di forze, interviene per finire il lavoro."
Questo, del resto, era ciò che avevano fatto sia loro che Nyx, recuperando pian piano le forze e sfuggendo all’occhio dei più potenti. Zeus, Amon Ra, persino Avalon non li avevano visti, ma, se anche li avessero notati, che pericolo avrebbero potuto vedere in loro? Due giovani che correvano per le foreste d’Europa, rivestiti di pelli, a caccia degli ultimi animali selvaggi che l’uomo non aveva ancora massacrato. Non uno spettacolo che dovesse in qualche modo preoccupare i regni divini.
Eppure, da quelle caccie Chimera aveva imparato ben più di quanto fatto nei due anni passati in Spagna con Capricorn, che a stento voleva insegnargli qualcosa. Malvolentieri, il Cavaliere d’Oro l’aveva preso sotto la sua protezione e sempre più malvolentieri aveva acconsentito a condividere le sue conoscenze con lui, geloso della Spada Sacra che aveva ricevuto, lui e lui soltanto. Spada che, a sentir i suoi tronfi sproloqui, aveva ucciso il più grande traditore del Grande Tempio.
"Il tuo cosmo è impuro!" –Gli aveva detto Capricorn, prima di cacciarlo. –"Non meriti di divenire Cavaliere, neppure apprendista." –Aveva aggiunto, guadagnandosi un’occhiata di puro odio dal biondino, che avrebbe voluto cavargli gli occhi, ma il servitore di Atena lo aveva atterrato, ferendolo più volte.
"Tante ferite, ma nessuna mortale." –Aveva subito notato Polemos quando l’aveva incontrato, l’indomani. –"Sembra che il tuo maestro, in fondo, ti volesse bene."
"Lui non era il mio maestro. Lui non mi ha insegnato niente."
"Molto bene. Vedremo di rimediare." –Aveva chiosato il Signore della Guerra, con un sorriso, tirandolo su e invitandolo a seguirlo.
"Dove andiamo?"
"A caccia, Vaughn. Andiamo a caccia!"
***
Toma giaceva languente, lo sguardo perso nella cortina d’ombra che rivestiva il Primo Santuario e che, a quel punto, era certo avesse raggiunto i confini dell’Europa. E le vette del Caucaso ove era stato confinato per anni.
Era strano essere libero. Strano e bello. Una sensazione che non pensava sarebbe tornato a provare, dopo tutto quel tempo trascorso a osservare i deliri del mondo, subendone le intemperie e il menefreghismo. Nessuno, dei suoi antichi compagni, era venuto a fargli visita, tutti fedeli ai dettami di Zeus. Per i Cavalieri Celesti, come per il resto del mondo, Toma di Icaro non era mai esistito, vittima della damnatio memoriae che lui stesso aveva scatenato.
Soltanto Euro era venuto a volte a trovarlo, sebbene non avessero mai parlato.
Sedeva da solo sulla cima di Elbrus, cullato dai venti di cui era signore, e meditava. Era un Dio strano, il figlio di Eos, forse non troppo a suo agio nella sua condizione divina, una condizione che invece Toma avrebbe voluto possedere. Per questo aveva lottato, per questo si era sempre spinto oltre, per raggiungere quello status che Giasone e gli altri Cavalieri Celesti possedevano per diritto di nascita, ma che a lui, in quanto uomo, era stato negato.
"Un uomo non può diventare un Dio!" –Gli aveva detto Zeus, quando quel giorno l’aveva scortato nel Caucaso e Efesto lo aveva incatenato al monte. –"E tu lo hai dimenticato. Hai dimenticato l’umiltà del servire, accecato dalla brama di avere, finendo per mancarmi di rispetto."
"Io… quello che ho fatto… l’ho fatto solo per lei. Per essere forte per proteggerla. Non è a questo che serviamo? Per difendere chi abbiamo caro?"
Zeus non aveva risposto, allontanandosi nella nebbia con tutti i suoi pensieri, sensi di colpa e dubbi che, nel suo io, l’avevano tormentato per tutti quegli anni.
"Avevi ragione quel giorno e io non volli ascoltarti." –Parlò allora una voce maschile. –"Difendere gli altri. Siano nostri fedeli, nostri consanguinei o gli uomini del mondo, che hanno smesso di adorarci e che persino ci insultano, bestemmiando il nostro nome e sputando sui nostri simboli. Per questo abbiamo i nostri poteri. Per questo siamo quello che siamo: gli Dei immortali e i loro Cavalieri."
"Mio Signore…" –Mormorò infine Toma, muovendo le dita della mano destra.
"Alzati, Icaro. Sei un uomo, è vero, e non possiedi ali, ma questo non significa che tu non possa volare." –Continuò Zeus, mentre a Toma sembrò di sentire mani possenti che lo tiravano su, rimettendolo in piedi. –"Non sei neppure un leone, eppure ciò non ti impedisce di lottare e ruggire. Né sei il cielo, ma non per questo smetterai di tuonare e scagliar fulmini, non è vero?"
"Io… no, mio Signore. Non lo farò! Tutto quello che sono lo devo a voi e in onore vostro combatto!" –Affermò Toma, chiudendo la mano a pugno, espandendo il cosmo, che turbinò attorno a lui, costellato da migliaia di scintille energetiche. Distratto da quell’emanazione cosmica, Chimera si voltò, proprio mentre il Cavaliere Celeste sollevava il braccio destro al cielo, evocando i fulmini dal cielo profondo. –"In nomine vostro, Zeus! Lamento di Strobilus!"
La miriade di folgori investì Chimera, per quanto cercasse di evitarle, scattando di lato in lato. Ma erano tante, troppe, e a Chimera sembrò di scorgere persino una mano divina a sostegno del Cavaliere Celeste. Così, ricordando i dettami di Polemos, bruciò il cosmo, scatenando il suo feroce attacco, proprio mentre veniva martellato da quella selva di fulmini.
"Quando sarai all’inferno, non ti rassegnare. Continua ad andare avanti. Poco importa quanto bruceranno le fiamme. Tu potrai bruciare ancora di più!"
"Aaargh!!!" –Gridò Chimera, mentre attorno a sé apparivano le sagome di tre bestie spaventose, una capra furiosa, un leone famelico e un serpe dai denti velenosi. Tre bestie che poi si fusero in una sola, esplodendo e disperdendo la pioggia di folgori. –"Fauci delle Tre Bestie!" –Tuonò. Ma proprio in quel momento un ultimo fulmine lo colpì in pieno, schiantando l’elmo e parte della sua corazza e mozzando l’assalto a metà, che sfiorò soltanto Toma. –"Che… cosa?" –Rantolò, sputando sangue, incredulo per non aver visto quell’attacco.
"Stupito? Non dovresti esserlo, perché anche tu possiedi un colpo segreto che colpisce in più fasi. Colpevolizza te stesso per avermi dato l’idea!" –Chiarì Icaro, avvicinandosi. –"Doppio attacco, tuono e lampo, proprio come duplice è la cima di Elbrus, che gli antichi chiamavano Strobilus, la Montagna Eterna ove fui confinato!"
"Maledetto… mi hai fuorviato…"
"Lo avresti notato, tu non fossi stato troppo preso dai tuoi ricordi, quali essi siano." –E, nel dir questo, Toma balzò su di lui, la lancia di energia stretta in mano, la punta rivolta al cuore di Chimera.
"No!!!" –Gridando, il fedele di Polemos abbassò le braccia, deviando l’affondo, che gli si piantò nel ventre, trapassando la corazza forgiata da Efesto e a lui rubata.
"Vuoi dirmelo, adesso? Perché la indossi?"
Chimera lo guardò, tossendo sangue, poi osservò l’addome sanguinante dentro cui stava fluendo il cosmo di Icaro, facendolo sussultare, e allora scoppiò a ridere.
"No." –Si limitò a rispondere.
In quel momento la sua coda serpentiforme scivolò lungo la schiena di Toma, per poi avvolgersi attorno al suo collo e strattonarlo indietro. La lancia di energia si dissolse, Chimera si accasciò e il Cavaliere Celeste venne scagliato fin oltre il bordo della faglia, tra le grida di Castalia.
"Eh eh. Buon viaggio Icaro. Ti sei avvicinato troppo alla fiamma ed essa ti ha scottato. Non avevi imparato la lezione?" –Ironizzò l’allievo di Polemos, tenendosi l’addome sanguinante. Fece per rialzarsi ma fallì, crollando di nuovo sulle ginocchia, ringraziando Karkinos e le altre creature che stavano tenendo impegnate le forze dell’Alleanza, o qualcuno sarebbe potuto giungere a finirlo.
Si guardò intorno, ammirando il frutto del suo lavoro. Aveva offerto cinque Cavalieri alla Madre, ormai prossima al risveglio, e altri quattro giacevano moribondi poco distante. Non se l’era cavata male, per quanto nessuno di loro fosse la Fenice.
Stringendo i denti, Chimera si rialzò e, se non avesse avuto timore che potesse udire persino i suoi pensieri, avrebbe maledetto Erebo per averlo assegnato alla Porta delle Tenebre, anziché lasciarlo libero di unirsi a Supay e a Whiro alla Porta del Giorno. Convinto che comunque non avrebbe più rivisto Phoenix, iniziò ad avanzare verso i corpi ustionati di Reda, Salzius e Nemes, prima che Castalia lo richiamasse.
"Ancora viva, Sacerdotessa Guerriero? Sono le ali dell’aquila a tenerti su o la vitalità dei pesci dorati? No, non rispondermi. Sono comunque bestie destinate ad essere schiacciate sotto il mio tacco!" –Esclamò Chimera, bruciando il cosmo e sollevando al qual tempo la gamba destra. Ma prima che potesse sbatterla a terra, un paio di mani gli bloccarono il piede, costringendolo a chinare lo sguardo verso Nemes, che, ferita, seminuda e dolorante, aveva ancora abbastanza forza per trattenerlo. –"Stupida donna, non potevi startene buona e morire? No, dovevi per forza farmi infuriare?" –E agitò la gamba per liberarla, sollevando e sbattendo Nemes più volte contro il terreno, senza che lei accennasse a lasciarlo andare.
Proprio in quel momento altre quattro mani si unirono a quelle della ragazza, mentre Reda e Salzius rantolavano al suo fianco, decisi a imbrigliare la triplice bestia.
"Ragazzi!" –Mormorò Castalia. –"Cavalieri!"
"Cadaveri!" –Puntualizzò Chimera, espandendo il cosmo e liberando violente vampe di fuoco che aggredirono le braccia dei tre Cavalieri di Bronzo, facendoli urlare. –"Mi dispiace per la Madre ma temo vi troverà un po’ bruciacchiati! Croccanti, forse!"
"No, se io ti fermo prima!" –Esclamò Castalia, portando il cosmo al parossismo, che scintillò attorno a lei, sollevandosi sotto forma di un’aquila dalle piume d’argento rigate d’oro.
"Provaci! Spezzerò le tue ali!"
"Le ali di un Cavaliere non possono essere spezzate!" –Disse allora una voce maschile. –"Soprattutto di un Cavaliere che combatte per proteggere chi ha caro!" –E, nel dir questo, una sagoma avvolta in un’aura celeste balzò fuori dal baratro, spinta in alto da ampie ali di energia.
"Toma!" –Gridò Castalia, mentre il fratello si librava in aria, roteando su se stesso, con entrambe le braccia sollevate e unite sopra la testa.
"Insieme, sorella! Lancia di Icaro!!!" –E sfrecciò verso Chimera.
La Sacerdotessa dell’Aquila annuì, scattando avanti, il pugno che sfrigolava lucente energia. Bloccato da Nemes, Reda e Salzius, Chimera non poté muoversi, soltanto contrastare il doppio attacco con le tre bestie di cosmo. Ma il leone venne infilzato dalla lancia energetica di Toma, che proseguì la corsa piantandosi nel costato di Chimera, poco sopra la precedente ferita, e le corna della capra furono tenute a bada dai pugni luminosi di Castalia. E quando la coda serpentiforme si sollevò, Chimera non aveva ormai più forze neppure per indicarle dove colpire.
Cadde all’indietro, con l’armatura in frantumi, così come tutti i suoi bei progetti di vendetta. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma la bocca impastata di sangue e morte glielo impedì. Poté solo ricordare i tre motivi per cui era sceso in battaglia: vendicare Polemos, uccidendo Phoenix (e non l’aveva fatto), massacrare i Cavalieri di Atena per essere stato bandito da Capricorn (e non c’era riuscito) e infine…
Il terzo motivo non lo ricordava neppure più. C’era soltanto il vuoto oltre i ricordi recenti, che si facevano sbiaditi e parvero scomparire man mano che la linfa vitale lo abbandonava. C’era stato un terzo motivo o semplicemente combatteva per il piacere di farlo? Un colpo di tosse gli fece sputare sangue e sentì qualche costola che si spezzava, sotto l’armatura ormai in frantumi.
L’armatura, già. Eccolo il terzo motivo. Lo spirito della Chimera.
Quando l’aveva accettato, quando Polemos lo aveva evocato per dargli il potere che nessun Cavaliere d’Oro avrebbe potuto donargli, aveva accolto in sé anche i ricordi della bestia, la sua furia, la sua fama di guerra. E il sapore amaro della sconfitta inflittagli da Bellerofonte di Pegasus.
Pegasus. Ecco chi doveva ammazzare.
Ma anche quel punto l’aveva mancato.
Con la consapevolezza di essere un totale fallimento, Vaughn, Signore delle Tre Bestie, allievo di Polemos, Luogotenente dell’Armata delle Tenebre, posseduto dallo spirito della Chimera, morì.
***
Nei sotterranei del Santuario delle Origini, una sagoma d’ombra strisciava lungo le gelide piastrelle di pietra. Rantolando e maledicendo una lunga lista di persone, avanzava trascinando la propria massa deforme verso la sala più nascosta e profonda del complesso templare. Così celata che solamente Erebo e Nyx, oltre a Caos, ne erano a conoscenza, e quell’idiota di Chimera, con cui il Tenebroso aveva voluto condividere il segreto, affinché le portasse del nutrimento.
Ma la Madre non aveva bisogno di quel damerino dai capelli biondi, la cui unica impresa memorabile era stata sgraffignare un’armatura a Efesto. La Madre sapeva come sopravvivere. Anhar di questo era ben consapevole.
L’aveva scoperta lei, in fondo, una ventina d’anni addietro, in una grotta sotto un vulcano attivo, nel cuore del Mediterraneo. C’era andato per un motivo ben preciso e, anche se quel piano sul momento non aveva avuto successo, per l’intervento dell’allievo di Avalon, era felice di averlo messo in atto perché gli aveva permesso di trovare lei.
Oh, all’epoca non sapeva che fosse una lei, non sapeva neppure chi fosse, per quanto percepisse la sua oscura potenza irradiarsi dal guscio che la rivestiva, il guscio dentro cui pulsava il cuore della sposa del mostro. La sposa, sì, poiché era per quello che lei era lì, per stare accanto al compagno anche nella cattività. Non era per quello che si pronunciavano certi giuramenti? Anhar li aveva sempre trovati sciocchi, gli uomini e gli Dei, che accettavano di legarsi per tutta la vita (e per le successive!) a qualcuno, a una sola persona. Eppure, anche tra le Divinità Ancestrali, c’era chi credeva in quei giuramenti. C’era qualcuno come la Madre.
Con un ultimo sforzo, il Caduto varcò la soglia dell’androne dove aveva deposto l’uovo, nelle radici di un albero antico, che, a detta di Nyx, poteva persino aver assistito alla Prima Guerra. Erano, del resto, nell’area più vecchia del pianeta, vecchia quasi quanto loro. Di che stupirsi, quindi, se dall’uovo erano subito usciti tentacoli di tenebra, che si erano avvinghiati alle radici, espandendosi e succhiando ogni stilla della loro energia, fino a svuotarle e a ridurle in polvere.
Anhar sapeva che la Madre aveva fame. Tanta fame. Un bisogno di energia che superava quello di qualunque Divinità avesse conosciuto, poiché la Madre non era soltanto una Divinità, era una procreatrice, e doveva nutrirsi anche per i suoi figli.
Se avesse avuto una gola, Anhar avrebbe deglutito in quel momento. Se avesse avuto le gambe, si sarebbe sollevato per ammirarla nella sua orripilante mostruosità. Se infine avesse avuto ancora un volto (magari il bel volto che la sua, di madri, gli aveva dato quando l’aveva generato), avrebbe torto le labbra in un ghigno di perversa soddisfazione. Invece ormai era solo un’ombra, e quell’ombra gocciolava sangue nero da quando Orione l’aveva colpito con la daga deicida. E per fortuna la corazza l’aveva difeso.
Un sibilo richiamò la sua attenzione. Eccola, la Madre. Stava proprio di fronte a lui, acciambellata nell’enorme ala sotterranea che Caos le aveva riservato, immersa nel fetore, nella tenebra e nel rancore provato per secoli e che, di recente, aveva subito una nuova impennata, che l’aveva spinta a uscire dal guscio e a cercare vendetta.
Vendetta. Ripeté Anhar. Niente di diverso da quello che volevano tutti loro. E forse, grazie a lei, avrebbero potuto ottenerla. Ma prima lui aveva bisogno di un corpo, uno qualsiasi, uno di quelli che la Madre aveva attirato a sé e che giacevano, adesso, avvolti in vischiosi filamenti di tenebra, come feti in procinto di sviluppare, per quanto nessuno di loro, da quell’operazione, avrebbe ottenuto nuova vita.
Il Caduto conosceva quel metodo, lo aveva visto applicare da molte Divinità e creature della notte, anche dalla sua vecchia amica Camazotz. Gli uomini superstiziosi lo avrebbero definito vampirismo, in realtà era una forma di conservazione della specie che si basava sulla sopravvivenza del più forte, in questo caso la Madre, che assorbiva l’energia degli altri esseri viventi, fino a ridurli a meri involucri. E quando l’ultima stilla di cosmo sarebbe stata assorbita, anche l’involucro sarebbe divenuto polvere.
Concentrando i sensi, Anhar riconobbe i cosmi di molti prigionieri, in quei bozzoli di ombra di cui lei si stava nutrendo. C’era Pegasus, il fastidioso, e anche Atena, la Vergine Guerriera. Poi l’Eridano Celeste, i Cavalieri d’Oro di Virgo e Leo e addirittura due Divinità (ah, una la riconobbe! Era Arawn, il traditore, che gli aveva promesso il suo appoggio a Mount Badon, prima di vendersi ad Avalon). E un’altra decina di soggetti che non seppe identificare, troppo deboli erano i loro cosmi.
Virgo? Uhm, interessante! Si disse, ricordando il breve periodo in cui era stato ospitato dal Custode della Porta Eterna, prima di strisciare in quella direzione. Ma un tentacolo di tenebra gli sbarrò la strada, costringendolo a voltarsi verso la Madre.
Non parlava, non ancora, preferendo concentrare ogni energia nel suo risveglio, eppure Anhar capì benissimo quello che gli stava dicendo.
Quello è il mio cibo! E non si tocca!
Il Caduto fece un inchino, vomitando altro sangue nero da una forma che ormai non riusciva più a controllare a pieno, infettata da quella maledetta daga da lui stesso forgiata.
"Caos, mio Signore. Aiutami! Ascoltami!" –Mormorò, mentre il lungo corpo squamato della Madre lo circondava, cullandolo e precludendogli al tempo stesso ogni via di fuga. –"Nyx è caduta. Ho avvertito il suo cosmo spegnersi poco prima, e gli Dei Gemelli non ti sono fedeli. Non del tutto, almeno. Se la Madre fallisse, se la progenie del mostro venisse estinta, rimarrebbe soltanto Erebo. Lui da solo contro le forze dell’Alleanza, compresi quei pericolosi Cavalieri della Speranza. Tu li temi, so che li temi, in virtù di ciò che potrebbero fare. Divenire i nuovi Dei. Io lo so, l’ho sempre saputo, ma non ne ho mai fatto parola con nessuno." –In quel momento, Anhar si sentì soffocare, stretto nella morsa della Madre, che torreggiava sopra di lui fissandolo con due grossi occhi gialli. O tali il Caduto li immaginò, poiché la Madre poteva assumere anche la forma di una bella donna, gravida e sudata, e carezzarsi il ventre, gloriandosi della stirpe mostruosa che aveva e avrebbe ancora generato. –"Mio Signore, Lord Caos, io sono il tuo araldo! Io sono l’araldo dell’ombra, la chiave che ti ha permesso di aprire le porte del tuo ritorno! Non abbandonarmi! Non ti chiedo molto… soltanto un corpo… uno soltanto, anche usato va benissimo!"
E in quel momento, ad Anhar, sembrò di udire una voce nella mente, la stessa che gli aveva parlato nel corso dei secoli, promettendogli di divenire governatore di uno a scelta dei mondi divini che avrebbe voluto scegliersi. La stessa che lo aveva istigato, sobillato e nutrito di sogni ambiziosi e macchiati di sangue. La stessa che adesso avrebbe chiesto il suo, di sangue.
Stringendo ancora, la Madre serrò la stretta sull’ombra del Caduto, affondando i tentacoli nella ferita e iniziando a sfamarsi. Oh sì, Anhar percepì il suo godimento quando il suo sangue la invase e la inebriò e, a modo suo, la fecondò. Con quel pensiero in mente, con la consapevolezza di aver contribuito a generare nuovi mostri, Anhar sprofondò nelle tenebre, accompagnato da un grande boato (simile alla terra che esplodeva) e da una selva di grida.
Fossero sibili, ruggiti, ululati o urla di guerra non seppe dirselo, poiché non sapeva quale forma la Madre avrebbe assunto. Quel che sapeva, e che gli bastò per sogghignare un’ultima volta, fu che li avrebbe sterminati tutti.
Nessuno, del resto, poteva opporsi alla sposa del mostro. Nessuno poteva fermare Echidna.