CAPITOLO NONO: FUGA VERSO THEMISKYRA.

Le Amazzoni erano in rotta, ma Pentesilea non voleva cedere.

L’uomo rivestito di quell’elegante armatura azzurra, magnifica e temibile come ghiaccio, l’aveva avvisata qualche giorno addietro di tenersi pronte, ben temendo che quella missione di salvataggio non sarebbe stata semplice. Ma lei aveva minimizzato, sottolineando la preparazione bellica delle proprie combattenti, che di certo non avevano bisogno di lezioni di strategia militare da un elegante damerino venuto dal nord. Alexer aveva sorriso loro e se ne era andato.

Adesso Pentesilea rimpianse di essere stata così rude, così orgogliosa, così affrettata. Così me stessa! Si disse, mulinando l’ascia e mozzando un nuovo robusto tronco di pianta emerso dal sottosuolo.

Era inutile girarci intorno. Le stavano decimando, e quel che la faceva infuriare era la codardia dei loro nemici, la loro perversa tattica di sfiancamento con cui le stavano inseguendo da ore, da quando avevano abbandonato le rive del Gange, iniziando una lunga marcia sull’altopiano iranico, dirette verso le coste del Mar Nero, verso la loro ritrovata casa. Non c’era voluto molto, in realtà, prima che le compagne rimaste nella retroguardia la informassero che erano seguite, né la notizia l’aveva colta di sorpresa. Si trovavano, del resto, proprio sotto l’immensa cappa di nubi nere che dal deserto del Gobi orientale andava espandendosi sull’intero continente, così vicine alla fonte di tale tenebroso potere.

Solo per quello, per quella malefica vicinanza, alcune Amazzoni erano cadute. Le più giovani, le più gracili, quelle che più facilmente furono infettate dal morbo oscuro. Incalzate dalla carica dei nemici alle loro spalle e dall’opprimente cielo plumbeo, avevano dovuto persino abbandonarne i corpi, trattenendo le lacrime ma non la rabbia, giurando a loro stesse, e alle compagne perdute, che sarebbero tornate a tributare loro il giusto addio.

Così adesso stavano correndo, lungo le rive del Mar Caspio, dopo essersi riposate per una mezz’ora scarsa in una valle pianeggiante che ritenevano sicura. Non che il loro fisico non fosse abituato a lunghe maratone sotto il sole o la pioggia, ma l’apprensione continua per un attacco a sorpresa, il dolore per le perdite e infine il timore per le condizioni di coloro a cui stavano facendo da scorta avevano spinto Pentesilea a ordinare una pausa forzata.

Quel che l’ardimentosa condottiera non poteva sapere era che i nemici erano già intorno a loro. Letteralmente.

All’improvviso, centinaia di robusti steli erano cresciuti dal terreno, sollevandosi minacciosi e torcendosi, spalancando le loro fauci dai denti affilati. Stupite da quello che parve loro un incantesimo di magia nera, le Amazzoni furono lente nel reagire, permettendo che quei fiori serpentiformi, o qualunque cosa fossero, compissero una strage nella carovana. Furiose e assassine, quelle strane piante sorgevano ovunque, accanto a loro, sotto di loro, stritolandole con robusti filamenti, avviluppandole grazie alle appiccicose secrezioni del fusto e infine fagocitandole con le loro stesse foglie.

Dopo un breve tentativo di combattimento, Pentesilea aveva dato ordine di ripiegare, decisa a raggiungere Themiskyra quanto prima e a chiudersi dietro le sue mura. Là, al sicuro nell’atavica dimora, ove generazioni di Amazzoni e di loro sovrane si erano succedute, nessun potere oscuro avrebbe potuto raggiungerle, protette dal cosmo che permeava quel luogo sacro. Questo, quantomeno, era quel che la snella comandante dai corti capelli verdi riteneva.

Più difficile fu raggiungere il Mar Nero, mantenendo compatta l’improvvisata carovana che ben presto si abbandonò ad una fuga scomposta.

"Serrate i ranghi!!!" –Stava urlando in quel momento Pentesilea, mentre altre Amazzoni tentavano di riportare ordine tra i profughi. Impresa resa difficile dagli assalti continui che venivano rivolti loro, assalti provenienti da svariate direzioni e che non riuscivano a controbattere. –"Maledizione!!! Venite fuori, codardi!!!" –Gridò infine la condottiera, la robusta ascia sollevata di fronte a sé. –"Finitela di nascondervi dietro i vostri fiorellini assassini e mostratevi in uno scontro frontale!"

In tutta risposta il cielo, già fosco, si riempì di nuvole del colore dell’ebano, nuvole che poco dopo scaricarono una devastante pioggia su di loro. Un acquazzone di certo non naturale, che contribuì ad appesantire il loro umore, rallentando il rientro a Themiskyra. Prima che Pentesilea potesse aggiungere alcunché, un nuovo filamento erboso sorse dal terreno sotto di lei, avviluppandosi lesto alle sue gambe, chiudendole insieme e gettandola a terra.

"Viscidi bastardi!!!" –Ringhiò la Regina delle Amazzoni, mentre il tronco della pianta cresceva ancora, fermandole anche le braccia e lasciando infine scoperta solo la testa, permettendole così di ammirare, in un crescendo di potenza e spettacolarità, la nascita della foglia madre, che si spalancò di fronte a sé, rivelando piccioli enormi, simili a denti aguzzi, e una gola rossa e sanguigna. –"Vogliamo… scherzare?!" –Avvampò Pentesilea, bruciando il proprio cosmo e riuscendo, con notevole sforzo, a incendiare la pianta che l’aveva imprigionata.

Ansimando, e chiedendosi il perché di quell’improvvisa fiacchezza, la comandante vacillò nel rimettersi in piedi, venendo però afferrata da due braccia robuste prima che cadesse a terra. Percependo il contatto con una dura armatura da guerra, Pentesilea levò lo sguardo, incrociando quello di Phoenix.

"Cosa ci fai qua?!" –Esclamò all’istante, recuperando postura eretta e liberandosi dalla sua stretta.

"Sono venuto a darvi una mano, ma vedo che te la cavi piuttosto bene anche da sola! Tutto sommato!" –Ironizzò lui, gettando una rapida occhiata al campo di battaglia.

"Il tuo sarcasmo è fuori luogo! Conosci bene il valore delle mie guerriere, avendolo provato sulla tua stessa pelle! Pur tuttavia questo nemico ci sta logorando! Da ore mette a dura prova il nostro morale con questi spregevoli attacchi, rivoltando la natura contro di noi!"

"Rivoltando o abusando della natura…" –Rifletté il Cavaliere, mentre tutto attorno le Amazzoni brandivano asce e spade, abbattendo quel giardino di piante carnivore che era sorto per fermarle, mentre continui scrosci d’acqua e turbini d’aria nera sbattevano loro in faccia. Persino gli anziani dalle tuniche arancioni, di cui erano la scorta, sembravano esterrefatti da quella violenza che la natura stava scatenando contro di loro, mormorando litanie in un linguaggio che Phoenix non conosceva, ma che gli parve hindi. –"Se a qualcuno piace il gioco sporco, così giocheremo!" –Avvampò il giovane, bruciando il cosmo e concentrandolo sul pugno destro, attorno a cui turbinò un vortice di fiamme, prima di sbatterlo con forza contro il suolo.

Pochi istanti più tardi centinaia di uccelli di fuoco sorsero dal terreno, distruggendo con rapidi roghi i robusti steli famelici che stavano impegnando le Amazzoni.

"Verdure troppo cresciute…" –Borbottò Pentesilea, dando un calcio ai resti carbonizzati di una di quelle piante, prima di ordinare alle compagne di radunare i monaci e organizzarli per l’ultima tappa del loro viaggio. Con preoccupato stupore, vide molte di loro faticare nel muoversi, barcollare e persino cadere a terra, travolte da quel senso di fiacchezza che aveva invaso anche lei. Guardandole meglio, notò che erano proprio le guerriere che erano state intrappolate tra le spire di quelle bizzarre piante a soffrire di più. –"Credo che…" –Ma non poté terminare la frase che un nuovo gigantesco filamento verde sbucò dal suolo tra lei e Phoenix, avventandosi sul Cavaliere di Atena e arrotolandosi attorno al suo corpo. In un attimo il ragazzo venne sbattuto a terra, con gli arti immobilizzati, mentre una vischiosa sostanza gli imbrattava la corazza e una bocca dai piccioli aguzzi si spalancava per chiudersi sul suo viso.

"Ah no!" –Commentò la donna, sfoderando l’ascia bipenne e muovendosi per mozzare la parte alta della foglia, ma questa parve percepire il pericolo, richiudendosi e sgusciando via, evitando l’affondo, per poi guizzare rapida avanti, spalancando le fauci e richiudendole sul braccio teso dell’Amazzone. –"Aaargh!!!" –Lamentò questa, tentando di liberare l’arma racchiusa nella bocca del gigantesco fiore. La strattonò con forza e cedette, proprio mentre un’aura incandescente, emanata dal corpo di Phoenix, incendiava il resto dello stelo, permettendo al giovane di liberarsi.

Ancora in ginocchio, prima di rimettersi in piedi, il Cavaliere di Atena vide che dal suolo sbucava ancora una parte dello stelo, una parte che andò crescendo in fretta, allungandosi e ricreando le perigliose foglie di fronte agli occhi sgranati dei due combattenti. Ma prima che potessero agire, uno scintillio argenteo sfrecciò loro davanti, mentre la pianta veniva intrappolata in una stretta da una lunga e decorata catena.

"Andromeda!!!" –Esclamò Phoenix, mentre il fratello lo raggiungeva, rivestito anch’egli della nuova Armatura Divina.

"Non distruggerla, Phoenix! Potrebbe portarci dal mandante di questi attacchi!" –Spiegò il giovane, suscitando l’interessata reazione di Pentesilea, che subito chiese come contava di riuscirci. –"Con la mia catena! Dimenticate forse le molteplici proprietà di cui è dotata?!" –Sorrise Andromeda, prima di allungare l’arma e conficcarla nel terreno, dandole ordine di seguire il lungo fusto della pianta fino alla sua origine.

Non ci volle molto prima che la guizzante catena tornasse indietro, accompagnata da un tremolio del suolo. Con un ultimo scatto, Andromeda strattonò fuori colui che aveva creato quelle piante da guerra, schiantandolo a terra con poca grazia, sempre tenendolo nella morsa della sua arma.

"Una donna…" –Mormorò Pentesilea, osservando la sagoma che si contorceva al suolo, tentando di liberarsi dalla fredda presa della catena.

Alta e ben fatta, con lunghi capelli arancioni, la guerriera era rivestita di una corazza nera e verde, con marcati spuntoni posizionati sui bracciali e sui copri spalle, simili agli aguzzi piccioli delle piante che li avevano assaliti fino ad allora.

"Chi sei?" –Incalzò subito l’Amazzone, gettandosi su di lei e afferrandola per i capelli. –"Come osi attaccarci? Paventi forse uno scontro diretto da ricorrere a simili mezzucci di guerriglia?!"

"Eh eh eh… L’oscura giardiniera niente teme!" –Sibilò la sconosciuta, fissandola negli occhi per qualche istante. Quindi si voltò rapida, muovendo le gambe con estrema agilità e colpendo Pentesilea con un calcio di traverso, nonostante fosse ancora stretta nella catena di Andromeda, che subito aumentò la presa. –"Via da questi giocattoli!" –E sgusciò fuori dalla gabbia, sorprendendo i Cavalieri di Atena, ben consapevoli di quanto fosse vigorosa la presa dell’arma. –"Ci vuol ben altro per tenermi a bada! La corazza che indosso, al pari delle piante che controllo, è rivestita da piccole ghiandole che possono secernere una mucillagine collosa o lubrificante, che mi permette di aderire alle superfici o di scivolarvi addosso con facilità!"


"Ecco cos’era quella roba appiccicosa!" –Esclamò Phoenix, la cui armatura era ancora sporca dai resti lasciati dall’ultima stretta.

"Il bacio della drosera lascia evidenti strascichi!" –Ridacchiò la donna, aggiungendo sardonica. –"Ma non durano mai a lungo, poiché alle vittime resta ben poco da vivere! Solo il tempo di udire il nome della loro carnefice! Artemisia della Dionea Assassina, Nefaria dello Zodiaco Nero al servizio del grande Polemos!"

"Polemos?! Il Demone della Guerra di cui Sirio ci ha parlato?!" –Intervenne subito Andromeda. –"Pare che la sua forza sia immensa!"

"Non pare, è! Siete fortunati ad aver incontrato me, e non lui, o non sareste ancora vivi! Non che siate destinati a rimanerlo ancora per lungo! Ah ah ah!"

"Se sei forte quanto vigliacca, sarà un bello scontro!" –Esclamò Pentesilea, facendosi avanti, la lama rivolta verso Artemisia. –"Ho molte compagne da vendicare!"

"No, fermati!" –La chiamò allora Andromeda, portandosi avanti, di fronte agli occhi stupiti del fratello. –"Lascia a me quest’avversario! Tu hai ben altro di cui occuparti, questioni ben più urgenti!"

"Questa donna ha infangato il mio nome, ha massacrato le mie sorelle, avvelenandole o in qualunque altro losco modo, io devo vendicarle!!!"

"Lo farò io per te! Tu sei una regina, una guida per il tuo popolo, e hai una missione da portare a termine! Condurre al sicuro i monaci indiani e i santoni che avete salvato, dietro le mura di Themiskyra! Non puoi attardarti ancora, non qua!"

Pentesilea rimase un attimo ad osservare Andromeda, l’ascia in mano, lo sguardo astioso che andava da lui ad Artemisia, finché, con uno sbuffo frustrato e un rapido colpo di tacchi, non ripose l’arma, dandogli ragione e voltandosi.

"Oltre ad essere un maschio irritante, ti porti dietro un fratello saccente! La lista dei tuoi difetti aumenta, Ikki di Phoenix!" –Brontolò, allontanandosi e strappando un sorriso al Cavaliere della Fenice.

"Vai anche tu! Temo che lei non sia l’unica!" –Gli disse suo fratello, trovando Phoenix concorde con i suoi sospetti. Spalancando le ali dell’Armatura Divina, il giovane dai capelli blu scattò avanti, aiutando Pentesilea a riunire le truppe e i profughi e a correre lesti verso Themiskyra.

Vedendoli allontanarsi, Artemisia si mosse per seguirli, ma Andromeda le si parò di fronte, le braccia aperte, le catene che tintinnavano ai lati, pronte per scattare ad un suo semplice comando mentale.

"Fai sul serio, a quel che vedo! Orbene, lottiamo allora, Cavaliere di Atena!" –Sibilò la Nefaria, espandendo il proprio cosmo color verde palude.

"Come sai che ad Atena sono fedele?!"

"Umpf! Le gesta di cinque amici sono ormai leggenda, cantate già nei regni divini! E il mio maestro, che mi ha donato quest’armatura, mi ha parlato molto di voi! Male, intendo! Eh eh eh! Voi, i bastardi che hanno assassinato mio fratello, i Cavalieri della Speranza che non si son fatti remore nell’uccidere un ragazzo di quindici anni!" –Gridò Artemisia, l’indice destro puntato contro di lui.

"Che stai dicendo? Chi era tuo fratello?!"

"Vedi, neppure lo ricordi! E sia dunque, te lo farò ricordare io, Andromeda!!! Dionea assassina, colpisci!!!" –Strillò, mentre dal suo braccio destro sorgeva una gigantesca pianta carnivora di puro cosmo, le cui foglie aperte parevano bocche affamate che presto si chiusero sull’avversario.

"Catena di Andromeda, poniti a mia difesa!!!" –Esclamò quest’ultimo, mentre l’arma iniziava a roteare attorno a lui, in infiniti cerchi concentrici, generando un mulinello contro cui l’assalto nemico si infranse, senza riuscire a superarlo.

"Se dall’alto non posso passare, posso sempre provare… dal basso!" –Sibilò Artemisia, volgendo i palmi delle mani verso il suolo e infondendogli il proprio cosmo assassino. In un attimo un verde stelo sorse tra i piedi di Andromeda, allungandosi e aggrovigliandosi attorno alle sue caviglie, stringendo e chiudendo le gambe del ragazzo, facendolo barcollare e cadere di lato.

Memore di come Phoenix era stato intrappolato poc’anzi, il giovane bruciò subito il proprio cosmo, liberando una scarica di energia con cui polverizzò il filamento erboso, prima che crescesse ancora, ma presto altri ne sorsero tutto attorno a lui, in un tripudio di verde e di rosso. Sogghignando compiaciuta, Artemisia si preparò per sollevare le proprie creature, intrappolando così Andromeda e nutrendosi della sua energia, ma, con stupore, vide che il Cavaliere pareva disinteressarsi di loro, rialzandosi e iniziando a correre verso di lei.

"Che… cosa?!" –Gridò, sollevando una barriera di piante a sua difesa, che Andromeda sfondò con la punta della propria catena d’attacco, abbattendosi poi su Artemisia e scheggiandone l’armatura. Cadendo a terra, la Nefaria si arrabattò subito per reagire, ma le sinuose armi del Cavaliere di Atena la raggiunsero all’istante, moltiplicatesi in così numerose copie che la donna non riuscì a schivarle tutte, venendo infine afferrata ai polsi, ai calcagni e al collo e bloccata. –"Non… crederti… di aver vinto… Mi basterà espandere ancora il mio cosmo e secernere abbastanza liquido da…"

"So bene quel che potresti fare!" –Commentò Andromeda con voce atona, sorprendendo l’immobilizzato nemico. –"Ma non te ne darò il tempo!" –Aggiunse, concentrando il cosmo sulla mano destra e aprendola poi verso di lei, sì da investirla in pieno con una scarica di folgori rosa. Una dopo l’altra, si abbatterono su Artemisia da ogni direzione, colpendola persino in pieno volto, sfregiandoglielo e insistendo ancora, finché la donna, indebolita e spossata, non si lasciò cadere sulle ginocchia, grondando sangue. Ma anche allora le Catene di Andromeda non la lasciarono.

"Vedi… quel che sostenevo è vero. Vi definite Cavalieri della Speranza, portatori di pace e giustizia, ma siete solo brutali assassini!" –Rantolò, sollevando la testa e osservando il giovane in Armatura Divina avvicinarsi a passo lento, senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Quindi, quasi sentisse il bisogno di giustificare alcune sue affermazioni precedenti, raccontò quel che era accaduto a suo fratello. –"Il suo nome era Menas ed era stato scelto dal mio maestro per essere uno dei suoi guerrieri, primi membri della futura Armata delle Tenebre che un giorno, a sentir lui, avrebbe imperato sul pianeta! Una prova, in vista dell’ultima guerra! Così ci disse quando venne alla nostra porta, a Kos, a prendere mio fratello! Io, nei suoi progetti, sarei venuta dopo! Fu l’ultima volta che vidi Menas, poiché neppure il corpo mi fu riportato! Quando il maestro tornò, in diverse e più abominevoli forme, mi disse che i Cavalieri di Atena lo avevano ucciso, decapitandolo, e che egli, per risparmiarmi ulteriore sofferenza, aveva bruciato i resti, onorandolo anche a nome mio! E che quegli stessi Cavalieri di Atena lo avevano ridotto in quel modo, costringendolo a vivere come un’ombra! Capisci, ora? Capisci il mio odio nei vostri confronti?!" –Strillò la donna, cercando un cenno da parte di Andromeda, di approvazione, di comprensione, di odio, qualcosa che non fosse l’impassibile sguardo che le stava rivolgendo. Ma il ragazzo non disse alcunché, limitandosi a portarsi rapido alle sue spalle e ad afferrare le due estremità della catena con cui le stava bloccando il collo.

Tremando impaurita, Artemisia aprì la bocca per dire qualcos’altro, ma Andromeda subito tirò da entrambe le direzioni, strappandole un gemito sommesso, prima di chinarsi e sussurrarle all’orecchio. –"Tutto quel che hai detto è vero. Noi siamo assassini!" –E la strattonò con così brutale forza da soffocarla, lacerandole infine la pelle del collo e imbrattando la catena di sangue nemico.

Solo dopo che il corpo senza vita di Artemisia rovinò a terra e le catene ripresero a scorrere lentamente lungo le braccia del ragazzo, riportandosi in posizione difensiva, Andromeda parve notare il liquido vermiglio che ne chiazzava gli anelli. Lo sfiorò, incuriosito, chiedendosi a chi appartenesse, prima di crollare sulle ginocchia, sopraffatto dall’enormità di un gesto che andava contro tutto quello in cui credeva, tutto quello per cui aveva sempre combattuto.

"Come… ho potuto?!" –Si chiese, singhiozzando. Ma quando tentò di pulirsi gli occhi, si macchiò il viso di ulteriore sangue, che pareva moltiplicarsi ogni volta in cui soltanto le mani lo sfioravano, grondando implacabile lungo la sua corazza, come le lacrime dell’antica regina offerta in sacrificio a Nettuno. –"Non è possibile… io non posso aver commesso un simile crimine… Perché?! Perché?!" –Strillò, battendo i pugni sul suolo, mentre ormai la pioggia sembrava cessare, lasciando ovunque grosse pozzanghere di fango.

In una di quelle, a pochi passi da lui, comparve l’immagine di una donna, vestita di raffinati abiti di seta. Una figura snella, dal volto curato, con lunghi capelli castani e occhi verdi. Gli scivolò accanto, senza che lui neppure se ne accorgesse, poggiandogli la mano su una spalla e guardandolo con espressione affranta, ma serena, nient’affatto sorpresa.

"Voi… qui?! Perché?!"

"Sono qui per guidarti, Andromeda!" –Replicò la pacata voce femminile. –"Per guidarti ad essere ciò che sei! Un assassino!" –

***

Da dietro il vetro dell’Occhio, Selene osservava il mare.

La chiamavano così, gli scienziati terrestri, quella particolare configurazione geologica del suolo lunare, sebbene di acqua non ve ne fosse ed avesse un aspetto ben diverso dalle distese marittime tanto care ad altri Dei del suo stesso pantheon. Eppure, al pari dei mari terrestri, anch’esso generava calma e stimolava la mente a pensare, a viaggiare lontano, ad andare oltre.

Oltre cosa? Si chiese la figlia di Iperione e Tia. Era già andata oltre tutto ciò in cui aveva creduto. Fisicamente, aveva lasciato il pianeta su cui imperava Zeus e si era rifugiata in quell’ermo satellite verso cui persino gli uomini parevano aver perso interesse. Emotivamente, inoltre, aveva rinunciato a tutto ciò in cui credeva, a quel sogno di pace e serenità che l’aveva spinta a fondare il Reame Splendente secoli addietro, assieme ad altre dimenticate Divinità. Aveva dato via tutto ciò che considerava importante, a partire dalle sue figlie, incuriosite e attratte dalla vita sul pianeta, dai combattimenti dei Cavalieri, da esperienze che la cattività imposta dalla madre aveva loro precluso. Poi il suo regno, invaso e messo a ferro e fuoco dai Signori della Guerra, e i suoi Seleniti, amici con cui aveva creduto di condividere un cammino, ma che adesso erano morti o l’avevano abbandonata, ripudiando tutti quegli ideali di pace in cui dicevano di credere.

Da Sin degli Accadi non si era mai aspettata niente, ben conoscendo la sua indole focosa e guerrafondaia, ma aveva sperato che la lontananza dai tumulti del pianeta la assopisse, anche grazie alla vicinanza di ben più miti Divinità, come il saggio Tecciztecatl, o Thot lo studioso del cielo o Mani, custode dell’ultimo legno di Yggdrasill. Invece tutti loro l’avevano delusa, tutti avevano scelto di combattere, lasciandosi trascinare da Atena e da Avalon in una spaventosa guerra che si sarebbe conclusa soltanto con la distruzione di tutti loro. Cos’altro avrebbero potuto ottenere, del resto, affrontando le ridestate ombre dei Progenitori?

Selene sapeva, da tempo ormai, quel che riposava nell’intermundi. Era stato Avalon a parlargliene tempo addietro, quando le aveva chiesto di ospitare il fratello sulla Luna, per proteggere il regno da un eventuale attacco. In verità, e solo adesso lo aveva capito, il Signore dell’Isola Sacra voleva solo mettere le mani sullo Scettro di Luna, il Talismano che Elanor celava, e lei, stupida, lo aveva permesso! Lei, ingenua, gli aveva permesso di portarle via la primogenita!

Un’improvvisa rabbia la invase per un momento, spingendola a colpire con forza il vetro della grande sfera. Lo percosse per qualche minuto, singhiozzando, finché, troppo debole e insicura, non dovette cedere alla stanchezza, accasciandosi contro la parete interna dell’Occhio. Sola.

Era così strano esserlo, adesso. Per tutti quei secoli vissuti fuori dal mondo, e forse anche dal tempo, aveva sopportato gli schiamazzi delle sue cinquanta figlie, che amavano rincorrersi per le molteplici stanze del palazzo, i non troppo celati tentativi di Elanor di farsi addestrare ad essere un guerriero, le richieste di Sin di intervenire negli affari degli Dei terrestri o le chiacchiere degli altri Seleniti, quasi sempre reminescenze di tempi che furono, a cui guardavano con nostalgia. Ma adesso, che di quel periodo non era rimasto niente, soltanto mura abbattute di sabbia lunare, realizzò quanto fossero stati importanti, tutti loro, per riempire la sua vita, per trasformare quel solitario satellite in un regno e in una famiglia.

Che cosa mi resta? Si chiese.

Passi leggeri sul pavimento la distrassero, spingendola a sollevare lo sguardo proprio mentre un giovane dai lunghi capelli celesti entrava nella sala, portandole una tazza fumante di un infuso appena preparato. Con dolcezza, la aiutò a rialzarsi, invitandola a sedersi sul morbido velluto di una sedia imbottita, carezzandole i capelli e pettinandoli all’indietro, in modo da rivelare il bellissimo viso dalla candida pelle che amava sfiorare con le labbra nelle loro eterne notti insieme. Fin dalla prima, in quella caverna nell’Elide, dove era iniziato il loro amore.

"Riposati, mia amata!" –Le disse, baciandola sulla fronte e tenendola stretta per lunghi istanti. Senza aggiungere altro, ma comprendendo, come solo anime unite da secoli di amore potevano fare, Endimione la consolò, infondendole quella sicurezza di cui aveva bisogno, colmando quel senso di perdita e protezione che l’aveva invasa da quando avevano lasciato Atene e l’assemblea. –"Prenditi tutto il tempo che vuoi! Ti aspetto nelle nostre stanze!" –Le mormorò, carezzandole un’ultima volta il viso e allontanandosi.

Come sempre, il figlio di Zeus non aveva detto niente, neppure avanzato l’ipotesi di criticare la decisione della compagna, e Selene non poté fare a meno di chiedersi quanto davvero fosse concorde o quanto la forza del loro amore, di quell’amore che gli aveva soffiato in sonno, secoli addietro, obnubilasse il suo giudizio. Quale che ne fosse la causa, Endimione era ancora lì. Al suo fianco. E a quell’unica certezza la Dea della Luna si aggrappò per farsi forza.

Ecco cosa mi resta! L’amore!

Che Atena e Avalon giocassero pure con i loro soldatini! Che Shen Gado e gli altri Seleniti andassero pure a morire! Lei non aveva bisogno di loro, lei aveva Endimione ed egli era tutto quel che desiderava! Egli era la sua vita, tutto il resto sarebbe pure potuto svanire, divorato da un’ombra che nessun’alleanza avrebbe potuto contenere!

Fu allora che udì dei rumori provenire dal salone di ingresso, un suono sgraziato ben lontano dall’eleganza con cui l’amato era solito muoversi. Invasa da un inesprimibile affanno, Selene si alzò di scatto, lasciando cadere la tazza e la sedia e iniziando a correre lungo le vuote stanze del palazzo, fino all’atrio centrale. Scalza, quasi ruzzolò sui gelidi gradini, inorridendo di fronte alla scena palesatasi di fronte ai suoi occhi.

Sulle scale esterne, proprio dove aveva accolto Atena, Avalon e i suoi seguaci, a due passi dalle colonne ove Asterios era solito suonare la cetra, allietando le giornate del reame, giaceva il corpo senza vita di Endimione, dilaniato da un unico affondo che gli aveva squarciato il petto, insozzandone le bianche vesti e strappandogli persino il dono di Zeus.

In piedi, sopra di lui, una donna alta e snella, dai lunghi capelli viola, rivestita da una tunica scura, reggeva in mano il cuore di colui che aveva tanto amato. Lo stringeva avidamente, inebriandosi del sangue divino che ruscellava sul suo braccio, e, non appena la vide, la salutò con un perfido sorriso.

"Non c’eravamo ancora presentati ufficialmente! Permettimi di rimediare! Il mio nome è Nyx, che è Notte! E sono tornata per finire il lavoro iniziato giorni addietro e che Avalon mi ha costretto a lasciare a metà!" –Quindi, senz’altro aggiungere, avvicinò il cuore sanguinolento al proprio volto e vi affondò i canini, ingorda.

A quella visione, Selene perse ogni controllo di sé e urlò.