CAPITOLO DICIANNOVESIMO: LA DANZA DEI DEMONI.
L’Armata delle Tenebre era su di loro.
I santoni indiani stavano facendo il possibile per mantenere unita quella nera fiumana, creando scudi psichici che li incanalassero in un’unica direzione. Reis e Jonathan si erano già disposti ai lati di quello che sarebbe stato il loro spazio d’azione, un cunicolo di trenta metri di larghezza colmo di oscurità, protetti rispettivamente dagli Areoi e da Hubal e Avatea.
Al suo fianco, Sin fremeva di torrida impazienza, mentre Toru si stava stirando i muscoli del collo. Tutti avevano ricevuto un compito ed erano pronti a eseguirlo, consapevoli che, in caso di fallimento, nessuno di loro avrebbe avuto una seconda possibilità.
Pegasus sfoderò Balmung e la sollevò, dando il segnale.
Subito Reis e Jonathan liberarono la luce dei Talismani, plasmandola in modo da creare un piano di energia che sfrecciò in verticale, verso le mura del Santuario delle Origini. Tirtha e i santoni, alle loro spalle, iniziarono a cantilenare, espandendo le loro aure e generando una bolla di contenimento che andò a chiudere, dall’alto, le pareti di cosmo, rinchiudendo i Guerrieri del Caos al suo interno. Quelli che provarono a forzare il blocco, dirigendo assalti contro le mura dorate, vennero spinti indietro da invisibili onde mentali.
"Non resisteranno a lungo." –Notò subito Pegasus.
"Motivo in più per correre, cavallo alato!" –Esclamò Sin, avvolgendosi nel proprio cosmo rossastro. –"Vediamo chi raggiunge per primo la Corte della Notte!" –Non aggiunse altro e scattò avanti, piombando in mezzo alla marea nera come una cometa infuocata e divorando tra le fiamme chiunque toccasse.
Pegasus lo seguì all’istante, le ali dell’armatura sollevate per darsi lo slancio, roteando la spada di Odino in ogni direzione, affondando, squarciando, tagliando e infine usandola per catalizzare il proprio cosmo e liberare migliaia di meteore lucenti.
Toru, infine, alla destra del Cavaliere di Atena, si fece strada a fauci spalancate, senza risparmiarsi. Adesso che i suoi giovani compagni erano al sicuro, anche dalla sua sete di sangue, poteva liberare la furia del predatore sopita nel suo animo.
"È-kish-nu-gal!" –Esclamò Sin.
"Cometa lucente!" –Gli andò dietro Pegasus.
"Fauci dello Squalo Bianco!" –Gridò il Comandante degli Areoi.
In questo modo riuscirono a percorrere metà della distanza che li separava dalla Porta della Notte, falcidiando tutti coloro che incontrarono lungo la strada. Quei pochi fortunati da evitare gli assalti dei tre caddero sotto i colpi dei guerrieri inca che li seguivano, chiudendo loro, a ovest, ogni possibilità di fuga.
"Sta funzionando!" –Disse Pegasus, nel pieno della mischia, piantando Balmung nel ventre di un Pallasite.
"Avevi dubbi? Sono un Signore della Guerra, non un ragazzino impavido che si lancia in battaglia senza una strategia!" –Commentò Sin, lasciando che una vampata di fuoco divino divorasse un’intera legione di Cavalieri di Asgard.
"Ti piace proprio combattere, eh?"
"A dir poco. Io amo combattere. La guerra è la mia vita, senza di essa mi è sembrato di dormire per secoli."
"Se la ami così tanto che ci facevi sulla Luna? Il Reame Beato non era certo posto per gli spiriti bellicisti come te!"
A quelle parole Sin sollevò il braccio al cielo, mormorando parole che Pegasus non riuscì a comprendere, parole di una lingua che non aveva mai sentito e che, non dubitava, nessuno forse parlava più.
"Sin degli Accadi, eh? Chi diavolo sono gli Accadi? Non erano un popolo della Mesopotamia, o qualcosa del genere?" –Esclamò, facendosi strada in un altro gruppo di Pallasite.
"Sei tanto forte quanto ignorante! Comunque dici il vero, eravamo un popolo. Il passato è corretto."
"Cos’è successo?"
"Quello che succede ai deboli. Vengono vinti e sopraffatti. La storia funziona così e qualunque tentativo di riscriverla incontra sempre lo stesso destino. Fallisce." –Chiosò Sin, generando una barriera di fiamme amaranto che poi spinse avanti, per carbonizzare tutto quel che incontrò. –"Dopo la caduta di Akkad, capitale del nostro regno, me ne andai, deluso dalla mia gente che non aveva saputo resistere all’invasore e che aveva invece cercato la pace. Vagai per il mondo, scoprendo che, in ogni sua parte, vigeva la stessa legge, che gli uomini ancora non hanno imparato. Così finii sulla Luna e all’inizio fu divertente osservarli continuare a farsi la guerra l’un l’altro, per ragioni che alla fine si riconducevano sempre a una sola: potere.
Seppi solo in seguito che i discendenti dei primi Accadi avevano cercato di ricreare una civiltà, mescolandosi con gli altri popoli mesopotamici. Fondarono una città e la chiamarono Nuova Babilonia, dove tutti gli Dei potevano essere venerati. Fu in questo modo che lo scoprii, udendo le loro preghiere, nel tempio che avevano innalzato in mio onore. Ammetto che ne fui colpito, credendo che nessuno si ricordasse più di me, ma la mia ammirazione durò poco e presto mutò in rabbia, quando circa cento anni addietro quegli stessi popoli, che avevano fondato quella città per vivere in pace, iniziarono a combattere tra di loro. Annunaki contro Annumaki, Appalaku contro Igigi. Stirpi che erano sopravvissute a disastri, carestie e guerre finirono per sterminarsi a vicenda, apparentemente senza motivo. Sarei voluto intervenire, urlai contro Selene per chiederle di andare ma lei rifiutò. Ero un Selenite ormai e come tale non avrei mai più dovuto combattere o sarei stato bandito per sempre. Ricordo che la odiai e fui tentato persino di allontanarmi senza il suo permesso; chi era in fondo lei, quella stupida e impaurita Divinità minore, per contrastare il volere di un Signore della Guerra?" –Avvampò Sin, fissando Pegasus con uno sguardo indemoniato che lo impaurì per un momento, prima che il Nume dirigesse tutto quell’odio represso verso i Guerrieri del Caos, falcidiandone una dozzina. –"Pur tuttavia aveva ragione. Avevo giurato e i giuramenti hanno ancora valore, almeno per me. Rimasi al mio posto e guardai Nuova Babilonia sprofondare nel sangue, nella polvere e nella dimenticanza. Nessuno si salvò, solo un’ombra che, di notte, vidi sgusciare via dalla grande piramide di Anduruna e scomparire nei deserti africani, dove ne persi le tracce. Scommetto che sai di chi si trattava."
"Flegias…"
"Niente di nuovo sotto il sole." –Chiarì Sin.
"Mi dispiace. Quel demone ha distrutto ogni civiltà su cui ha poggiato lo sguardo."
"O potremmo dire che ogni civiltà su cui ha poggiato lo sguardo si è fatta distruggere, troppo debole, cieca o irretita dalle sue lusinghe per comprendere l’erroneità delle proprie azioni. Chi è il peccatore?"
"Flegias! O Anhar o come diavolo si fa chiamare adesso! Noi lo fermeremo e vendicheremo gli innocenti a cui ha strappato la vita!" –Esclamò Pegasus con fermezza, di fronte allo sguardo attento di Sin, che per un momento non si mosse.
"È interessante scoprire che c’è ancora chi combatte per proteggere gli altri. Sei una mosca bianca, Cavaliere."
"Non è per questo che sei qui? Non vorrai soltanto vendetta?"
"Quella è una metà della mela. L’altra metà, la verità, è che amo inebriarmi di questa sensazione, la furia della battaglia, il sudore dei corpi che lottano, il fluire del sangue dei nemici e, su tutto, l’odore carbonizzato delle carni degli sconfitti. Vedi, Cavaliere di Pegasus, io sono qui per un motivo molto semplice: impedire la vittoria di Caos, poiché in un mondo dominato da un unico padrone, forte da sottomettere qualunque voce fuori dal coro, nessuna guerra verrebbe più combattuta, mancando la possibilità di vittoria. E senza speranza nessuno combatte. Nemmeno io!"
"Hai il tuo modo di vedere le cose…" –Commentò Pegasus, prima che una serie di lampi alla parete meridionale, quella innalzata da Jonathan, li distraesse. Voltandosi, osservarono la fiumana nera concentrare gli attacchi in quella direzione, mentre gli scudi psichici dei santoni iniziavano a ondeggiare, incapaci di fronteggiare tutta quella pressione. –"Che diavolo sta succedendo?"
"Qualunque cosa sia, non va affatto bene." –Disse Sin, tirando uno sguardo verso l’abbattuta Porta della Notte. Non mancava molto, forse una ventina di metri. Sarebbero riusciti a resistere a sufficienza?
***
Dei quattro Seleniti superstiti, Hubal era quello con l’udito più fino.
Avendo fatto voto di silenzio, molto tempo addietro, aveva sviluppato gli altri sensi, soprattutto vista e udito, in un modo che persino per degli Dei aveva dell’incredibile. Tutti conoscevano la sua abilità con arco e frecce al punto che una volta, scherzando, Sin gli aveva proposto di scoccare un dardo dalla luna mirando a un uccello appollaiato sul tetto di una casa in Italia, per vedere se l’avrebbe colpito. Ma, a parte un costante allenamento, il Selenite di Venere non aveva mai avuto occasione di mostrare sul campo le sue abilità.
Fino a quel momento.
Per prima cosa percepì il sudore; gli arrivò alle narici come il tanfo di una vallata piena di cadaveri in putrefazione. Poi la sghignazzata, il ridere raschiato e forse anche lo sputacchiare di qualcuno. Infine udì lo stridere degli arti contro l’aria stessa, mentre i demoni li caricavano, con gli artigli sguainati e pronti a uccidere.
Si voltò, e in quell’attimo incoccò una freccia, scagliandola e trapassando al collo il primo di quella folta schiera di creature orrende. Avatea, presa alla sprovvista, fu costretta a indietreggiare per evitare il guanto uncinato dell’avversario e, nel farlo, urtò Jonathan, che stava mantenendo la barriera con lo Scettro d’Oro, facendola oscillare.
"Chi sono questi mostri?" –Domandò l’anziana Selenite della Terra, osservando i nuovi arrivati, una schiera di dodici guerrieri di aspetto grottesco, rivestiti da corazze nere striate di rosso, sebbene, più che vernice, quel colore sembrasse lava bollente. I volti irsuti e deformi, gli occhi grandi e diversi tra loro e quelle braccia lunghe, che cadevano fino ai loro piedi, con le dita sottili e incurvate, a creare uncini.
"Tra’ti avante, Alichino, e tu Calcarina!" –Cominciò a parlare uno di loro, indicando i compagni. –"E tu Cagnazzo, e Barbariccia, guidi la decina!"
Più alto degli altri, il demone aveva una lunga coda biforcuta, che i Seleniti non seppero se facesse parte dell’armatura o fosse reale, e si presentò come Malacoda. Fece un inchino, mandò un bacio alla Dea della Luna, scusandosi per la poca educazione che avrebbero dimostrato (ma, d’altronde, disse loro, erano in guerra e in guerra non c’era tempo per tante manfrine!) e poi riprese ad abbaiare ordini al resto della truppa.
"Nessun di voi sia fello!" –Disse, in un gergo antiquato, incitandoli a tornare all’attacco. La poco organizzata schiera scattò di nuovo avanti e, seppur d’aspetto assai grottesco, impegnò i Seleniti in una strenua difesa. Affondi precisi e mirati di mani artigliate che, non appena stridevano sulle corazze, graffiavano e incidevano, tagliavano e scheggiavano, e certo avrebbero ben potuto mozzar loro la testa.
Ratto, Hubal liberò decine di frecce, abbattendo un paio di demoni, ma nella fretta non riuscì a raggiungere nessun punto vitale. Avatea, al suo fianco, scagliò bolle di energia acquatica contro di loro, ma, più che impensierirli, quell’attacco li disgustò, portandoli a scansarsi e a cacciar via quella nociva entità.
"Piuttosto bizzarri i nostri avversari! Sembra che non facciano un bagno da secoli!" –Commentò la Selenite, prima che Malacoda si facesse avanti, distruggendo le sue sfere di energia con il mulinare frenetico della coda.
"Non bizzarri siamo, le Malebranche dall’uncin di sagne!" –Esclamò, balzando su di lei, a braccio teso, e mirando al collo.
D’istinto Jonathan intervenne, allungando l’asta dello scettro e intercettando l’affondo, lasciando che gli unghioni ne scheggiassero la dorata fattura, prima di sbatterglielo sul cranio e spingerlo indietro. Fasci di luce scheggiarono la sua corazza, ma Malacoda continuò ad avanzare, finché la sua lunga coda non afferrò l’arma, strappandola via dalle mani del ragazzo e gettandola a terra, in mezzo ai demoni suoi compagni.
Preso alla sprovvista, il Cavaliere dei Sogni seguì con lo sguardo il percorso dello scettro, avvedendosi all’ultimo che Malacoda s’era portato davanti a lui, allungando una mano e afferrandolo per il collo. Sputando sangue, il giovane roteò gli occhi, capendo cosa aveva consentito a quella sconclusionata torma di arrivare così vicino a loro.
"L’aura…" –Balbettò, strappando un ghigno compiaciuto al capo delle Malebranche.
Anche Avatea allora lo notò, quell’alone che li attorniava, come fumo da un vulcano acceso, e che li rendeva, a volte, indistinguibili a occhio nudo, quasi si nascondessero nell’aria stessa, con il corpo e con il cosmo.
"Libicocco vegn'oltre! E Draghignazzo, Ciriatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo!" –Strepitò Malacoda, incitando i compari alla lotta.
Le Malebranche si avventarono su Hubal e Avatea, strappando l’arco dalle mani del Selenite di Venere e graffiandogli il viso, mentre l’aura fumosa che li sovrastava si allargava e avvolgeva i tre combattenti dell’Alleanza. Strano potere, rifletté Jonathan, mentre le forze sembravano venirgli meno, questa nube di cosmo. Li inebetiva, li indeboliva e li rendeva goffi, ma soprattutto rendeva difficile respirare, quasi fosse una nube di cenere e vapori sulfurei dopo un’eruzione vulcanica.
Avatea venne spinta a terra, la corazza della Terra scheggiata in più punti, i suoi capelli tirati e strappati, le sue gote rugose strappate dagli uncini delle Malebranche. Hubal, accanto a lei, si dimenò furioso, fintantoché le forze glielo permisero, cercando di resistere a quel demoniaco torpore che appesantiva le membra e rallentava i sensi. Colpito a un braccio, gli venne torto dietro la schiena, mentre un demone dal volto ispido lo afferrava per la testa e lo forzava a inginocchiarsi e un terzo gli solleticava il collo, affondando un’unghia di tanto in tanto e succhiando poi il sangue dalle dita, sghignazzando.
"Vuo’ che ‘l tocchi in sul groppone?" –Chiese a Malacoda. –"Che gliel’accocchi?"
"Posa, posa, Scarmiglione! Se li metti l’unghioni a dosso, sì che lo scuoi!" –Disse un altro, facendosi largo e abbarbicandosi per afferrare anch’egli la sua parte di bottino, prima che il capo li richiamasse entrambi, incitandoli ad affrettarsi, non a divertirsi, poiché altre prede li attendevano.
Detto questo, Malacoda sbatté Jonathan a terra, piantandogli quattro dita in un fianco, dove l’armatura era già stata danneggiata dai pugni dei Lestrigoni, ma non gli strappò neppure un grido, tanto intontito era stato dalla sua emanazione cosmica. Solo una goccia di sudore sulla fronte, che si incagliò in una ruga d’apprensione.
Se le Malebranche avessero avuto poteri mentali, forse avrebbero potuto decifrare i pensieri del Cavaliere di Avalon, che stavano viaggiando nel tempo, inseguendo una voce che lo chiamava, senza che riuscisse a individuarla. Una voce che in passato lo aveva cullato, accompagnandolo, ogni sera, verso sogni sereni.
"Svegliati, Jonathan! Reagisci!" –Continuò la voce femminile, permettendogli infine di ricordare.
"Madre?"
La donna sorrise o, almeno, così Jonathan interpretò l’ondata di calore che lo invase in quel momento, come la fiamma del serpente piumato Quetzalcoatl, come la stella del mattino in grado di dissipare le ombre e i timori della notte.
"Svegliati, figlio mio! C’è ancora bisogno di te!"
Di scatto, Jonathan aprì gli occhi, proprio mentre Malacoda calava la mano artigliata sul suo viso, afferrandogliela e troncandogli il polso, per poi spingerlo via. Richiamò lo Scettro d’Oro, che si illuminò di vivida luce, roteando su stesso e tenendo a distanza tutti coloro che osarono afferrarlo, bruciando loro le mani e le corazze, prima di saettare verso il suo legittimo possessore, che lo afferrò, servendosene per rialzarsi, bruciando il proprio cosmo. Subito, le Malebranche si affrettarono su di lui ma bastò che Jonathan sollevasse il Talismano che uno sciame di comete si liberò dal fiore aperto sulla punta, avvolgendosi attorno al suo corpo prima di sfrecciare verso gli avversari, travolgendoli e distruggendoli uno dopo l’altro.
Alcuni furono lesti a portarsi indietro, guidati da Cagnazzo che, avendo visto cadere Malacoda, si era nominato capo della schiera e adesso stava incitando i compagni a un’azione congiunta e risolutiva.
"Ugualmente risolutivo sarà il mio assalto!" –Esclamò il biondino, espandendo il cosmo, che divenne una vera e propria nebulosa di luce, che lambì i corpi svenuti di Hubal e Avatea, risvegliandoli. –"Se uno sciame di comete non è bastato, affacciatevi dunque nella loro dimora! Mirate lo splendore della Grande Nube di Oort!" –Disse, mentre le Malebranche scattavano all’attacco, gli artigli intrisi di energia cosmica.
L’ondata di luce e polvere di stelle li travolse, disintegrando corpi e corazze, costringendo persino i Seleniti a coprirsi gli occhi, tanto intenso era quel lucore. Quando li riaprirono, videro che di Cagnazzo, Scarmiglione e dei loro compari non era rimasto niente e Jonathan, stanco per lo sforzo, si stava accasciando a terra, reggendosi allo Scettro d’Oro, quasi fosse la sua ancora di salvezza.
"Madre… grazie! Anche dopo tutti questi anni, siete venuta in mio aiuto."
Proprio in quel momento la rozza e acciaccata sagoma distesa accanto al Cavaliere delle Stelle si risollevò, lo sguardo ribollente d’ira, la mano sinistra tesa a spada diretta alla gola del ragazzo.
"Malacoda!" –Lo riconobbe Avatea, mentre anche Jonathan voltava l’affaticato sguardo verso gli uncini che, entro un attimo, gli avrebbero strappato la carotide.
Vi fu un fruscio, poi un sibilo e il grido soffocato del demone che crollò riverso al suolo, la gola trapassata da un dardo. Voltandosi verso il parigrado, la Selenite della Terra sorrise. A quanto pareva, Hubal era davvero un grande tiratore.
***
Il Professor Rigel aveva provato più volte a capire cosa stesse accadendo nel deserto del Gobi, ma ogni apparecchiatura elettronica sembrava non funzionare. Di certo la colpa era di quella nube nera che stava saturando la Terra e che ostacolava persino la trasmissione di dati via satellite. Sbuffando preoccupato, si tolse gli occhiali da lavoro e uscì sul ponte della nave della Grande Fondazione.
L’Isola del Riposo era una località piacevole ma, per uno scienziato quale lui era, fin troppo arretrata tecnologicamente. Magari, al suo ritorno, avrebbe chiesto a Lady Isabel il permesso di installare qualche ripetitore, per traghettarla verso il nuovo millennio, ma quel pensiero gli provocò una fitta allo stomaco. No, non doveva pensar male, Lady Isabel, anzi Atena, se la sarebbe cavata. C’erano tutti i suoi Cavalieri a proteggerla, e tutti gli Dei del creato. Come potevano essere sconfitti?
Se lo ripeté più volte, camminando avanti e indietro sulla plancia, prima che la voce squillante di Cliff O’Kents lo chiamasse. Erano a malapena le sei del pomeriggio ma, a quanto pareva, anche per i pasti la cittadina aveva i suoi orari.
"Arrivo, arrivo!" –Esclamò lo scienziato, affacciandosi dal parapetto e salutando lo scozzese, in piedi sul pontile del porto, con il piccolo Kiki accanto a sé. Recuperò una valigetta dalla cabina e poi uscì… barcollando e ruzzolando a terra. –"Che… sta succedendo?" –Si chiese, intontito, affannando nel rimettersi in piedi, appoggiandosi alla parete della cabina. Era la sua immaginazione o la nave stava oscillando?
"Aaah!!!" –L’urlo di Kiki lo scosse, spingendolo a proseguire, aggrappandosi a tutti gli appigli che poté trovare, fino a tornare sul ponte. Adesso, con maggior chiarezza, vide la nave traballare, scossa da qualcosa che non seppe definire, finché non scorse i lunghi tentacoli spuntare dal mare e avvinghiarsi alle paratie e al ponte della Nike.
"Per tutti i transistor!" –Borbottò, pensando a come cavarsela. Aveva soltanto una pistola taser con sé, che dubitava sarebbe bastata contro quell’animale, qualunque cosa fosse, a meno che non ne avesse decuplicato il dosaggio. L’idea sembrò stuzzicarlo ma una nuova oscillazione lo fece cadere di nuovo a terra, perdendo la presa sulla valigetta, che scivolò sul pavimento della nave, finendo fuori coperta. –"Oh no!!!"
Colpi di pistola echeggiarono nel tramonto, attirando la sua attenzione e anche quella della bestia, forse raggiunta da qualche proiettile, che staccò qualche tentacolo, lasciando la Nike in parte libera. Correndo al parapetto, il professore vide Cliff che scaricava il caricatore mirando a una grossa sagoma scura che schiumava nell’acqua sotto di loro.
"Attento!!! Via! Andate via!" –Gridò, notando i movimenti sotto il pontile, che esplose poco dopo in un profluvio di schegge di legno, sbalzando lo scozzese in aria. Subito un tentacolo saettò nella sua direzione, ma prima che riuscisse ad afferrargli un calcagno Kiki apparve, sfiorò Cliff e sparì di nuovo, lasciando la vischiosa protuberanza ad agguantare l’aria. Rigel li vide ricomparire sulla terrazza di pietra che dava sul porticciolo, con il bambino dai capelli rossicci che respirava a fatica, di certo per lo sforzo dovuto al teletrasporto.
Contento nel saperli al sicuro, e approfittando del disorientamento della bestia, il professore corse nel suo laboratorio, recuperando un’arma su cui stava lavorando, per dare alle Armature d’Acciaio un maggior potere offensivo. La afferrò, controllando il colpo in canna, e uscì, solo per accorgersi che la bestia (un calamaro gigante?) stava distruggendo la Nike, stritolandola con i tentacoli. Evitando di precipitare di sotto, Rigel cercò di portarsi più in alto possibile, raggiungendo il tetto della cabina del comandante, da cui ebbe una visione d’insieme della creatura. Era davvero un calamaro gigante e sembrava seguire i suoi movimenti con due grossi, e inquietanti, occhi rotondi.
Un nuovo grido lo scosse, portandolo a voltarsi verso il promontorio, sulle cui rocce delle bizzarre creature si stavano arrampicando, uscendo in gran numero dal mare. Strizzando gli occhi, il professore cercò di identificarle ma non assomigliavano ad alcuna specie animale di cui avesse mai sentito parlare. Simili a uomini, si inerpicavano agili con i loro arti robusti, ma la testa… quella non era di un uomo, bensì di un cavallo, ed equina era pure la criniera folta, di colore nero, che scendeva dal retro del cranio giù lungo la schiena. In un attimo furono su Cliff e Kiki, che cercarono di tenerli lontani con gli ultimi colpi del caricatore e qualche sfera di energia cosmica.
In quel momento la nave traballò di nuovo e qualcosa dovette spezzarsi perché Rigel la sentì oscillare e imbarcare acqua, mentre i tentacoli del calamaro abbrancavano, spezzavano, trituravano tutto quel che incontravano. Il rombo di un motore lo distrasse, accorgendosi soltanto allora della figura che stava solcando il cielo per venire a recuperarlo.
"Resista professore!" –Gridò un ragazzo, le ali dell’armatura aperte di lato, con i razzi in funzione. –"Sono da lei! Ma guarda là che bestia! E io che detesto l’insalata di mare!"
"Dean, fai attenzione!" –Esclamò Rigel, indicando la creatura, che subito allungò un tentacolo in direzione del Cavaliere d’Acciaio, che fu lesto a spostarsi, schivandone un altro e giungendo quasi a recuperare lo scienziato, quando fu afferrato per una gamba da una lunga coda vischiosa e strattonato all’indietro, schiantandosi in malo modo tra i resti del ponte della Nike. –"Dean!!! Dietro di te!"
Altri tentacoli si sollevarono per agguantarlo, ma il ragazzo li colpì con dei raggi di energia emessi dal bracciale destro, tenendoli a bada. I propulsori delle ali però erano danneggiati e non accennavano a riattivarsi. Una protuberanza sinuosa si allungò verso le sue gambe ma venne raggiunta dall’antenna che Rigel, dall’alto, gli scagliò contro, invitando il ragazzo ad arrampicarsi fin da lui. Tremando, lo scienziato impugnava il fucile su cui stava lavorando ma, consapevole di avere solo una possibilità, non voleva sprecarla. Dean lo raggiunse, sparando raggi di energia in ogni direzione, mentre il professore, alle sue spalle, armeggiava per ripristinare almeno un motore e la nave scricchiolava sempre più, oscillando e imbarcando acqua. Pochi minuti, forse attimi, e sarebbe affondata, trascinando i suoi ospiti con sé.
"Adesso!" –Gridò Rigel, riavviando il sistema di volo e permettendo a Dean di librarsi in aria, afferrarlo e portarsi in alto a sufficienza da non venire raggiunti dai tentacoli del mostro. –"Stai fermo qui! Ecco, bravo, non muoverti!" –Mormorò, puntando il fucile verso gli occhi della creatura. Sparò, ordinando a Dean di allontanarsi il più possibile, e la centrò proprio in un bulbo oculare. Due secondi dopo il calamaro gigante esplose, schizzando acqua, pezzi di nave e materia organica.
"Bel colpo!" –Gridò il Cavaliere d’Acciaio.
"Peccato che fosse l’unico. Non ho altri proiettili." –Mormorò Rigel, tirando un’ultima occhiata alla nave che affondava, assieme al suo laboratorio e alle sue ricerche. Stava ancora pensando a tutto quel che aveva perso, quando raggiunsero la terraferma con gli ultimi borbottii dei propulsori dell’armatura.
Il professore respirava a fatica mentre Dean, al contrario, era esaltato, quasi divertito, dall’esperienza vissuta, la sua prima vera battaglia. Colpi di arma da fuoco ed esplosioni li fecero subito drizzare in piedi, portandoli a correre verso la terrazza di pietra. Sam era intervenuto in aiuto di Cliff e Kiki, e i tre si erano abbarbicati in un angolo della terrazza di pietra, in un’ultima disperata resistenza contro quelle creature, per metà umane, per metà equine.
"Ehi, che diavolo sono? Cavalli mannari?" –Esclamò Dean, raggiungendo il fratello, giusto in tempo per evitare che una di quelle bestie gli azzannasse un braccio. Con un calcio la spinse indietro, mentre Sam liberava frecce di energia dalla balestra impiantata sul bracciale dell’armatura.
Rigel aiutò Kiki e Cliff a rialzarsi e questi lo tempestarono di domande.
"Cosa sono queste bestie? Credete che siano state inviate da Caos? Come fa a sapere che siamo qui? Le ragazze sono al sicuro?"
"Troppe domande a cui non so rispondere!" –Mormorò Rigel, sentendosi la fronte calda, quasi febbricitante.
"Se volete posso farlo io!" –Esclamò una voce all’improvviso, costringendoli a voltarsi verso il limitare della terrazza, dove la sagoma di un guerriero era appena apparsa. La sua armatura azzurrognola risaltava evidente in mezzo al gruppo di creature dalla pelle e dal pelo nero. Non doveva avere più di vent’anni, minuto e con un viso da bambino su cui risaltavano due occhi grigi. A dispetto dell’aria cordiale, il cosmo che lo sosteneva però era oscuro e si concentrò attorno alle sue braccia. Con un movimento rapido che sfuggì agli occhi di tutti, tranne che di Kiki, le portò avanti a sé, generando neri cavalli di energia acquatica. –"Bäckahästen!" –Gridò.
E li travolse.