CAPITOLO SEDICESIMO: IL FALCO ALL’ATTACCO.

"Posso portarvi altro, Cavaliere di Virgo?" –Domandò l’archivista, dopo aver depositato alcuni tomi su un tavolo della Biblioteca del Santuario.

"Va bene così, Nicole! Se mi servirà aiuto, ti chiamerò!" –Si limitò a rispondere il Custode della Sesta Casa, ringraziandolo per avergli mostrato i libri che stava cercando. Quindi, vedendo che l’uomo non accennava ad allontanarsi, sollevò la testa e gli chiese se ci fossero problemi.

"Mi chiedevo soltanto a cosa fosse dovuto il vostro interesse per quel periodo storico. Gli Anni Bui non sono molto ricercati dagli studiosi, che preferiscono concentrarsi su periodi di maggior gloria di Atene, come gli anni dell’edificazione del Grande Tempio e delle Dodici Case!"

"Ritengo che la storia offra sempre qualcosa da insegnare, qualcosa di utile a coloro che dopo di noi verranno, anche nei momenti in cui l’umanità e gli Dei hanno rivelato i loro lati peggiori. Come potremmo in fondo apprezzare la luce, se non conoscessimo gli orrori dell’ombra?" –Rispose pacato il Cavaliere di Virgo, mentre l’archivista annuiva soddisfatto, inchinandosi e tornando poi al suo lavoro di catalogazione.

Impiccione! Sibilò, dopo che si fu allontanato, iniziando a sfogliare gli antichi volumi. L’idea gli era venuta per caso, dopo aver appurato che tra le memorie del Primo Saggio non vi fosse niente di valido, al riguardo. Del resto non avrebbe avuto motivo di approfondire, non essendo stata una battaglia che vide il coinvolgimento di Avalon o di altri regni divini ad eccezione di quelli greci. Ma di certo negli Annali del Santuario il luogo della sua caduta deve essere certamente indicato!

Il volto del Cavaliere d’Oro si torse in un perfido sorriso al pensiero di quel che avrebbe potuto ottenere, se fosse riuscito a risvegliarlo, o quanto meno a individuarlo. Un braccio armato contro Atene! In fondo, non solamente Tifone e i Giganti hanno marciato contro il Grande Tempio, anche altre colossali creature hanno ben ragione di essere in collera con gli Olimpi per le condanne che loro inflissero. E poiché non hanno preso parte alla recente Titanomachia, debbo arguire che ancora riposino nel limbo, attendendo la chiamata di un sogno di conquista. Io darò loro quel sogno, rendendolo afferrabile come le redini di una giumenta. E loro lo cavalcheranno, aprendo la strada alla distruzione dei regni di Grecia! Doveva soltanto trovare il luogo in cui furono sconfitti, il luogo in cui Zeus spalancò l’abisso di Tartaro, confinandoceli uno ad uno.

La risposta gliela mostrò l’ultimo tomo, sulla cui costola esterna una sbiadita scritta in caratteri greci indicava l’argomento di narrazione.

Ατλας

Scritta dall’unico Cavaliere d’Oro sopravvissuto al cruento conflitto, la cronaca era corredata da una cartina illustrante il tentativo di fuga dell’ultimo dei quattro fratelli. Anche se disegnata a mano, con qualche imprecisione frutto del periodo storico in cui fu redatta, Virgo riconobbe distintamente i confini settentrionali del continente africano, le propaggini dell’arcobaleno ove era celata la sua pentola d’oro.

***

La Erinni attaccò subito, mulinando una frusta fiammeggiante.

D’istinto, Horus si portò di fronte a Naveed, per proteggere il suo sottoposto e i Cavalieri delle Stelle, che ancora giacevano incoscienti sul pavimento del sotterraneo. Sollevò il braccio destro e lasciò che la verga vi si annodasse, ustionando la corazza ma non raggiungendo la pelle al di sotto. Prima che il Dio potesse liberarsene, la creatura gli scagliò contro la torcia che reggeva in mano, obbligandolo a balzare in alto e a spalancare le ali, librandosi a mezz’aria, mentre l’asta si conficcava per terra.

Deciso a passare al contrattacco, Horus continuò a volare, trascinando la Erinni con sé, in modo da obbligarla a lasciare la presa della frusta. Lo spazio angusto limitava i loro movimenti e il calore che le fiamme della creatura stavano generando lo rendevano posto quanto mai inadatto per un lungo scontro, per cui il Dio tentò di chiuderlo in fretta. Senza però riuscirvi.

Restò sorpreso quando vide che anche la Erinni poteva volare, grazie a tenebrose ali d’uccello, o di qualche demoniaca creatura che non conosceva, che spuntavano dalla sua schiena, e presto se la ritrovò addosso, con tutte le serpi, l’alito fetido e la brama di sangue.

"Artigli del falco!!!" –Gridò il figlio di Osiride, liberando fendenti di energia con cui mozzò le vipere che si protendevano verso di lui, trinciando anche la frusta e permettendosi maggiore libertà d’azione. Ma la donna mostruosa non ne fu affatto turbata, limitandosi a ricrearla e a lanciarla verso di lui, una serpentiforme vampa di fuoco che pareva inseguire Horus ad ogni movimento.

"Attento, mio Signore!" –Lo avvertì Naveed, rimasto indietro, in piedi di fronte a Febo e Marins, con la spada impugnata a due mani, terrorizzato da quell’arpia. Se ne avesse avuto l’occasione, sarebbe fuggito al piano di sopra, portando almeno uno dei feriti con sé, ma la scalinata era proprio alle spalle della Erinni che, sia Naveed che Horus l’avevano notato, cercava sempre di non allontanarsene troppo.

Un guizzante colpo di frusta afferrò il Dio per un calcagno, dando alla bestia la possibilità di sbatterlo a terra, fargli perdere l’elmo della corazza e poi piombare su di lui.

"Stammi lontana!" –Avvampò Horus, volgendole contro il palmo della mano, da cui lampi di energia saettarono, aprendosi a ventaglio di fronte a sé e tenendo indietro le serpi infuocate. Pur tuttavia, per quanto fosse finora riuscito a non farsi mordere o ferire, il Dio percepì il peso di quello scontro, quanto in fretta le sue energie stessero scemando, risucchiate, quasi prosciugate dall’aria fetida di quel santuario. Persino volare l’aveva stancato e presto non avrebbe più potuto permetterselo. Strinse i denti, abbandonandosi a un paio di improperi, cercando un modo per salvare Febo.

Febo… Mormorò infine, capendo che causa e risultato di quella missione potevano combaciare. E sfrecciò verso di lui, subito seguito dalla Erinni, le cui serpi si snodarono bramose nella sua direzione.

"Naveed! Colpiscila!!! Ora!!!" –Gridò Horus, mentre il soldato puntava la Spada del Sole liberando un raggio di energia ardente che annientò una vipera, obbligando l’animalesca donna a frenare la sua avanzata.

"Anche io posso farti male, eh?" –Commentò il guerriero, con una punta d’orgoglio per la buona mira avuta. E rinnovò l’assalto, liberando nuovi fasci di energia, forzando così la Erinni sulla difensiva.

"Bravo Naveed, tienila impegnata! Dammi… un minuto!" –Esclamò Horus, chino adesso su Febo. Gli sollevò la testa, schiaffeggiandolo un paio di volte nel tentativo di svegliarlo, quindi afferrò il tiet, stringendolo tra le mani e concentrando il cosmo, per attivarlo. –"Iside, madre mia, l’amuleto di cui mi faceste dono, affinché mi donasse protezione e luce, in questo mondo come nel prossimo, possa essere per Febo un faro nell’oscurità, un’ancora di salvezza prima che l’oscurità della morte lo possieda! Vi supplico, aiutatelo, sciogliete il nodo della vita e permettetegli di tornare a camminare!"

"Mio Signoooreee!!!" –Urlò allora Naveed, interrompendo la meditazione del Dio, che si voltò di scatto, vedendo la verga fiammeggiante strappar via la spada dalle mani dell’uomo e gettarla nelle tenebre del sotterraneo, prima di tornare indietro e puntare alla sua testa.

"A terra!!!" –Horus gettò a terra il soldato, balzando su di lui, proprio mentre la frusta passava mulinando nell’aria sopra di loro, quindi lo spinse via, rinnovandogli l’invito a portar fuori i due Cavalieri delle Stelle non appena ne avesse avuto l’occasione. –"Io ti darò quella possibilità! Dovessi morire nel farlo, ma te la darò! Febo, fratello mio, torneremo a Karnak!"

***

Non solamente Iside udì l’invocazione di Horus. Anche suo padre, all’esterno del santuario, macchiato di sangue e budella, ne percepì la passione, la sensibilità, l’accorato sfogo, e decise di fare il possibile per non vanificare i suoi sforzi.

"Flagello di Amenti!!!" –Tuonò, aprendo un nuovo squarcio dimensionale dentro il quale risucchiò una ventina di Empuse, incurante dei loro lamenti disperati, poca cosa in fondo rispetto a tutto il dolore che avevano provocato.

Ma poca cosa fu anche l’effetto di quel colpo, la cui minore intensità fu percepita dalle divoratrici rimaste, che videro con estremo piacere il Dio barcollare stanco, fino a doversi appoggiare al bastone per non cadere a terra. Osiride digrignò i denti con rabbia, pur di non doverlo ammettere, ma quel continuo guerreggiare lo stava prosciugando di ogni energia. Facendosi forza, si risollevò, proprio mentre una carica di vacche furiose sopraggiungeva a gran velocità, i corni lucenti rivolti verso il suo cuore.

"Correte ad abbracciare la morte?!" –Esclamò il nume, puntando lo scettro dorato avanti a sé che irradiò migliaia di fasci di energia, falciando quella ferina cavalcata.

Non s’avvide però Osiride di una ristretta mandria di Empuse che aggirò il grosso delle vacche, portandosi lesta alle sue spalle. Lo travolsero in una decina, fiatando fiamme di cosmo dalle fauci, e sbattendolo a terra, facendogli perdere la presa sul bastone d’oro e ustionando l’elegante Veste Divina con il loro alito incendiario. Un’ultima violenta esplosione cosmica permise al Signore di Amenti di liberarsi anche di quella carica, privandosi però della quasi totalità della sua forza.

Respirando a fatica, il volto pallido e scavato dalla stanchezza, Osiride si appoggiò su un ginocchio per tirarsi su, e proprio in quel momento le lunghe corna oscure di un paio di Empuse lo trafissero alle cosce, strappandogli un grido di dolore.

"Cibooo!!!" –Ghignò una vacca, già pregustando il delizioso manicaretto che un corpo di stirpe divina rappresentava per il suo vorace palato.

"Ci… cibo?!" –Mormorò il Dio, stordito e sopraffatto da mille pensieri. –"Non ho permesso ad Apep di nutrirsi del mio corpo, dovrei permetterlo a voi, immonde sanguisughe?!" –Avvampò, bruciando quel che rimaneva del suo cosmo.

Con rabbia, si strappò il flagello e il pastorale incrociati sul pettorale, piantando poi il doppio scettro nelle fauci aperte dell’Empusa, dilaniandola dall’interno. Quindi, usandolo come un coltello, le squarciò la gola, staccandole la testa. Ebbro di sangue e furia, sradicò il cranio della vacca sgozzata, strappando via il corno dalla sua gamba ferita, e lo mulinò, piantandolo nel tozzo corpo della seconda bestia, affondando le aguzze corna in profondità, scannandole le budella. Estrasse poi il corno dalla seconda gamba e lo sollevò in aria, in gesto di trionfo, gridando a squarciagola.

"Chi altro vuole sfidare Osiride? Chi ancora vuole sfidare la morte?"

Nessuno rispose, perché non vi era più nessuno in vita per parlare.

I soldati che lo avevano accompagnato erano tutti morti e i loro cadaveri marcivano tra le vacche trucidate, decorando col rosso del sangue e con l’oro e il verde delle loro vesti la brulla spianata di terra di fronte al santuario oscuro. Prima ancora del ritorno dei suoi occupanti, il tempio aveva già ospitato un rito di sacrificio in loro onore.

"Non siete caduti invano!" –Vociò Osiride, spaziando con lo sguardo tra i corpi dei caduti. –"Il vostro coraggio sarà ricordato, la vostra condotta di vita eletta a modello esemplare e i vostri nomi saranno enumerati nel Libro dei Morti, sotto la voce audacia! Testimonianza di rettitudine sarete per coloro che verranno!"

Fu allora che, tra i cadaveri squartati delle Empuse, notò delle fiammelle accendersi, guizzare in aria e rivolgergli velenose fauci affamate. Un’apertura alare anticipò il sollevarsi dell’animalesco corpo della terza Erinni, quella a cui il Dio aveva mozzato il braccio e che adesso impugnava una frusta fiammeggiante, pretendendo vendetta.

"E sia allora! Che questa sia davvero per me la terra del non ritorno!" –Esclamò Osiride, impugnando lo scettro regale, mentre la creatura, dall’alto, piombava su di lui, incurante degli strali energetici che il Dio gli stava dirigendo contro.

La Erinni lo schiacciò al suolo, lasciando che le serpi infuocate gli bloccassero braccia e gambe, stritolandole e incendiandole con vampe infernali, insinuandosi tra le crepe dell’armatura e affondando i velenosi denti nelle carni, per nutrirsi del divino sangue d’Egitto. Agonizzando, Osiride riuscì a sollevare il bastone, torcendolo di fronte a sé per tenere a bada il volto orribile della rivale, quel nido di serpi che non poté non ricordargli Seth, e l’inganno di cui era rimasto vittima millenni addietro.

Quale ironia, ripensare a quel tempo, quando aveva creduto a suo fratello, l’ingannatore, lasciandosi rinchiudere in quella bara e affogare. Una bara! Una sepoltura che adesso, in così lontana terra straniera, non avrebbe avuto. Sbuffò, o forse sentì il fiato venefico della Erinni sul collo, il sibilare di centinaia di vipere di fuoco assetate come non mai.

Pensare a Seth però gli fece venire in mente anche qualcos’altro. Non solo il tradimento del fratello, il dolore e la morte. Ma anche l’impegno che coloro che lo amavano profusero nella sua ricerca. Iside, che lo riportò in vita e che poi cercò i pezzi del suo corpo, e Horus, che quando fu grande abbastanza non esitò ad affrontarlo in battaglia, in quel durissimo scontro di cosmi in cui perse un occhio. E lo fecero per lui. Per amor mio!

"Horus!" –Mormorò Osiride, infiammando al ricordo del sacrificio del figlio. –"Rinunciò a un occhio pur di tenere alto il mio nome! Che padre sarei, che Dio sarei, se non fossi pronto a fare altrettanto?!" –Ruggì, bruciando tutto il proprio cosmo, tutta la sua lunga vita e incenerendo le serpi avvinghiate al suo corpo. –"Vuoi i miei occhi, lurida bestia? Orbene te li darò!" –E si portò una mano al volto, strappandosi un bulbo oculare, mentre con l’altra mano afferrava la Erinni per il collo, incurante delle vampe di calore che trasudavano dal suo corpo. Le spalancò la bocca a forza, ficcandole in gola l’occhio, per poi ritirare la mano e osservarla gustare smaniosa la sua preda.

Ma pochi attimi dopo la donna cacciò un grido terribile, in preda a convulsioni violente, sentendo un fuoco immenso dilaniarla dall’interno. Tentò di volar via, ma Osiride la afferrò per le ali, sbattendola a terra, il cosmo ormai acceso alla massima intensità.

"Non avere fretta! Il castigo divino oggi ha raggiunto tutti noi!" –Le disse, prima di lasciarsi esplodere.

***

"Febooo!!!"

Il grido lancinante di Horus raggiunse un qualche angolo della sua mente turbata, venendo captato dai ricettori del suo subconscio. Il battito del suo cuore aumentò leggermente, pur rimanendo molto debole, al di sotto della soglia necessaria alla sopravvivenza. Eppure Febo era vivo, doveva esserci ancora qualcosa di sé, qualcosa rimasto puro e immacolato dall’abominio cui assieme a Marins era stato fatto oggetto.

Guaì, così piano che neppure lui stesso avrebbe potuto udirsi, al solo ricordare le torture subite, il dolore che Algea aveva inflitto loro. Non solo fisicamente, bensì interiormente. La Dea delle Sofferenze aveva prosciugato il loro cosmo, risucchiando la linfa vitale che del cosmo era ricettacolo primario. E con esso se ne erano andati i ricordi, i momenti belli, gli affetti, le carezze degli amici e le vittorie sofferte contro i nemici. Una parte di sé era fluita via, distillata e svenduta come vino a un suk.

E cosa gli era rimasto adesso? La forza? Ben poca se non riusciva neppure a piegare le dita. L’esperienza? Misera, avendo affrontato un numero esiguo di avversari, per quanto neppure riuscisse a ricordarli. La volontà? Umpf, era la prima cosa che Algea aveva sottratto loro, asservendoli all’oscuro volere di quel tempio.

Il tempio… Mormorò, strizzando le palpebre, mentre fitte di dolore gli pervadevano il corpo, ferendolo come lame di pugnale. Solo pensarlo, solo immaginarlo era fonte di sofferenza. E quello che era accaduto là dentro, ciò che avevano trovato, si era rivelato peggio di quel che Avalon avrebbe potuto illustrare loro. Là dentro, ove avevano combattuto fino allo stremo, prima di essere divorati dall’ombra, dimorava il male allo stato più puro. Un essere senza corpo, un manto di puro cosmo contro cui nessun’arma avrebbe potuto avere effetto.

Una omega immensa.

"Aaahhh!!!" –Se avesse avuto la voce, avrebbe urlato. Se avesse avuto la vista, avrebbe pianto. Se avesse posseduto il tatto, avrebbe allungato le mani per riuscire anche solo a toccarlo. L’infinita vanità del tutto.

Così era caduto, e Marins era crollato al suo fianco.

Persi i Talismani, distrutte le armature, privati persino della coscienza, cosa restava loro? Soltanto languire in un nulla senza fine, aspettando l’avvento del re dal tremendo potere.

"Il re…" –Ansimò Febo, febbricitante, il volto madido di sudore. Chi era il re? C’era stato un re nella sua vita, una figura così importante, così maestosa, da servire e onorare, da venerare con rispetto, nutrendosi dei suoi principi, della sua grazia, della sua luce?

"Luce…" –Mormorò, prima di perdere di nuovo i sensi.

"Febo!!!" –Lo chiamò allora una voce di donna. Una voce che non aveva mai udito in vita sua. Ma che poteva appartenere soltanto a lei.

"Ma… madre?!"

"Febo, svegliati!" –Ripeté la donna, parlando con voce vellutata, soffice come un abbraccio. Come l’abbraccio che non aveva mai potuto dare al figlio.

"Madre, dove sei?!" –Balbettò Febo, agitandosi nell’oscurità.

"Sono qui! Segui la mia luce! Segui la luce del sole, fonte di vita!"

Il ragazzo chiuse gli occhi, osservando un riverbero di speranza baluginare lontano. Vi si diresse, nudo e scalzo, mentre il ciuffo di luce aumentava di intensità, fino a entrarvi dentro e a passarvi attraverso. Si ritrovò così a Delfi, la splendida e operosa città del Parnaso ove Apollo aveva fatto innalzare il suo santuario e ove l’oracolo parlava in suo nome.

Era una calda giornata primaverile e il sole faceva risplendere le colonne di marmo del tempio del Nume, fuori dal quale una gran folla era riunita per rendergli omaggio e invocare la sua benevolenza. Febo passeggiò nel pronao, senza che nessuno gli rivolgesse parola, senza che nessuno lo vedesse, entrando infine nella cella principale del santuario, dove sua madre lo aspettava.

"Sei bellissimo!" –Gli andò incontro la donna, sollevando le lunghe vesti di seta.

"Mi… sei mancata!" –Trovò la forza per dirle Febo, mentre la madre lo abbracciava, carezzandogli i capelli biondi. –"Iside mi ha cresciuto, non mi ha fatto mancare niente, neppure l’amore. Eppure… il tuo ricordo non mi ha mai lasciato. A volte mi sento in colpa per la tua sorte, Apollo non ti avrebbe punito se io non fossi nato."

"Non pensarlo mai! La mia sorte io sola l’ho scelta, concedendomi al Dio che mi aveva abbagliato! E mai, neppure per un momento, ho rimpianto quel giorno, perché da quell’unione sei nato tu, figlio del Sole! Un ponte tra culture diverse, simbolo di un’alleanza che mai come in questo momento è necessaria! Ora va’, figlio mio, combatti la tua guerra, io veglierò su di te! Ben poco posso fare! Solo donarti una stilla di vita, che possa essere per te sufficiente per ricordare chi sei e quanto vali davvero!" –E lo baciò in fronte, trasferendogli ogni goccia della sua energia.

"Madre?!" –Esclamò Febo, mentre l’immagine iniziava a tremolare e la donna pareva scomparire, inghiottita dal tempio, da Delfi, dalla Terra tutta. –"Madre?!" –Ripeté, tirandosi su di scatto, in un lago di sudore, e accorgendosi di essere in una cella oscura, disteso su un gelido pavimento. Accanto a lui, nudo e pallido, Marins giaceva inerte, mentre poco lontano, sull’altro lato di quello stanzone, due figure combattevano una danza animalesca. Febo ne percepì il cosmo e riconobbe in Horus il guerriero dall’armatura danneggiata che quelle infami serpi di fuoco stavano stritolando. Si portò le mani al collo, sfiorando il tiet e capì che molti amici avevano contribuito a farlo tornare. Sorrise, piangendo al tempo stesso, prima di sfilarsi l’amuleto e metterlo al collo di Marins, schiaffeggiando l’amico per aiutarlo a riprendere i sensi. Quindi, vedendo che il compagno non reagiva, gli mise le mani sul petto, iniziando a bruciare il proprio cosmo.

Dapprima fu una fiammella di luce, così fatua che neppure Horus e la Erinni se ne accorsero, poi crebbe di intensità, alimentata dall’amore di coloro che credevano in lui. Hannah, sua madre, che lo aveva dato alla luce. Amon Ra, suo padre, che lo aveva accolto nella sua dimora pur tra mille pregiudizi. Iside e Osiride, per cui era sempre stato un figlio, un membro della famiglia reale. Horus, che aveva rischiato la vita per liberarlo da quella prigionia di tenebra. E Marins, il suo migliore amico, al cui fianco altre battaglie avrebbe combattuto.

"Risvegliati, Cavaliere dei Mari! Un’ultima guerra ci attende!" –Mormorò, mentre il suo cosmo cresceva e diventava un sole infuocato che rischiarò l’intero sotterraneo, insinuandosi tra le pietre della struttura e infiammandola in profondità.

"Fe… Febo!!!" –Rantolò Horus, spossato da quel logorante scontro.

"Sono qui!!!" –Rispose fiero il Cavaliere delle Stelle, mentre la sua armatura appariva di fronte a sé, rivestendolo dopo pochi istanti. In quella anche Marins riaprì gli occhi, mentre il cosmo dell’amico lo aiutava a recuperare i ricordi perduti e le forze. –"Dammi un minuto!" –Gli disse, alzandosi in piedi e muovendo un passo avanti, gettando la sua sfida alla Erinni, che subito la colse, scaraventando il corpo stanco di Horus a terra e schizzando verso di lui, ad ali spiegate. –"In questa terra di luce non c’è posto per creature oscure come te! La monderò, con la mia Bomba del Sole!!!" –Gridò, liberando una sfera di energia ardente, simile ad un piccolo astro, che sfrecciò verso la Erinni, investendola in pieno ed esplodendo in un tripudio di fiamme dorate.

Le serpi, la frusta, le ali della bestia infame vennero incenerite, tra gli spasimi atroci dell’ultima castigatrice. Spasimi che presto cessarono, quando una lama infuocata le mozzò la testa, facendola rotolare al suolo prima di disgregarsi in putrida cenere.

"Naveed!!!" –Esclamò Horus, riconoscendo il soldato che, pur pesto e logoro, era ancora vivo.

"Horus, fratello mio!" –Corse allora Febo ad aiutarlo, sollevandolo e ringraziandolo per aver così tanto rischiato in nome suo.

Il Dio Falco lo abbracciò, felice di vederlo sveglio e vivo, mentre anche Marins si rimetteva in piedi, rivestito dalla sua armatura dei Mari Azzurri. I quattro compagni sfrecciarono allora al piano di sopra, passando di nuovo dalla stanza dove Horus aveva conversato con Moros, poche ore prima, e trovandolo ancora lì, sospeso in aria a meditare, completamente disinteressato alla loro presenza.

Che agissero, che corressero, che si agitassero oltre ogni dire, al Dio del Destino tutto ciò non interessava, perché l’ora ultima di tutte le cose sarebbe giunta. Per sé come per loro.

Nel cortile Horus recuperò la sua forma di falco, pur se con fatica, ma capì subito di non poter trasportare tutti e tre i compagni fino in Egitto. Naveed si affacciò allora dal portone principale, per controllare cosa ne era stato dei suoi compagni, e crollò in lacrime di fronte alla carneficina che insozzava il deserto del Taklamakan. Anche Horus si fermò per un momento sulle mura esterne ad osservare il campo di battaglia, riconoscendo il corpo di suo padre tra i cadaveri di cui le Empuse ancora in vita stavano cibandosi. Avrebbe voluto scendere e ucciderle tutte, prendere il suo corpo e portarlo a Karnak per la sepoltura, ma comprese l’urgenza di andarsene quanto prima, prima che qualche nuovo oscuro potere venisse scatenato. Così fece montare Naveed sulla sua schiena, afferrando Febo e Marins con gli artigli, e volò via, restando basso a pochi metri dal suolo, impossibilitato a fare di più.

Fu in quel momento di scoramento che una voce lo raggiunse, una voce che tutti e quattro ben conoscevano, e che spinse Naveed a chinare il capo di riflesso. Quel cosmo che li avvolse, caldo e confortevole, e dentro il quale i loro corpi svanirono poco dopo, apparteneva al Dio supremo di tutto l’Egitto. Il possente Amon Ra.

E luce fu.