CAPITOLO QUINDICESIMO: TERZO INTERLUDIO.

MARE.

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Ventesimo anno prima del secondo avvento.

Pioveva, la mattina in cui mio padre morì.

In realtà, a pensarci bene, non ricordo affatto se piovesse o avesse piovuto la notte prima. Di sicuro il terreno era ancora bagnato, fango fresco dove le nostre impronte, e quelle degli animali di cui eravamo a caccia, risaltavano nitide. È strano, perché tendiamo ad associare la pioggia o la foschia ai giorni tristi? Sarebbe stato diverso se mio padre fosse morto in un giorno di sole o in piena estate? Avrei provato qualcosa di diverso? Il dolore sarebbe stato accettabile o avrebbe smesso di bruciarmi dentro, anche adesso, a distanza di anni? E di vite.

Non so rispondermi, non ho mai saputo farlo. Né saprei dire come andò esattamente, ricordo solo le grida entusiaste di mio padre per aver adocchiato un alce. Lo sparo. Un secondo sparo. E la corsa nella boscaglia, capendo che qualcosa era andato storto. Che il cacciatore era diventato preda.

Il rito funebre durò molto poco, e anche quel giorno pioveva. Il clima era uno schifo nel Vermont, non mi sorprende che mia madre lo avesse abbandonato anni addietro, sebbene ciò avesse implicato dimenticarsi un figlio nell’altra camera. Per fortuna c’era mia zia, lei mi sorrideva sempre, per quanto avesse il sorriso più brutto che gli Dei avessero potuto concederle. Povera donna. In realtà non era neanche mia zia, solo una vecchia compagna del liceo di mio padre, che spuntava ogni anno per la Festa del Ringraziamento portando barattoli di confettura che il suo caro amico ammucchiava in dispensa, dicendomi di non mangiarli mai, neppure se il frigo fosse stato vuoto. Era una solitaria, la zia Susy, una di quelle donne che quando le guardi, e cerchi di studiarne il volto poco curato nascosto dietro fondi di bottiglia, capisci perché non hanno mai avuto un uomo in vita loro. E quando entri in casa, faticando a trovare la strada per il bagno tra le montagne di libri, scatole di puzzle e cibi per gatti, capisci che non avrebbero mai saputo dove metterlo, un uomo.

Comunque la zia Susy mi prese con sé dopo la morte di mio padre. Mi disse di sentirsi obbligata, per l’enorme affetto che la legava all’amico, e credo che fosse davvero sincera, una delle poche persone che possono permettersi di esserlo in questa vita. Mi portò a New York e mi spinse a coltivare i miei sogni, le mie passioni, quelle che lei non aveva mai avuto forza per affrontare, troppo debole e impaurita, troppo disposta a nascondersi dietro i suoi libri per viverla davvero.

"Tuo padre mi disse che ti piace il baseball! New York è piena di posti dove allenarsi! Chissà, in futuro potresti avere Yogi Berra come allenatore!"

E andò proprio così. La vissi alla grande, la vita nella Grande Mela. Mi allenai, irrobustii il mio fisico, imparai a lanciare e divenni molto veloce a correre, dote che avevo sempre coltivato, fin da bambino, quando fuggivo nei boschi delle Green Mountains per saltare la cena.

Correre… L’ho sempre fatto, in fondo, passando da un posto all’altro, da un’occupazione all’altra, da una vita all’altra. Perché? Cos’è quest’inquietudine che mi impedisce di fermarmi troppo a lungo in un posto, di mettere radici, e mi spinge invece ad andare avanti? Senza fermarmi mai.

***

La partita era stata un successo. Aveva rifilato tre strikeout in un solo inning alla squadra avversaria, di fronte a una piccola folla in delirio e agli occhi soddisfatti della zia Susy. Gli faceva piacere che venisse a vederlo giocare, una delle rare occasioni in cui usciva di casa, anche se Marins iniziò a pensare fosse per scambiare due chiacchiere con il padre di un suo compagno di squadra. Un trentenne divorziato che sembrava uscito da uno dei romanzi d’amore che la zia leggeva davanti al caminetto.

Sorrise, seduto sugli spalti dello Shea Stadium, dopo che ormai tutti se ne erano andati, asserendo che la zia se lo meritasse quel momento di felicità.

E lui? Quando avrebbe iniziato a pensare alla sua? Quando avrebbe iniziato a godersela davvero? Pesavano ancora sul suo cuore i lutti del Vermont, o c’era qualcos’altro a ostacolare la sua felicità? Avrebbe avuto tanti motivi per essere sereno, per sentirsi appagato, in quella nuova vita che aveva iniziato a New York, circondato da affetti sinceri e con una carriera sportiva alle porte. Eppurec’era sempre un eppure.

Non sei contento, Marins? Perché? Si chiese, per l’ennesima volta.

"Perché sei vuoto!" –Gli rispose una voce, rubandolo ai propri pensieri.

Il ragazzo si voltò e incontrò lo sguardo attento di un uomo in piedi sulla tribuna, a pochi passi da lui. Silenzioso e immobile, lo osservava da qualche minuto, senza che lui se ne fosse accorto. Avrebbe dovuto spaventarlo, quella strana apparizione, eppure la calma distaccata di quell’uomo pareva mitigare il suo animo inquieto. Indossava una camicia bianca, infilata dentro un paio di jeans, e aveva il volto in parte oscurato dalla visiera del berretto dei Mets acquistato alle bancarelle durante la partita.

"Vuoto?!" –Balbettò, mentre l’uomo infine si mosse, camminando calmo lungo i gradini degli spalti, le mani in tasca, la brezza della sera che gli muoveva i capelli scuri. Infine si voltò, fissando Marins con occhi argentei e uno sguardo indagatore, che pareva spaziare su mondi lontani, mondi che il ragazzo non avrebbe neppure saputo immaginare.

"Proprio così. Privo di ambizioni, di una bussola che ti indichi la rotta, di uno scopo che ti tiri giù dal letto la mattina e giustifichi allenamenti e sacrifici. E non parlo di un obiettivo immediato, facilmente raggiungibile, come la conquista di una base, o di un bel voto a scuola. Mi riferisco a mete ben più lontane nel tempo, ragioni esistenziali in grado di saziare i tuoi perché."

"Non è un po’ presto per decidere cosa dovrei fare da grande?!" –Ironizzò Marins, strappando una risata all’affascinante sconosciuto.

"Prima lo ammetti e prima colmerai il vuoto, sentendoti finalmente appagato. Non vorrai fare la fine di Tantalo?" –Quindi, vedendo che il bambino non conosceva quel nome, gli raccontò la storia del figlio di Zeus. –"Tantalo fu un ricco re dell’Asia Minore che aveva avuto la tracotanza di oltraggiare gli Dei, violando le leggi della xenia, l’ospitalità sacra agli antichi. Così dopo la morte fu sprofondato in Ade e condannato a una pena eterna, impossibilitato a bere e a mangiare! Una pena che presto diventò un supplizio insopportabile, essendo infatti l’uomo immerso in un lago di acque fresche, che si ritiravano ogni volta in cui immergeva le mani per berle. Al tempo stesso sopra di lui pendevano rami carichi di frutti splendidi e gustosi, ma ogni volta in cui allungava le mani per nutrirsi ecco che i rami si ritiravano, lasciandolo ad afferrare il nulla! Oh, quale ironia, Tantalo aveva tutto così vicino, un mondo meraviglioso a portata di mano, senza mai poterlo raggiungere! Una felicità che egli non fu mai in grado di assaporare! Dimmi, Marins, vuoi incontrare anche tu eguale destino?"

Il bambino non rispose, fissando lo sconosciuto con uno sguardo incuriosito e mille domande che avrebbe voluto fargli, prima tra tutte chi diavolo fosse e come facesse a sapere tutte quelle cose su di lui. Ma non trovò di meglio che rispondergli.

"Ho bisogno di una corsa!"

"Una corsa?!" –Rise l’uomo, per poi annuire. –"D’accordo facciamola!" –Gli si avvicinò, gli mise un braccio dietro la schiena, tenendolo stretto, e poi si lanciò dall’alto degli spalti, effettuando un’agile capriola a mezz’aria e atterrando a pieni uniti sul campo da gioco, incurante delle grida di terrore di Marins.

"What the hell… come cavolo hai fatto?!"

"Puoi farlo anche tu, se vuoi!" –Gli sorrise l’uomo, mentre le luci dello stadio si accendevano e i due unici giocatori entravano in campo. –"Ora mostrami i tuoi lanci migliori!" –Incalzò, prendendo alcune palle e passandole al ragazzo che, eccitato da quell’improvvisa sfida notturna, corse a mettersi in gioco. Di nuovo.

Si allenarono per un paio d’ore, lanciando e correndo attorno alle basi, ma per quanto lontano Marins si impegnasse a tirare, quell’uomo era sempre abbastanza veloce da raggiungere i suoi lanci, e il ragazzo credesse che non si stesse neppure sforzando.

Alla fine, stanco per la doppia performance della serata, Marins si buttò a sedere sulle panchine delle squadre, asciugandosi il volto sudato e continuando a interrogarsi sul suo ospite misterioso. Per un momento lo invase la sensazione che si trattasse di un angelo, il suo angelo custode, venuto a portarlo in paradiso, o forse era suo padre, morto e risorto e adesso tornato nella sua vita sotto una forma diversa. Quale che fosse la risposta, non dovette aspettare molto per conoscerla, soltanto allungare il braccio, in risposta alla mano offertagli dall’uomo, e stringerla nella propria. Vi fu un lampo di luce e il William Shea Stadium scomparve. I grattacieli divennero alberi di mele dai frutti succosi, New York un’isola perduta nelle nebbie del tempo e l’Oceano Atlantico un lago di acque calme che lo separava dal resto del mondo.

"Benvenuto ad Avalon, l’isola di cui sono signore!" –Gli sorrise l’uomo. –"Qua potrai dare un senso alla tua vita, finora rimasta incompleta, continuando il viaggio fino a trovare te stesso, il tuo vero te. Non sarai solo, ci sono due compagni che domani ti presenterò. Vi troverete bene e sono certo che sarete un’ottima squadra!"

Marins non seppe cosa dire, troppo stanco e stordito dalle ultime ore. Seguì Avalon in un breve giro dell’isola, finché l’uomo non lo accompagnò ad un giaciglio per riposare. Prima di chiudere gli occhi sorrise, sentendosi per la prima volta soddisfatto della sua scelta: quel giorno aveva fatto il lancio più lungo della sua vita. E si augurò di essere in grado di afferrare la palla prima che finisse fuori campo.

***

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Diciottesimo anno prima del secondo avvento.

"Il tuo addestramento è quasi completato, Marins!" –Gli disse il suo mentore, camminando assieme a lui lungo un sentiero esterno dell’isola, diretti verso il piccolo molo di legno. –"Hai fatto notevoli progressi in questi ultimi due anni! Non soltanto da un punto di vista fisico, per cui la tua preparazione era già eccellente, ma per ciò che riguarda il controllo del cosmo, giungendo a padroneggiarlo in maniera ottimale. C’è solo una cosa che ti manca per colmare la distanza tra te e i tuoi compagni, un piccolo ma indispensabile passo!"

"Lo so, mio Signore!" –Annuì il ragazzo dagli occhi azzurri, raggiungendo la banchina assieme ad Avalon. –"Ho provato più volte a evocarlo, eppure…"

"Provare non esiste, Marins! Sono i vestiti che si provano, i discorsi degli oratori o gli spettacoli teatrali! Non la vita. Quella, la si vive!"

Il giovane fece per rispondere al suo mentore quando si accorse che le nebbie del lago si erano animate. Sgranando gli occhi per la sorpresa, le vide avvicinarsi, quasi fossero un’entità vivente, convergere su di lui, circondarlo, avvolgerlo nelle loro spire, per quanto Marins si dibattesse e invocasse aiuto. Ma attorno a lui non c’era più nessuno, solo uno sconfinato silenzio. In quel silenzio Marins cadde, perdendo i sensi, e poi cadde ancora, sempre di più, incapace di comprendere cosa stesse accadendo, dove stesse andando, perché quel vento gelido gli sbattesse in faccia, lui che il freddo l’aveva sempre detestato.

"Brrr!!!" –Bofonchiò, scuotendosi e drizzandosi all’improvviso, cercando di capire dove si trovasse. Ma c’era poco da capire, considerando la scarsa luminosità dell’ambiente, che pareva essere un’immensa caverna dall’alta volta e dal suolo disseminato di rocce coperte di muschio. Per quanto assurdo fosse, gli sembrò che piovesse, e infatti sul suo volto ruscellavano gocce d’acqua che cadevano dal soffitto. Una pioggia leggera ma continua, di quelle che da bambino guardava dalla finestra della casa di famiglia, nel Vermont.

"Sapevi che tuo padre era un adoratore di riti celtici?" –Lo scosse una voce all’improvviso, mentre Marins si guardava intorno furtivo, cercando di vincere l’oscurità con i suoi sensi allenati. –"Aveva anche comprato per pochi dollari una riproduzione, bruttarella in verità, dell’Asgardsreien, il celebre dipinto del pittore norvegese Peter Nicolai Arbo. Tua madre non la amò mai, intimorita da tutte quelle figure guerresche a cavallo, e gliela fece appendere in cantina! Ritengo che siano poche le persone che al giorno d’oggi credono ancora negli antichi riti. Si contano sulle dita di una mano e sono quasi sempre membri di qualche gruppo classificato spregiativamente sotto il nome di neopaganesimo."

"Chi sei?"

"Che domande?! Io sono io! Chi altri dovrei essere?!" –Rincalzò la voce, prima che un lampo di luce distraesse il ragazzo, anticipando l’apparizione di un singolare personaggio. Non era molto alto, ma aveva mossi capelli castani che scivolavano su un fisico ben curato, rivestito da pelli di animale, forse daino, che Marins non riuscì a individuare. Sul cranio portava una corona di foglie e in mano stringeva un bastone nodoso, intagliato da un albero antico.

"Grandioso! Qualche ulteriore indizio?!" –Ironizzò l’allievo di Avalon.

"Uhm, vediamo…" –L’uomo ci pensò su, quasi divertito dall’atteggiamento del ragazzo, fino a schioccare le dita soddisfatto. –"Dal momento che ti trovi nel mondo sotterraneo, io non posso che esserne il guardiano, non credi?!"

"Mondo sotterraneo… non sapevo ci fosse un regno al di sotto di Avalon?!"

"Gosh, è un modo di dire per indicare gli Inferi! Quanto sei razionalista! Sei proprio uno yankee!" –Sbuffò l’uomo, fingendosi offeso. –"Comunque stavamo parlando di tuo padre, non di me, sebbene io sia certo più interessante! Eh eh eh! Vedi, tu e il tuo defunto genitore, con cui ogni tanto mi attardo a chiacchierare, abbiamo una passione in comune, a entrambi piace andare a caccia! Entrambi siamo cultori della caccia selvaggia!" –Sghignazzò, mentre sul suo volto si allargava un sorriso sospetto, un sorriso che a Marins parve tinto di crudeltà. –"E sai come si pratica la Caccia Selvaggia nel Galles? Oh, con i levrieri!"

D’un tratto il ragazzo udì il ringhiare di alcuni cani, un ringhiare forte e prolungato, quasi fosse un richiamo. Quindi iniziò uno scalpiccio, sempre più veloce, sempre più pressante, al punto che il suolo iniziò a muoversi di fronte a quell’improvvisata carica proveniente dall’oscurità. E più i cani parevano avvicinarsi più il loro ringhio si faceva meno intenso, per confondere ulteriormente il ragazzo, che voltava lo sguardo in ogni direzione, temendo di ritrovarseli addosso quanto prima.

"Mio caro, ti presento i miei levrieri, gli spiriti dell’Annwn! Trattali bene, eh!" –Esclamò l’uomo, mentre quattro cani da caccia attaccavano Marins da ogni direzione. –"Cŵn Annwn!"

Il ragazzo fu svelto ad evitare il primo assalto, gettandosi a terra, ma dovette subito rimettersi in piedi per fronteggiare la nuova carica di quegli animali spettrali, la bava che colava tra i denti chiari e aguzzi. Erano grossi segugi dal pelo bianco e dagli occhi e dalle orecchie fulve, simbolo di morte sanguigna, e oltre ad essere veloci e ben addestrati non smettevano di ululare, quasi volessero far sapere al mondo che lui era la sua preda.

"Sei mai stato a Cadair Idris? È una montagna in Galles, fonte di molte leggende. Ma è anche un buon terreno di caccia, i miei levrieri spesso si trastullano in quella zona, e tutti, oh sì proprio tutti gli abitanti, sanno che udire il latrato dei Cŵn Annwn è segno inequivocabile di morte! È l’ultimo rintocco dell’orologio della vita di un uomo! Quanto ancora gireranno le tue lancette, Marins, dipende solo da te! Eh eh eh!"

"Confortante!" –Mormorò il ragazzo, balzando su alcune rocce attorno ed evitando così di essere azzannato dalle pericolose dentature dei levrieri.

Grazie alla sua velocità e al fisico curato, il ragazzo riuscì a non essere raggiunto, ma, ben capendo di non poter correre per sempre, in quello spazio che ancora non aveva capito quanto ampio fosse e che pericoli nascondesse, decise di cambiare strategia. Così sfrecciò indietro, tuffandosi proprio in mezzo ai levrieri e colpendoli uno ad uno, con un secco taglio di mano sulla nuca. Nessun guaito, nessuno spasimo, i cani selvaggi crollarono al suolo uno dopo l’altro, con il collo spezzato.

"Molto… bene…" –Ghignò allora l’uomo, avanzando verso Marins, che si mise subito in posizione difensiva, temendo che volesse scagliarsi contro di lui, per vendicare le sue creature. Invece questi si limitò a chinarsi sui levrieri, carezzare il loro morbido pelo e mormorare alcune parole di commiato, mentre i loro corpi sfumavano, divenendo spiriti e scomparendo nelle tenebre. –"Ora saranno liberi di correre per sempre nelle sconfinate praterie dell’Annwn, il regno su cui dimoro, che sia per loro terra di delizia e di sempiterno cibo!" –Aggiunse, rimettendosi in piedi e fissando Marins negli occhi. –"Io sono Arawn, Sovrano degli Inferi, e apprezzo il rispetto che hai avuto per i miei cani selvaggi! Non li hai torturati, non li hai fatti soffrire, uccidendoli con un sol colpo preciso! Per renderti grazie, ti onorerò del mio massimo attacco, anch’esso in grado di spegnere le speranze di vittoria di chiunque con un’unica sola carica! Addio giovane yankee! Presto ritroverai tuo padre! Schiera furiosa!!!" –E nel dir questo, Arawn portò entrambe le braccia avanti, volgendo i palmi aperti contro Marins, e liberando un fiume di energia cosmica, le cui onde maestose avevano il volto di rabbiosi cani da caccia.

Il ragazzo tentò di fuggire, ma venne raggiunto in fretta, potendo soltanto incrociare le braccia davanti a sé, espandere il cosmo e cercare di contenere l’impatto con quell’assalto devastante. La carica furiosa lo travolse, strappando le sue vesti, lacerando le giovani carni e schiantandolo al suolo molti metri addietro.

"I testimoni della Caccia Selvaggia non possono sopravvivere, sono condannati a sciagure e sofferenze, e a una repentina morte! Sentiti fiero di essere caduto per mia mano!" –Concluse Arawn, senza alcun sorriso sul volto, prima di dare le spalle al giovane e allontanarsi.

Marins rimase a terra per un tempo indefinito, cercando di radunare le forze. L’assalto nemico lo aveva travolto in pieno, così velocemente da non averlo neppure visto. Era possibile? Che vi fossero esseri in grado di correre più veloce di lui? Aveva sempre creduto di essere unico, nel suo genere, ed infatti era persino più svelto di Reis e Jonathan. Eppure, quei levrieri di puro cosmo non gli avevano lasciato spazio di manovra. No, non poteva farsi battere così. In fondo, aveva solo subito uno strike, e ce ne volevano ben tre per mandarlo fuori gioco, si disse, risollevandosi e bruciando il proprio cosmo.

Un’armatura dorata e azzurra apparve sopra di lui, scomponendosi in tanti pezzi e aderendo perfettamente al suo corpo, attirando l’attenzione di Arawn, che si voltò incuriosito, e anche eccitato all’idea di divertirsi ancora.

"Pare che questa caccia si stia rivelando ben più fruttuosa di quanto avessi creduto!" –Commentò, mentre Marins, avvolto in un turbinante cosmo di colore azzurro mare radunava le energie tra le braccia sollevate sopra la testa.

"Maremoto dei mari azzurri!!!" –Gridò, liberando un poderoso gorgo di energia acquatica, che sfrecciò verso Arawn, trapassandolo e schiantandosi contro il muro alle sue spalle, inondando poi la caverna. –"Che cosa?! Dov’è andato?!" –Si agitò subito Marins, guardandosi attorno. Se la vista non lo ingannava, il suo nemico si era teletrasportato altrove.

Si girò di scatto, pugni tesi, convinto che volesse prenderlo di sorpresa, ma Arawn non era neppure dietro di lui. Eppure lo sentiva, sì, lo percepiva nell’aria di quella caverna, carica dei lamenti delle prede dei levrieri, satura dell’odore del pelo spettrale di quelle creature mai stanche.

"Dove sei, Arawn?! Dove ti nascondi? Cacciatore pauroso sei, ordunque!"

"Tut tut! Non pauroso, ma attento!" –Rispose il Dio, esplodendo in un’acuta risata che risuonò per l’intero antro, disorientando Marins, che ancora non aveva individuato l’avversario.

Fu solo quando sentì il suolo muoversi, il manto muschioso di rocce e terra sollevarsi e avvoltolarsi attorno ai suoi arti inferiori che capì. Arawn era Annwn, e poteva formarlo a suo piacimento. Enormi levrieri di puro cosmo sorsero dal terreno, avventandosi su Marins da ogni direzione, limitandone gli spostamenti, spezzando la magia che le sue gambe compivano correndo.

"Sei un disonesto!" –Lo aggredì il ragazzo, espandendo il cosmo e cercando di tenere lontane quelle creature affamate. Ricordò gli insegnamenti di Avalon e lasciò che le forze radunate scorressero in lui, traboccando come un fiume in piena. Il maroso di energia acquatica esplose repentino, fluendo a guisa di vortice attorno a sé e spazzando via i levrieri di cosmo, inglobandoli e annientandoli in poderosi schizzi d’acqua.

Quando il ragazzo fu finalmente libero, crollò sulle ginocchia ansimando, stanco per aver consumato molte energie. Per quanto lo scontro non fosse in corso da molto tempo, sembrava che in quella caverna le forze lo abbandonassero più in fretta. O forse è quel che si prova durante il primo vero scontro? Si disse, chiedendosi se anche per i suoi compagni era stato così. Reis aveva risvegliato il cosmo quando era ancora un’infante, sottoposta a una pressante violenza che aveva scatenato in lei la forza dell’istinto di sopravvivenza. Jonathan aveva dovuto aspettare i dieci anni e assistere al massacro del Tempio di Inti e alla morte di sua madre per liberare l’arcano potere celato dentro sé. E lui? Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora?

Suo padre era morto da un paio d’anni, sua madre un ricordo sbiadito nelle angustie del tempo. Yogi Berra e i suoi trascorsi nel baseball erano reminescenze di una vita lontana. Che cosa gli restava adesso? Cosa voleva essere, in fondo?

Concedendosi un sorriso, gli vennero in mente le parole che Avalon gli aveva rivolto la prima sera in cui si erano incontrati, la storia che gli aveva narrato riguardo a Tantalo. Solo allora la capì.

Tantalo sono io. Affermò, rimettendosi in piedi, avvolto nel suo cosmo azzurrino. C’è tutto un mondo là fuori, un mondo di felicità, che non sono mai stato in grado di vedere, tutto preso dal dover sempre correre altrove. Per mio padre, per mia zia, per Avalon. Oggi corro per me!

Un calcio in faccia lo spinse indietro, scaraventandolo a terra a pochi metri di distanza, rubandolo ai suoi pensieri e ricordandogli che avrebbe ancora dovuto superare l’ultimo ostacolo, che infine si era palesato. Arawn, il Signore degli Inferi, sorrideva divertito, sormontato da un’aura violacea che presto assunse le forme di una battuta di caccia.

"L’ultimo atto, Cavaliere dei Mari! Sarai degno o meno dell’armatura che indossi? Cacciare o essere cacciati, questo è il segreto della sopravvivenza!" –Parlò il Dio, prima di portare le braccia avanti e liberare il colpo segreto. –"Schiera furiosa!"

"Maremoto dei mari azzurri!!!" –Gridò Marins di rimando, lasciando che i due attacchi si scontrassero, generando un’enorme bolla di energia, al cui contatto i levrieri ringhianti e le limpide acque venivano disintegrati. E più forza entrambi profondevano al loro assalto, più lo stesso veniva distrutto, smembrato da forza eguale ma contraria, arrivando ad una sensazione di stallo. Che solo uno dei due avrebbe potuto alterare.

L’uomo o il Dio.

"Non… ci sto… a morire da solo in questo lugubre inferno… Ho ancora tante mete da raggiungere! Tante palle da lanciare nello stadio della vita!!!" –Avvampò Marins, bruciando il cosmo come mai fatto prima, sorretto da una determinazione guerriera che non poteva essere altro che fame di futuro.

Fu allora che lo sentì, quel formicolio improvviso che gli diede calore e aumentò le sue forze, mentre una lunga asta dorata, con tre punte sulla cima, apparve di fronte a sé, entrando subito in contatto con la sua impronta cosmica, quasi fosse la stessa.

"Eccolo…" –Mormorò, con sguardo trasognato. –"Il Talismano!!!" –E lo afferrò, liberandone tutto il suo potere. –"Tridente dei Mari Azzurri!!!" –Tuonò, mentre folgori celesti crepitavano ovunque attorno a sé, distruggendo la bolla di energia e tutti i levrieri furiosi di Arawn.

Persino il Signore di Annwn impallidì di fronte a quell’arma di cui aveva sentito parlare nelle antiche leggende del popolo celtico. L’arma che il Dio Nettuno aveva preso a modello come simbolo. Il tridente in grado di separare gli oceani.

Una scarica di energia lo raggiunse ad una coscia, spingendolo indietro e bruciandogli la pelle. Una seconda esplose tra i suoi piedi, scaraventandolo contro il muro retrostante, che subito venne bombardato da una raffica di folgori azzurre.

"Ok, ok, hai vinto!" –Si affrettò a chiarire l’uomo spaventato, invocando l’intervento del Signore dell’Isola Sacra. –"E non chiedermi mai più un favore!" –Bofonchiò. –"Sono stufo di tutti questi ragazzini complessati!"

Non ottenne risposta, anche se credette di aver udito una leggera risata, per quanto sapesse che Avalon non era solito perdersi in frivolezze. Un attimo dopo Marins scomparve, l’intero Annwn scomparve, portando il ragazzo a chiedersi se fosse stata un’illusione o se qualcosa di reale ci fosse stato davvero. Scosse la testa, non avendo in fondo importanza. Quel che contava era aver imboccato il bivio giusto, ed era certo che persino il suo allenatore sarebbe stato concorde.

Il paesaggio mutò di nuovo e Marins riconobbe la tozza sagoma del campanile sul Tor proiettare la propria ombra su di lui, in quella pallida mattina di giugno. Avalon lo stava aspettando, silenzioso e con lo sguardo attento, come era sua abitudine.

"Stanco di correre?" –Gli disse, strappando un sorriso al ragazzo.

"Affatto."

"Era quello che volevo sentirti dire." –Commentò Avalon soddisfatto, prima di mettere una mano sulla spalla del Cavaliere dei Mari Azzurri e discendere il Tor, diretti verso casa.

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Diciottesimo anno prima del secondo avvento.

Fine.