CAPITOLO TRENTESIMO: SESTO INTERLUDIO.

LUNA.

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: Vent’anni prima del secondo avvento.

La catena montuosa del Pindo era un’area aspra e solitaria, ben lontana dagli agglomerati urbani ove gli uomini preferivano risiedere. Un’area adatta alle passeggiate che la Dea ogni tanto decideva di concedersi, sebbene non amasse particolarmente il corpo celeste di cui il suo regno era satellite. Né i relativi abitanti.

Li osservava spesso, gli uomini, spaziando dall’Occhio fino ai verdi campi del pianeta vicino, tentando di capire cosa li spingesse a vivere quelle misere, futili e caduche esistenze, cosa desse loro un motivo per alzarsi dal letto ogni mattina e affannarsi in un vano e claudicante agire. In fondo, alla fine, sarebbero tutti stati sconfitti. Dalla morte, dalle malattie, dall’odio per i loro simili, dal trascorrere del tempo. Fattori questi che aveva rimosso dalla propria vita quando aveva fondato il reame della Luna Splendente, il suo regno beato, bandendo de facto simili prospettive che invece parevano affliggere persino gli Dei rimasti sulla Terra.

Selene sospirò, allontanando lo sguardo dal Monte Olimpo, che si ergeva impavido alla sua destra, la cima avvolta da nebbia così fitta che neppure lei poteva sondarla. Il lieve tocco della mano dell’amato la riscosse, spingendola a sorridere e a lasciare indietro tutti quei pensieri che la invadevano ogni volta in cui abbandonava la sicurezza del reame e scendeva sulla Terra.

"Ci siamo quasi!" –Le sussurrò Endimione, proseguendo a passo calmo lungo il sentiero che si snodava tortuoso tra le montagne del Pindo, diretto verso la cima della vetta più alta.

Smolikas. Il monte sacro ad Apollo.

Uno dei pochi luoghi del pianeta che Selene considerava degno di attenzione e di rispetto, un sito di culto dedicato al Dio greco del Sole, l’astro complementare della Luna. Proprio il Nume in persona le aveva raccontato, durante una delle sue ultime visite all’ermo santuario, che in tempi antichi un osservatorio era stato edificato sulla sommità di Smolikas, da cui uomini saggi studiavano il moto delle stelle. Una storia che le aveva strappato un sorriso, ricordandole l’innato spirito di Icaro che pareva albergare dentro ogni uomo, e che forse era proprio ciò che li distingueva.

Il loro desiderio continuo di andare oltre, nonostante la limitatezza della loro stessa esistenza.

Perché sognare di essere un’aquila se non possiedono le ali per poter volare? Si chiedeva spesso Selene. Perché bramare il cielo se non sono in grado neppure di camminare sulla terra senza inciampare?

A quelle domande ebbe risposta quel giorno.

"Eccoci!" –Commentò infine Endimione, fermando la strana carovana di famiglia.

Erano giunti ai margini di uno spazio scavato nella roccia, a pochi passi dalla cima di Smolikas, ove i resti di un antico santuario, nato sulle rovine del precedente osservatorio, ancora resistevano imperterriti al trascorrere del tempo, delle mode e dei culti religiosi. Molte delle figlie di Selene superarono la coppia, avvicinandosi incuriosite o estasiate a quel luogo antico di cui la madre aveva spesso parlato loro. Soltanto una non si mosse, rimanendo al suo posto, all’ingresso di quel recesso sacro che non le suscitava emozione alcuna.

Sono solo pietre. Mormorò Elanor, scalciando tra la polvere. Pietre antiche, colonne mozzate, i resti di qualche capitello di foggia corinzia. E cos’altro? Perché venire fin quassù, sfidando i pericoli delle alture del Pindo, per rendere omaggio a un Dio? Non avrebbero potuto costruire un tempio in pianura o in un luogo ben più accessibile, come fecero a Delfi? E per cosa poi? Per venerare un Dio che non si è neppure premunito di preservarlo dalla rovina del tempo?

"Il tuo ostruzionismo è fuori luogo!" –Osservò allora la madre, avvicinandosi.

Aveva lasciato Endimione e le figlie ad osservare i resti del santuario, lasciando che fosse il marito ad illustrare loro l’originaria architettura, ben sapendo quanto sarebbero state interessate a vicende che, per tutte loro, appartenevano alla storia antica. Ma era stata certa fin dall’inizio di quel viaggio che la primogenita non l’avrebbe apprezzato, quantomeno non ne avrebbe compreso il senso.

"Vuoi offendermi, Elanor?"


"Nient’affatto, madre! Perdonatemi se vi ho dato quest’impressione!"

"L’impressione che mi dai è di una seccatura perenne! Sei sempre scocciata! Cos’è che ti opprime a tal punto da non permetterti mai di sorridere alla vita? Forse la compagnia delle tue sorelle, della famiglia che ti ama, non ti aggrada?"

"Io… non…" –La ragazza esitò per un momento, scostandosi un ciuffo di capelli castani dietro l’orecchio, ben attenta a non incrociare mai lo sguardo della madre, sguardo che, sapeva, avrebbe potuto leggerle nell’animo. E non voleva affatto che sapesse quel che le turbinava dentro, un desiderio che non avrebbe mai capito. –"Non apprezzo i luoghi angusti, incassati tra le montagne!"

"Se è solo questo che ti infastidisce, non temere. Ci rimetteremo presto in cammino, lasciami solo il tempo di rendere omaggio al Dio del Sole!" –E si diresse verso il santuario, per raggiungere Endimione e le figlie, quando il suolo tremò all’improvviso.

Volgendo lo sguardo verso la cima di Smolikas, Selene notò una virulenta frana di massi abbattersi sulle rovine del tempio, seppellendolo assieme alla sua famiglia.

"Nooo!!!" –Gridò, la voce rotta da una disperazione fulminea. Ma non ebbe modo di fare altro che venne afferrata da una mano robusta, che si chiuse attorno al suo gracile corpo, sollevandola da terra e sbattendola poi con forza contro il fianco di una montagna.

Solo allora, sprofondata tra la pietra e il terriccio, poté infine osservare il suo assalitore. O, meglio, il gruppo di assalitori.

Erano una decina di uomini giganteschi, così alti e massicci da sembrare montagne viventi, rivestiti da rozze cozze protettive irte di spuntoni affilati. I volti ruvidi e sanguigni erano coperti di cicatrici, segno evidente del loro spirito bellicista e degli scontri da cui mai si erano tirati indietro.

"Cos’abbiamo qua? Una damigella indifesa?! Igh igh igh!" –Ringhiò il colosso che stringeva Selene tra le dita, avvicinandosi fin a fiatarle in faccia il suo fetido alito.

"E che damigella! Guarda là che vestiti pregiati! Mica come i luridi fazzoletti con cui ti pulisci il naso, Berto!"

"In effetti, non mi dispiacerebbe strusciare il mio grosso naso rigonfio su quella bella seta! Magari dopo colerò gocce dal profumo di rosa! Igh igh!" –Rise sguaiatamente il compagno, aumentando la stretta sul corpo di Selene e mozzandole il fiato. –"Ma prima dobbiamo liberarlo da quel che c’è dentro! Non che ci voglia molto, vista la corporatura!"

"Ehi voi! Lasciate stare mia madre!" –Esclamò allora un’acuta voce femminile, mentre il gruppetto di uomini si voltava verso il sentiero tra i monti, giusto in tempo per vedere un’agile ombra spiccare un balzo e colpire a piedi uniti la faccia di uno di loro, spingendolo indietro. L’impatto non fu sufficiente per farlo cadere ma gli spaccò il naso, imbrattandogli la faccia di sangue e facendolo imbestialire.

"Razza di moscerino impertinente! Lascia che ti metta le mani addosso!" –Si dimenò il corpulento guerriero, facendosi strada tra i compagni, che intanto agitavano le mani in ogni direzione per afferrare l’esile ma veloce figura che saettava tra loro.

"Tu provaci!" –Ringhiò Elanor, fermandosi infine, al limitare dello spiazzo e sollevando le braccia in posizione difensiva.

"Ahr ahr! Ma guardatela! È una ragazzina!" –Sghignazzarono i giganti. –"Ed è persino troppo piccola per divertircisi!"

"Oh beh, un modo per usarla lo troviamo di certo!" –Aggiunse uno di loro, avviandosi verso di lei, presto seguito da quello che Elanor aveva ferito sul naso. –"Lasciala a me, Baffo, la voglio stritolare e inzuppare nello stufato di stasera!" –E gli si avventò contro, agitando le lunghe braccia corazzate per afferrarla. Ma Elanor fu più svelta, saltando sul braccio dell’aggressore e usandolo per darsi la spinta per balzare ancora più in alto, mirando all’occhio sinistro, sorpreso e indifeso, con il pugnale che stringeva in mano.

L’urlo furioso del gigante fu accompagnato da un battere e percuotere continuo dei piedi sul suolo, che fece tremare l’intero complesso montuoso, generando frane e smottamenti, mentre il colosso tentava di tamponare la ferita sanguinante con la propria mano, gridando parole oscene. Elanor, nel frattempo, aveva schivato altri due guerrieri, ferendoli alle dita con la sua lama, prima però di essere colpita bruscamente dal calcio di un terzo gigante, che l’aveva fatta ruzzolare per diversi metri.

"Il gioco è finito, bambina! Di Bronto sei ora la bambolina!" –La avvisò questi, strattonandola per un braccio e sollevandola di peso, nonostante le sue effimere proteste. Ebbe cura di mostrarne il corpo alla madre, senza perdersi l’espressione sgomenta, prima di sbatterlo a terra un paio di volte, percuotendolo come un cencio. Quando fece per calare il piedone su di lei, per schiacciare definitivamente quell’effimera minaccia, sentì qualcosa pungergli la pianta del piede, strappandogli un gemito di sorpresa e fastidio. –"Ahia! Quest’insetto mi ha punto!"

"Ahr ahr! Ma guardatela, stringe ancora un pugnale in mano! Bronto è stato ferito da un’ape! Ahr ahr!!!" –Risero gli altri giganti, osservando la ragazza, sfinita e stremata, ancora con in grado di sollevare un braccio per reggere una lama.

Fu allora che esplose il cosmo di Selene, generando un bagliore abbacinante che mai aveva violato le vallate interne del Pindo, neppure nei giorni del massimo splendore del culto di Apollo. Berto e i due giganti che lo affiancavano vennero annientati da tale improvvisa detonazione, dilaniandosi in urla di tormento, mentre il resto del gruppo fu scaraventato contro i fianchi dei monti attorno e qualcuno ruzzolò persino di sotto dai precipizi aguzzi.

Per quanto da tempo avesse abbandonato ogni velleità bellica, divenendo una Dea dedita agli affetti del proprio focolare domestico, la vista della figlia maltrattata e violentata aveva risvegliato in Selene la sopita fiamma del cosmo. Ma la repentina esplosione l’aveva anche fiaccata, prostrandola a terra, ansimante e ferita, incapace persino di trascinarsi fino al corpo della primogenita per verificarne le condizioni.

"Ela… nor…" –Mormorò la Dea, allungando una mano nella sua direzione.

"Ma… dre…" –Trovò la forza per risponderle la ragazza, rotolando a fatica su un fianco, quel tanto che le bastò per incrociarne lo sguardo addolorato. Uno sguardo che fino a pochi minuti prima aveva tentato di evitare e di cui adesso invece aveva disperato bisogno. –"Perdonatemi…"

"Maledette donnacce!!!" –Ringhiò allora una voce, mentre passi pesanti si avvicinavano loro da direzioni diverse, anticipando l’arrivo di cinque giganti sopravvissuti, sia pur malconci. –"Avremmo dovuto farle fuori subito, anziché giocarci! Che ci serva da lezione! Nostra madre ce l’ha insegnato, no? Ad aver paura della luce! Repentina, può accecarti in qualsiasi momento; per questo è meglio l’ombra, perché culla e non brucia mai! No…" –Ripetè Bronto, fissando la Dea dall’alto con l’unico occhio buono rimastogli. –"L’ombra non brucia! L’ombra è una sempiterna pace!" –Gridò, sollevando il rozzo piede e calandolo infine sul corpo indifeso di Selene.

Un lampo di luce violetta lo distrasse all'improvviso, facendogli mancare il bersaglio, proprio mentre la stessa luce, dalle sembianze simili a quelle di un grosso uccello dalle ali spalancate, svolazzava nell’aria di fronte agli attoniti giganti, planando su Selene e poi su Elanor, e portandole via.

"Eh?!" –Bofonchiarono i colossali predoni, mentre l’intensità del bagliore diminuiva rivelando colui che dietro tale lucore s’era celato. Un uomo dai capelli rossicci rivestito da una coprente armatura dai colori indaco e avorio, sul cui schienale erano affisse due ampie ali piumate.

"Ma è soltanto un uomo!"

"Ha la corazza! Quindi è un Cavaliere!" –Aggiunse Bronto, prima che Baffo scoppiasse a ridere. –"Allora dovremmo esserlo anche noi!"

"No!" –Parlò allora il nuovo arrivato, con voce calma e fredda. –"Voi siete soltanto feccia!" –E sollevò un braccio al cielo, rivelando per la prima volta il suo cosmo. –"Cadete, sotto le mie lame di luce! Dominion of light!!!"

Migliaia di fendenti di energia piovvero sui malcapitati guerrieri, senza che questi riuscissero a comprenderne la provenienza. Li travolsero da ogni direzione, scheggiando le loro corazze e sventrando i loro corpi, in uno schizzar continuo di sangue e membra umane. Alcuni colossi abbozzarono una qualche forma di resistenza, sollevando le braccia sopra la testa, per ripararsi da quel mitragliare continuo, e caricando lo sconosciuto, nel tentativo di schiacciarlo con la loro mole. Ma, correndo alla cieca, non poterono vedere che il misterioso cavaliere già aveva cambiato posizione, scavalcandoli con un sol battito d’ali e portandosi dietro di loro. Una sventagliata di lame di luce li raggiunse alla schiena, dilaniando le carni e ponendo fine alla loro avanzata.

"Bastardooo!!! Nessuno si prende gioco di noi!" –Gridò allora un gigante, spaccando il suolo sotto di sé con un deciso colpo di mano e facendo poi leva per sollevare un immenso lastrone di roccia, su cui il salvatore di Selene era in piedi.

Fu svelto, quest’ultimo, a balzare via, ma dovette coprirsi il volto con ambo le braccia per parare il violento affondo di un altro colosso, piombato su di lui con il pugno teso, venendo spinto indietro di molti metri. Ne approfittò Baffo per scagliargli contro l’intero lembo di terra e roccia che aveva sradicato, seppellendocelo poco dopo tra le sghignazzate soddisfatte dei due giganteschi guerrieri rimasti.

"Lo maciullo!" –Ringhiò, spiccando un salto e atterrando a piedi uniti sul mucchio di pietra e terriccio e iniziando a calpestarlo con foga crescente. –"Igh igh! Spezzatino di impiccione, stasera! Ma’ sarà contenta!"

"Fallo ben triturato! Sai che non mi piace quando mi resta roba tra i denti!" –Lo istigò l’altro, prima di incamminarsi verso il limitare dello spiazzo, dove Selene ed Elanor ancora giacevano prive di sensi. Dovette fermarsi di colpo quando un’improvvisa luce sorse alle sue spalle, accompagnando e sovrastando l’ultimo urlo del gigante suo compagno e fratello, devastato dall’onda di energia. –"Che… cosa? Che cos’è quello?!" –Ringhiò l’ultimo colosso rimasto, osservando una bestia di luce, dalle strane forme, solcare il cielo e dirigersi poi in picchiata verso di lui.

La parte anteriore pareva quella di un’aquila, con il prominente becco rivolto verso di lui e gli artigli pronti ad affondargli nel cuore, ma il resto del corpo era decisamente troppo grosso. E quelle zampe posteriori??? Si chiese il gigante, non riuscendo a metter in piedi nessun’altra strategia che non fosse mettersi a correre, abbandonando tutto il resto, prede comprese.

L’animale di energia lo raggiunse poco dopo, trapassandolo all’altezza del ventre e gettandolo a terra in una pozza di sangue. Continuò il suo volo ancora un po’, giusto per sincerarsi che non vi fossero ulteriori predoni in agguato, e poi atterrò accanto ai corpi feriti delle due donne, una delle quali pareva essersi ripresa dallo stordimento.

"È incredibile… Sto sognando, non è così? Sei… un ippogrifo!" –Mormorò Elanor, faticando nel rimettersi in piedi.

"Questo è il mio simbolo!" –Si limitò a commentare il giovane dai capelli vermigli, aiutandola a rialzarsi. –"Siete state fortunate che mi trovassi nei dintorni o avreste fatto una brutta fine! I Giganti di Ebdera fanno davvero quel che promettono! Se vi hanno detto che vi avrebbero mangiato, state pur certe che questa sera avrebbero banchettato con i vostri corpi!"

"Ma è disgustoso!!!" –Esclamò Elanor, tirando un’occhiata veloce verso i cadaveri dei giganteschi guerrieri. –"Che razza di uomini sono?!"

"Non sono uomini infatti. Non più. Hanno abiurato alla loro natura umana quando hanno abbandonato la precedente vita, entrando nella confraternita! È una strana fratellanza, quella dei Giganti di Ebdera, celata nelle montagne della Morea! Qualcuno sostiene che siano discendenti dei primi giganti, figli bastardi che qualche Titano seminò per la Grecia all’epoca dell’ultima grande guerra. In verità sono solo briganti che seminano il terrore nelle montagne del Peloponneso o nelle piane dell’Attica, raccogliendo altra feccia umana loro pari. Predoni, pirati, Cavalieri rinnegati, Cavalieri mai investiti di tale titolo. Per denaro o altre ricchezze farebbero qualsiasi cosa! Mi sorprende, e mi preoccupa, che siano giunti così a nord nelle loro scorribande! Ed erano addestrati e ben corazzati! Tutto ciò è sospetto, dovrò proporre al Sommo di estirpare una volta per tutte questa minaccia! Voglia il cielo che non siano riusciti a mettere le loro mani sudice su di voi!"

"Il cielo o chi da esso discende per combattere!" –Annuì la primogenita di Selene, prima di chinarsi sulla madre e risvegliarla, raccontandole l’accaduto.

Il loro salvatore, intanto, si era diretto verso i resti del santuario di Apollo, iniziando a spostare i massi franati e liberando infine una via verso il recesso profondo, spinto da Elanor, che gli aveva spiegato che le sue sorelle erano rimaste là sotto. Voci di donna giunsero ai suoi orecchi poco dopo, voci concitate, affannose, ma adesso colme di gioia. Con un ultimo sforzo, il cavaliere dell’ippogrifo aprì infine un passaggio verso una cavità sotterranea, probabilmente una cella dell’antico complesso templare, dove Endimione e le ragazze si erano rifugiati in fretta, non appena la pioggia di massi era iniziata. Spaventate, con le vesti lacere e numerose ferite e contusioni a deturpare i loro corpi perfetti, erano comunque ancora vive e grate all’uomo che le aveva salvate. Uomo di cui, come Selene ed Elanor ebbero a notare poco dopo, ancora non conoscevano il nome.

"Sono Shen Gado dell’Ippogrifo! Cavaliere Celeste al servizio del Sommo Zeus!" –Si presentò, inchinandosi con deferenza.

***

La Sala del Trono era piuttosto affollata quella sera, obbligando Ebe e Ganimede a un continuo affaccendarsi, per fare in modo che tutti i presenti avessero di che ristorarsi. Nonostante l’antica rivalità che aveva marcato il loro rapporto, in quell’occasione i due coppieri olimpici dovettero collaborare per assicurare a Zeus i migliori servigi. Non che Ganimede già non vi provvedesse, ma da tempo la reggia non accoglieva così numerosi ospiti.

Cinquanta fanciulle e una coppia sui generis. Una Dea e un uomo mortale, che ne era divenuto il fedele compagno. Un uomo che, al pari dello stesso Ganimede, aveva beneficiato di un dono divino, permettendogli di elevarsi al di sopra delle altre genti.

L’eterna giovinezza.

Il coppiere sorrise, riempiendo di ambrosia la coppa di Endimione e allontanandosi poco dopo in silenzio, mentre il Cavaliere Celeste del segno dell’ippogrifo terminava di esporre il resoconto dell’accaduto al Signore del Fulmine.

"È stata l’esplosione repentina del cosmo della Dea della Luna a indicarmi con chiarezza ove si trovassero! Così sono potuto intervenire prontamente, per sbaragliare quel che restava dell’oscura fratellanza!"

"Fratellanza di cui temo, ahimè, sentiremo ancora parlare!" –Commentò la cristallina voce di Ermes, in piedi a pochi passi da Shen Gado, alla base della scalinata che conduceva alla sala del trono.

"Già già! Ma tutto è bene quel che finisce bene, non è così?!" –Esclamò allora Zeus, seduto in maniera scomposta sullo scranno regale. E fece cenno a una ninfa di portargli ancora una coppa d’ambrosia, approfittandone per studiare con attenzione il suo delicato corpo quando questa si avvicinò.

"Non sottovaluterei il problema, mio Signore! Potrei guidare un’offensiva contro di loro! I Giganti di Ebdera sono…" –Ma la voce del Sommo sovrastò quella di Shen Gado, ancora in ginocchio, con lo sguardo rivolto al pavimento.

"Un cumulo di avanzi del Tartaro! Bestioni deformi e stupidi la cui intelligenza è inversamente proporzionale alla loro stazza! Se Selene non si fosse fatta cogliere di sorpresa, non avrebbe avuto problemi a sgominarli con un cenno della mano! E ora basta parlare di rozze violenze! È un giorno di festa questo! Pensiamo a festeggiare!" –Affermò il Signore dell’Olimpo, mettendosi in piedi e sollevando il calice, incitando tutti i presenti a fare altrettanto.

Era, seduta al suo fianco, si alzò a sua volta, obbligando anche le altre Divinità e i Cavalieri Celesti presenti nell’ampio salone ad alzare le loro coppe dorate, in un tintinnio che suonò come musica superba alle orecchie del padrone di casa.

"All’audace Shen Gado, che mise in fuga i giganti! E alla divina Selene, che dopo tanti anni passati a spiarci di nascosto dall’altra faccia della luna, ha pensato bene di passare a farci un saluto! E io le dico: salute!"

"Salute!" –Ripeterono in coro i presenti, più o meno convinti.

"Per la verità, sono passata per un altro motivo, Divino Zeus!" –Intervenne allora la Regina della Luna, lasciando la panca ove era assisa, accanto a Endimione, e incamminandosi verso il centro della stanza, raggiungendo Shen Gado. –"Ho una richiesta da farti, una richiesta che spero potrai accettare!"

"Parla pure, Dea della Luna! A meno che tu non voglia chiedermi la mia riserva di ambrosia, e ti assicuro che è di un’ottima annata, Dioniso lo può confermare…" –E a quelle parole un Dio dalla faccia rubiconda, seduto alle spalle di Ermes, annuì ridendo, il liquido violaceo che gli ruscellò fuori dalla coppa fin troppo colma. –"Non ho motivo di rifiutarti alcunché!"

"Ne sono lieta, mio Signore, perché intendo chiederti il tuo Cavaliere Celeste! Il valoroso Shen Gado dell’Ippogrifo!"

A quelle parole il cicaleccio nella sala si zittì, mentre decine e decine di teste si voltarono prima verso Selene poi verso Zeus, chiedendosi se la donna stesse scherzando o quanto il Nume avrebbe impiegato a folgorarla per una simile pretesa.

"Che impertinenza!" –Commentò Dioniso, sottolineando la sua opinione con un sonoro rutto.

La Dea della Luna non si fece intimorire, inginocchiandosi di fronte alla scalinata e spiegando le ragioni della propria richiesta.

"Questo viaggio è stato utile! Per quanto io non ami la Terra, né i suoi abitanti, e abbia deciso a suo tempo di fuggirla, è ugualmente vero che il mio reame beato non dispone di guerrieri, soltanto di pacifiche Divinità in cerca di un mondo migliore. La presenza di un Cavaliere così intrepido e competente, capace di difendere la mia famiglia da eventuali minacce, mi rassicurerebbe!"

"Che minacce mai potrebbero giungere in quelle desolate lande?!" –Ridacchiò qualcuno, forse il Dio del Vino.

"Le tue ragioni sono fondate, Divina Selene, per questo ti concedo di servirti di Shen Gado, sempre che sia ciò che egli desidera! No, non ringraziarmi, ben misero dono ti ho fatto in fondo! Sono certo che si stuferà presto di quei paesaggi solitari! Per adesso, brindiamo… all’Ippogrifo… sulla Luna!"

"Sulla Luna!!!" –Esclamarono tante voci in coro.

. Mormorò Selene, afferrando la mano dell’amato e fissandolo negli occhi. Sulla Luna! Finalmente sarebbero tornati a casa.

***

"Perché me?!"

La domanda non giunse inattesa. Del resto, Elanor era certa che il Cavaliere fosse abbastanza intelligente da aver capito.

"Vostra madre avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa in dono e Zeus avrebbe acconsentito. Quindi… perché chiedere un Cavaliere Celeste?"

"Non un, ma il!" –Sorrise Elanor, prima di annuire. –"È stata una mia idea, lo ammetto! Ti ho visto combattere quest’oggi, ho visto la determinazione nei tuoi occhi, la stessa che anch’io un giorno riverserò in battaglia! Ti chiedo soltanto di prepararmi!"

"Alla guerra?! Una principessa che vuole sporcarsi le mani?!"

"Non sono una principessa!" –Avvampò la primogenita di Selene, trattenendosi dalla voglia di schiaffeggiarlo. –"Da oggi sono la tua apprendista!"

"Segreta apprendista!" –Puntualizzò questi, accennando un sorriso. –"Se non volete che la Dea della Luna addobbi casa con un ippogrifo imbalsamato!"

***

Danes era stato sconfitto. Danes aveva perso.

Era la prima volta che tornava a casa senza preda, la preda volta in cui, accecato dalla facile vittoria, si era lasciato travolgere da un’entità dotata di cosmo. Eppure sua madre, la madre di tutti i giganti, aveva sempre detto loro di non temere il cosmo, poiché erano in grado di vincere chiunque grazie alla loro devastante forza bruta.

Che avesse torto?

No! La madre non può avere torto! Si disse il gigantesco guerriero. Lei ci ha nutrito finora, lei ci ha reso forti. Lei ci ha allattato nell’oscurità. Lei, la donna che avevano chiamato Ebdera, sebbene nessuno sapesse chi fosse realmente.

L’avevano trovata in una caverna, nel cuore della Morea, ove i giganteschi predoni erano soliti fare razzie, e ne erano rimasti affascinati. Il suo aspetto, all’epoca, era ben diverso da quello attuale e inizialmente non avevano neppure compreso che cosa fosse quel bozzolo di energia oscura. E sarebbero tutti morti prima di saperlo, prima di conoscere la verità su di lei.

La culla delle tenebre.

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: Vent’anni prima del secondo avvento.

Fine.