CAPITOLO XVIII

I cospiratori

 

N

on lontano dalla cittadella d’Ásgarðr, una decina di miglia a sud, su uno sperone roccioso a ridosso della montagne più basse della SvårtillgängligBerget, sorgeva un castello in rovina che era stato, in tempi migliori, la residenza di una potente famiglia discesa da un eccellente antenato.

Il castello era stato costruito dai figli di Leif, figlio di quell’Eric il Rosso che era stato esiliato dalla sua patria ed era fuggito nelle terre degli Islandesi, ed era stato un grande conquistatore.

Eric era figlio di Thorvald figlio di Asvald, che infranse le severissime leggi commettendo un omicidio. Vi fu un regolare processo e Thorvald fu bandito dalla Norvegia e dovette partire, scegliendo un paese dove la terra era libera, a disposizione di chiunque volesse prenderla. Quel paese era l’Islanda sul cui suolo avevano messo piede soltanto pochi altri vichinghi, un paese del quale si diceva vi fosse spazio a volontà per i nuovi colonizzatori. Thorvald caricò su una nave tutti i suoi averi, e fece vela verso l’isola con i servi e suo figlio, Eric dai capelli rossi.

L’esule trovò che anche in quel paese le terre fertili erano già state occupate e dovette accontentarsi di una fattoria a Drangar, sulla squallida costa settentrionale della penisola nordoccidentale. Suo figlio crebbe in quel luogo ma, appena sposato, decise di trovare un possedimento meno desolato di quello paterno e dissodò alcuni terreni in vicinanza di Haukadale, nel cuore dell’Islanda occidentale, sopra il fiordo di Hvams. Poi fissò la sua dimora a Ericsstadir, presso Vatushorn.

Purtroppo, Eric fu un fedele continuatore delle gesta paterne e commise a sua volta numerosi omicidi, sino a quando le vittime furono almeno mezza dozzina.

La faccenda ebbe inizio con un violentissima lite fra vicini, in seguito alla quale Eric ordinò ai suoi servi di provocare una frana che seppellisse le terre del nemico, evento non eccezionale in una zona vulcanica e soggetta a continui terremoti. Comunque, un aggressivo parente del vicino, Eyiolf il Laido, vendicò l’ingiuria arrecata ai beni immobili della famiglia e massacrò i servi di Eric.

Come rappresaglia, nel corso di quella che si sarebbe potuta definire uno scontro leale, Eric uccise Eyiolf il Laido e un suo amico alquanto combattivo, Hrafn il Duellatore. La maggior parte della popolazione, invece che rallegrarsi per la scomparsa dei due attaccabrighe, mosse aspri rimproveri all’uccisore e i congiunti di Eyiolf il Laido si rivolsero alla legge e ottennero uno schiacciante successo.

Riconosciuto colpevole dello stesso delitto che aveva costretto suo padre ad abbandonare la Norvegia, Eric fu bandito da Haukadale e trascorse il suo primo inverno d’esilio all’imboccatura del fiordo di Hvams.

Lì prestò le tavole e le colonne (1) su cui usava sedersi e dormire a Thorgest. Quelli erano i suoi arredi più preziosi, un’eredità di famiglia, e quando, finita la costruzione della sua nuova casa, si recò a reclamarli e se li sentì negare, altro non gli rimase che conquistarli con la forza, facendo irruzione nella residenza di Thorgest.

Nacque una rissa nella quale perirono due figli di Thorgest oltre ad alcuni altri uomini. Le case dei due duellanti si trasformarono in veri e propri fortilizi, mentre i vicini si schieravano con l’uno o con l’altro, nell’attesa di uno splendido conflitto navale. Ma la più ostinata rivale di Eric e della sua famiglia, la legge, s’intromise, condannandolo a tre anni d’esilio per i suoi crimini.

Un simile castigo avrebbe avvelenato anche un uomo più docile e placido di Eric, ed egli decise di partire alla ricerca di una terra dove potesse imporre la propria legge, e vivere fra vicini a lui graditi e sottomessi.

Eric il Rosso si nascose, maturando accuratamente un piano d’azione, e quando la sua nave fu ben equipaggiata per un viaggio in paesi lontani, partì.

Il suo primo approdo ebbe luogo in un’isola che battezzò Groenlandia, ‹‹Terra verde››, sotto una montagna di ghiaccio che chiamò ‹‹ghiaccio di mezzo››, poi salpò di nuovo, navigando sotto costa, lungo il litorale orientale, alla ricerca di una plaga abitabile e di pascoli e terreni erbosi, siti al limitare degli aspri fiordi, sotto i ghiacci che dalla gelida calotta interna si protendevano verso il mare. Trascorse l’inverno nel fiordo di Breidi, e dopo il disgelo primaverile stabilì la sua dimora nelle terre più fertili della parte interna, una località sopraelevata da cui si godeva una bella vista che chiamò Brattahlid.

Eric esplorò quella terra inospitale, riconoscibile da lontano per l’estensione dei suoi ghiacciai: ad ogni isola, ad ogni fiordo o promontorio egli diede un nome, ma dovette faticare a lungo per trovare finalmente un’estensione di terreno fertile sufficiente a creare le fattorie per i colonizzatori che sperava di attirare in quel luogo. Il secondo inverno d’esilio lo passò a Brattahlid, e aspettò che passasse il terzo e arrivasse l’estate, cosicché poté tornare in patria essendo scaduto il bando che lo esiliava dall’Islanda.

Un anno dopo, Eric aveva già adunato più di mille aspiranti colonizzatori che salparono con lui verso la Groenlandia. Delle trentacinque navi che presero il mare, scafi stipati all’inverosimile di masserizie, animali di ogni specie, con almeno cinquanta vigorosi uomini ciascuna, soltanto quattordici giunsero a destinazione, con un numero di naviganti che si aggirava sulle cinquecento persone. Quella era gente coraggiosa, forte e avvezza alle intemperie, che indossava indumenti di lana e aveva le gambe coperte di pelli d’animale per ripararsi dal freddo, gente che sopravvisse senza problemi, delusa sotto molti aspetti ma pronta ad accettare quella terra aspra come nuova patria.

Le diverse famiglie che componevano quel gruppo di pionieri non si fermarono tutte nel fiordo di Eric e ciascuna ebbe un lotto di terreno lungo la costa, nell’interno dei vari fiordi

Eric fu un parlatore facondo e brillante, molto incline alle esagerazioni, e sfruttò queste sue qualità con gran disinvoltura, salvando la propria vita tramite l’esplorazione di una nuova terra e riuscendo a crearsi un patrimonio per la sua famiglia, composta dalla moglie Thioðild, nipote di Lupo Guercio e pronipote di Hagene il Bianco, dai figli maschi Leif, Thorvald e Thorstein, più una figlia nata fuori del matrimonio, Freydis.

Eric e i suoi colonizzatori non ebbero vita facile nella terra verde, ma a dispetto delle privazioni e delle difficoltà d’ogni genere, egli ebbe la gioia di vedere la sua colonia ingrandirsi rapidamente grazie ad un prosperoso commercio con l’Islanda e gli altri paesi nordici.

In cambio delle merci che esportavano, avorio e pelli di tricheco, grasso di balena e pesce, i Groenlandesi compravano utensili di ferro e legname per costruire le navi, materie prime assai scarse nel loro paese, e ancora stoffe di lana e in special modo malto avena e frumento, tutti prodotti che non si potevano coltivare.

Eric però si oppose violentemente all’importazione del cristianesimo, introdotto da suo figlio Leif.

La saga narrava che Eric mandò il figlio in Norvegia con l’intento di fargli combinare qualche affare, e che la nave di Leif, sospinta dai venti e dalle correnti, deviò fino alle Ebridi, terra in cui si fermò prima di salpare alla rotta della Norvegia.

Lì s’innamorò di Thorgunna, di elevata famiglia, e indugiò con lei più di quanto avesse dovuto. Quando ripartì, Thorgunna aspettava da lui un figlio che decise di provare ad allevare, perché aveva predetto sarebbe stato maschio. In verità di Thorgunna si diceva che sapesse molte cose.

Leif approdò a Hladir, (2) dove passò l’inverno presso il re Olaf Tryggvason, che era alto, bello e atletico più di tutti i vichinghi, che era stato subito conquistato dal suo sincero entusiasmo.

Il giovane Olaf aveva combattuto in Inghilterra e aveva vinto la battaglia di Maldon, in seguito era stato convertito al Cristianesimo da un eremita e confermato dal vescovo di Winchester.

In un’epoca in cui la fede nei vecchi numi cominciava a declinare, Olaf diceva che il cristo era un eroe di molto superiore a Thor, il dio del tuono, poiché era disceso agli inferi e aveva fatto prigioniero l’antico dio. Egli, mansueto e affabile, cercava di convertire tutta la Norvegia, ma molta gente restia a convertirsi, incontrando la sua collera terribile, era stata mutilata o uccisa per suo ordine.

Olaf cercava di portare il Cristianesimo in Islanda, e allo scopo teneva in ostaggio alcuni eminenti personaggi di quel paese. Con lo stesso zelo da neofita, rivolse a Leif molte esortazioni e anche velate minacce, e Leif, accorgendosi del pericolo, acconsentì a farsi battezzare in blocco con i suoi compagni. Ma Olaf non si accontentò e spronò Leif figlio di Eric il Rosso con queste stessa parole: ‹‹Tu andrai in Groenlandia come propagatore della Buona Novella. Vi predicherai il cristianesimo in nome mio››.

Leif si rimise al saggio giudizio del re ma aggiunse, ripensando alla devozione del padre per gli dèi dei miti e delle leggende, che una missione del genere aveva scarse probabilità di riuscita in quella desolata terra. Re Olaf, comunque, non era uomo incline a tergiversare e impose a Leif il perentorio ordine di diventare missionario, convinto che non esistesse al mondo persona più adatta a quel compito. Olaf promise anche di sostenerlo e proteggerlo, il che equivaleva a fargli scudo contro la collera del padre.

Rincuorato, Leif fece vela verso Brattahlid accompagnato da un sacerdote e, trascorso un breve periodo, cominciò a predicare in Groenlandia, illustrando al popolo gli immensi benefici di cui la fede cristiana era foriera.

Ma come predetto, alla mentalità pagana non piacque la nuova fede, che sembrava deleteria nei riguardi delle qualità virili della razza e delle sua grandi virtù guerriere. I vichinghi previdero che le nuove credenze avrebbero avuto un effetto debilitante sui loro costumi e si opposero, con Eric in prima fila. (3)

Il rifiuto delle nuove credenze non si fece sentire solo in Groenlandia, ma anche in Scandinavia i vichinghi si opponevano aspramente all’introduzione di una nuova religione che avrebbe scalzato i loro dèi e i loro culti.

Essi vivevano dominati dall’impulso di rendere la loro vita sopportabile e se possibile buona. In un mondo agricolo, necessitavano di terra per i figli e d’erba per gli armenti, in un’epoca in cui venivano aprendosi le rotte commerciali; erano avidi d’argento e dei beni che l’argento poteva procurare; in una società gerarchica, guerriera e ancora parzialmente tribale, i loro capi cercavano fama, potenza, ricchezza e mezzi di sostentamento attraverso l’azione.

In un mondo in cui la lotta per l’esistenza era esperienza quotidiana, in una società nella quale i ragazzi raggiungevano la maggiore età a dodici anni, in un Paese dove le risorse naturali non offrivano se non le prospettive di una vita difficile e faticosa, erano stati molti i motivi che avevano indotto i Vichinghi, dotati d’intraprendenza e determinazione, a tentare di mutare il proprio destino.

Era stata quindi la fame di terre fertili che li aveva condotti ai pascoli ventosi delle Färöer, alle erbe della parte centrale dell’Islanda e alle praterie odorose dei fiordi della Groenlandia occidentale. Era stata l’ambizione a distinguersi, di acquistare terra e ricchezza per compensare e accrescere il loro seguito di armati, che li aveva spinti di generazione in generazione ad assalire i vicini del sud e del sudovest. Era stato il desiderio di lucro e di beni materiali che aveva indotto i Vichinghi a commerciare e trasportare merci nel Baltico e nel Mare del Nord, nel Mar Nero e nel Caspio, di là dell’Atlantico e lungo i grandi fiumi russi.

Essi possedevano soprattutto la capacità di soddisfare l’inesauribile richiesta di pellicce e schiavi da parte di Europei e Musulmani, ma trattavano ogni genere commerciabile: grano, pesce, legname, pelli, sale, vino, vetro, colla, cavalli e bovini, orsi bianchi e falconi, avorio di tricheco e olio di foca, miele, cera, malto, sete e lane, ambra e nocciole, stoviglie di steatite e macine di basalto, armi lavorate, ornamenti e argento. Avevano saputo costruire navi che trasportassero queste merci, avevano fondato empori e aperto itinerari commerciali estesi, corroborando l’attività mercantile con la pirateria e le conquiste di altri paesi.

L’antica religione norrena era, per la mentalità delle nazioni nordiche, una potente forza unificatrice, e in generale gli uomini del Nord erano tolleranti in materia di religione. Un buon numero di loro si sottomise a una forma minore di battesimo, la prima signatio, quando si trovava in paesi cristiani. Su di loro veniva fatto il segno della croce, per esorcizzare gli spiriti maligni, ed essi potevano assistere alla messa senza partecipare al cristianesimo e vivere in comunione con i cristiani. Questa era un’usanza comune fra i commercianti e i mercenari al soldo dei cristiani. I primosignati erano in piena comunione sia con i cristiani sia con i pagani, e tuttavia conservavano la fede che era loro più gradita.

Intorno all’anno Mille già molte terre erano state sottomesse al Cristianesimo da coloro che più avevano da guadagnare, soprattutto re locali ambiziosi di farsi un vero Stato sovrano. Eppure coloro che resistettero al dilagare della nuova religione si dimostrarono agguerriti e ben saldi alle vecchie tradizioni.

Il Cristianesimo vietava la dedicazione di suppellettili funerarie tranne le più semplici, cosicché il defunto non poteva ricevere tutto quello che gli avrebbe reso la vita nell’aldilà più sopportabile, altrettanto comoda e onorevole quanto quella che aveva conosciuto sulla terra. I preti mettevano in guardia gli uomini contro le forze malvagie degli dèi pagani, classificavano i vichinghi come assassini e saccheggiatori di chiese.

Non c’era da stupirsi se uomini di polso come Eric il Rosso e altri eminenti condottieri, si rifiutarono apertamente di abbracciare una religione che imponeva il culto di un unico Dio, mettendo in ombra tutte le divinità che li proteggevano e li appoggiavano in ogni loro attività.

Fu un periodo difficile di grandi sacrifici, ma i popoli del nord restarono fedeli alle antiche usanze, limitando al minimo i contatti col mondo nel quale dilagava a macchia d’olio il culto cristiano, e concentrarono i loro sforzi nell’eradicazione della nuova religione.

Uno ad uno, a partire da Olaf Tryggvason che aveva obbligato Leif Ericson a farsi missionario della Buona Novella, i sovrani che avevano aderito alla nuova religione caddero o abiurarono in favore dei vecchi e potentissimi dèi Asi. E con il loro aiuto, in un lunghissimo arco di tempo, le terre dei Vichinghi si allontanarono sempre più da quelle che erano le terre oltre i loro confini e finirono per separarsi completamente da quel mondo, ormai cristianizzato, ritrovandosi in un altro tempo, un altro mondo in cui essi poterono continuare a viaggiare e commerciare con gli altri paesi, a vivere come avevano fatto prima dell’arrivo del Dio Bianco, a credere nel mito e nella leggenda.

Le terre dei Vichinghi furono battezzate con un nuovo nome, Goðheimr, il Paese degli Dèi, in onore delle ritrovate tradizioni e della vittoria definitiva sul Dio dei Cristiani.

In quella nuova realtà, che tanto piacque agli uomini del nord, Ásgarðr che era stata la dimora degli dèi divenne il centro politico ed economico, un regno che crebbe subito in importanza e potere per la buona gestione dei suoi sovrani e per la protezione degli dèi Asi.

Nel regno d’Ásgarðr vissero molti uomini illustri, esperti guerrieri e facoltosi mercanti, e in Ásgarðr, a poche miglia dalla rinomata cittadella eressero la loro dimora i figli dei figli di Leif Ericson.

Essi non smentirono la nomea di abile oratore per la quale era ricordato il loro avo Eric il Rosso, e riuscirono ad arricchirsi sfruttando le doti innate per il commercio, compiendo, ma sempre più raramente, lunghi e prosperosi viaggi per mare alla ricerca di gloria e ricchezza.

Purtroppo, l’eredità di Eric il Rosso si manifestò anche in maniera devastante, quando l’ennesimo Eric della famiglia attirò su di sé la sciagura commettendo un omicidio per il possesso di un piccolissimo lotto di terreno, una terra che desiderava senza motivo e ad ogni costo.

A causa della sua avidità, Eric non esitò a freddare uno dei suoi vicini, che a detta sua, aveva coltivato un pezzo di terreno che era di sua proprietà. I congiunti della vittima, Arolf il Placido, reclamarono giustizia, accusando Eric d’omicidio ma quest’ultimo riuscì a cavarsela perché giurarono per lui certi suoi amici dalla dubbia moralità.

Scampato all’esilio, Eric aveva deciso di tentare la fortuna investendo tutti i suoi averi, in maniera molto ardita, in una flotta poderosa che avrebbe riportato alla ribalta l’onore degli Ericson, dimostrando, una volta per tutte, il suo valore.

Eric Ericson invece si lasciò convincere, seguendo il miraggio illusorio dei facili guadagni, ad azzardare un’ardita manovra politica che gli avrebbe permesso nella migliore delle ipotesi di arricchire velocemente. Partecipò con l’intera flotta e centinaia di uomini alla Seconda Guerra Bravica, chiamata così in onore della Guerra Bravica che si combatté molti anni prima nello stesso luogo, con contrapposte le stesse fazioni.

In quell’occasione Sigurd Hring sfidò suo zio Harald, sovrano ambizioso e bellicoso che visse fino a tarda età. La rivalità tra Hring e Harald portò alla Battaglia di Bravellir, scontro in cui si affrontarono due grandi eserciti, con campioni tratti da ogni nazione nordica, con amazzoni cinte di ferro e il monocolo dio della guerra in persona, sotto le spoglie di auriga di Harald. Harald morì in quello scontro e Hring trattò con onore le spoglie del parente defunto.

Nella Seconda Guerra Bravica, i discendenti di Harald il Danese si scontrarono nei pressi di Bråviken, tra il Sjælland e la Skáney, con i figli di Sigurd Hring che volevano mettere le mani sulle terre che erano state riconquistate dopo la morte di Harald. Le acque erano così gremite che si sarebbe potuto attraversare il mare senza toccare l’acqua.

Nelle leggende si narra che il cielo parve improvvisamente cadere sulla terra e campi e terra e boschi sprofondare nel suolo, e ogni cosa divenne confusa. La carneficina ebbe termine solo con la morte di Orff della stirpe di Hring, cosicché Erald nipote di Harald ottenne la vendetta per la morte del nonno. A quella famosa battaglia parteciparono molti condottieri che trovarono la gloria, e altri che trovarono la morte.

Eric Ericson, su consiglio di quei suoi compagni, si schierò tra le file di Orff e guidò le sue navi e i suoi uomini nel centro della battaglia, pieno d’ardore bellico, ma si rese conto subito dell’inferiorità tattica e numerica dell’esercito per cui combatteva e preso dal panico, abbandonò i suoi guerrieri e scappò.

Per quell’indegno comportamento fu soprannominato Eric il Vile, ma non visse a sufficienza per essere schernito per la mancanza di coraggio e la viltà dimostrata.

In quella sciagurata campagna, che portò alla rovina molte famiglie, Eric sperperò tutto il denaro accumulato dai suoi predecessori, lasciando nella povertà i suoi due figli, Thorgun e Leif.

Thorgun, il primogenito, lungimirante e pieno d’energia, l’unico che avrebbe potuto risollevare le disastrate sorti degli Ericson, morì in circostanze misteriose e per lungo tempo si disse che fosse stato assassinato dagli stessi uomini che avevano convinto Eric il Vile a partecipare alla Seconda Guerra Bravica dalla parte dello sfavorito Orff, perché aveva preso le difese di Erald sin dal principio della disputa.

Passata la bufera della Guerra Bravica e lo strascico di congetture sulla sconfitta di Orff, Leif Ericson, già cresciuto e diventato uomo, si ripresentò ad Ásgarðr, e rivendicò il possesso delle terre della sua famiglia. Le terre erano inaridite e incolte da troppi anni, e nessuno le aveva mai occupate perché non rendevano bene. Eppure Leif Ericson tornò ad abitare alla trascurata dimora in cui aveva vissuto con suo padre, accompagnato da misteriosi uomini che si diceva fossero i suoi consiglieri, e in breve tempo, senza che nessuno trovasse una spiegazione plausibile all’accaduto, raggranellò un patrimonio sufficiente per avere thraells per servirlo, e contadini che lavorassero la terra per lui.

Così Leif Ericson fu chiamato jarl, e si presentò un giorno ad Ásgarðr, con doni preziosi, con il solo scopo di incontrare la principessa Freija e di conquistarla.

Nella sala comune c’erano una decina d’uomini, in ozio, che bevevano e mangiavano e si trastullavano con gli scacchi o lanciavano coltelli nelle travi di legno. In fondo alla sala, su uno scranno sormontato da tavole intagliate era stravaccato un guerriero alto e snello, dai capelli lunghi.

Quando si spalancò la porta della sala, i guerrieri smisero di giocare per un attimo ma non prestarono troppa attenzione all’uomo che si dirigeva verso lo scranno a grandi passi.

‹‹Porto notizie, Bylistr!›› gridò Leif.

Alla destra e alla sinistra del guerriero sullo scranno sedevano Ragnarr, vestito di nero e accigliato in volto, e Helblindi, il fratello di Bylistr. Helblindi volse la testa un attimo, poi riprese a tagliarsi le unghie con un coltello.

‹‹Devono essere notizie importanti per indurti ad entrare senza bussare a disturbarci››.

Leif si scosse, turbato, ma parlò con fermezza. ‹‹È ancora casa mia, posso fare quello che voglio!››.

‹‹No, fino a quando non ti diciamo che puoi farlo. Adesso dicci cosa vuoi››. Ragnarr alzò gli occhi, crudeli e con le pupille straordinariamente nere e le iridi bianche come la neve appena caduta.

Lo jarl indietreggiò di un passo e si schiarì la gola, per tentare di avere il controllo della propria voce.

‹‹… devo parlarti di una cosa importante››.

Bylistr non sembrava particolarmente interessato alle sue parole, ma alla fine, dopo uno snervante silenzio, mosse la testa.

‹‹Cosa vuoi?›› chiese a bassa voce.

‹‹L’utlänning…se resta ad Ásgarðr, farà saltare il piano››.

‹‹Ammazzalo!›› suggerì Skœrir lo Sfregiato.

‹‹No!›› sentenziò Bylistr. ‹‹Non adesso. Prima di liquidarlo, voglio essere sicuro che non incolperanno il nostro povero jarl caduto in disgrazia…››. Leif si sentì gelare, trafitto dal sorriso di lama di Bylistr.

‹‹Mancano appena tre giorni con oggi al Þing! Se non facciamo qualcosa, prima d’allora perderemo la nostra preda!›› obiettò.

‹‹E tu perderai la vita se lui mi soffia la donna!›› grugnì Bylistr alzandosi dallo scranno. ‹‹Lei deve essere mia, non sono stato abbastanza chiaro?››.

‹‹Allora fai qualcosa per fermare l’utlänning!››. Bylistr si rimise seduto, e ragionò a lungo, passando la mano sul fodero della spada.

‹‹Andate tutti via! No, tu resta Ragnarr›› gridò alla fine. ‹‹Skœrir, vammi a chiamare la thír››.

Helblindi e gli uomini uscirono dalla sala comune, mugugnando insoddisfatti e Bylistr rimase solo col fedele Ragnarr e il misero Leif, sempre più impaurito dagli sguardi truci dei suoi compagni.

‹‹Mancano tre giorni al Þing, ›› ripeté Bylistr, ‹‹ma sistemeremo tutto in tempo››.

‹‹Come pensi di fare?›› chiese Leif un po’ sarcastico.

‹‹Logi è partito per Timrå. Quando tornerà, ti spiegheremo quel che dovrai fare››.

‹‹Ci vogliono almeno cinque giorni di marcia serrata per arrivare a Timrå! Non riuscirà a tornare in tempo! Non possiamo aspettare il suo ritorno!››.

‹‹Guerrieri›› disse semplicemente Bylistr. ‹‹È arrivata una nave con una cinquantina di guerrieri, un regalo di Sámendill di Þrúðheimr. Logi è andato a prenderli, e sarà già sulla via del ritorno. Parleremo del piano solo quando saranno tutti qui!››.

‹‹No, parlamene ora! Devo sapere!›› s’impose Leif piantando i piedi per terra.

‹‹Non avanzare pretese, miserabile! Tuo padre ci ha tradito e ha avuto quello che meritava. E anche tuo fratello ha pagato con la vita la sua testardaggine. Vuoi essere tu il prossimo?›› sibilò Ragnarr a denti stretti.

Leif parlò ancora, affermando che era necessario che conoscesse tutti i particolari del piano per non rischiare di commettere errori, e alla fine, Ragnarr, che si spazientiva facilmente, minacciò di tagliargli la gola. La lama gelida premuta alla gola gli fece immediatamente cambiare idea.

‹‹Va bene, ho capito! Aspetterò che mi chiamiate!›› singhiozzò Leif.

‹‹Torna tra due giorni, per allora Logi e i guerrieri di Þrúðheimr saranno già qui›› disse Bylistr.

‹‹È pericoloso che io lasci Ásgarðr tanto spesso!››.

‹‹La tua presenza a palazzo è inutile. Hai combinato solo danni›› precisò Bylistr.

‹‹Abbiamo spie che ci riferiscono ogni tua mossa›› aggiunse Ragnarr. ‹‹È soprattutto colpa tua se la principessa si lascia affascinare dall’utlänning. Tu sai chi è, vero?, e cosa potrebbe fare di te se volesse…››.

Leif fece una smorfia disgustata. ‹‹Sì, mi avete già parlato di lui, e l’ha fatto anche Magni››.

‹‹Allora la nostra discussione è finita, jarl! Ti aspettiamo tra due giorni›› lo liquidò Bylistr.

Quando Leif lasciò la sala comune, Bylistr interrogò Ragnarr.

‹‹Guga e Agni si sono fatti sentire?››. Ragnarr annuì. ‹‹Raccontami che novità hanno portato!››.

‹‹Nessuna buona. I dubbi di Leif sono fondati, Bylistr. L’utlänning sta addosso alla principessa, e lo jarl si rende conto di non poter competere››.

Bylistr ringhiò come un cane, e strinse forte le mani attorno ai braccioli dello scranno, imprecando.

‹‹Parlami di Magni!››.

‹‹Un altro problema›› brontolò Ragnarr. ‹‹È desideroso di vendetta ma ha degli scrupoli. Leif non è riuscito a convincerlo del tutto, e non è colpa sua stavolta, perché il Capitano è succube di Hilda, e Hilda venera l’assassino di tuo fratello!››. Bylistr grugnì di rabbia, e divenne paonazzo, con le vene del collo e della fronte a fior di pelle. ‹‹Se Magni non si convince, ›› concluse Ragnarr, ‹‹perderemo l’appoggio dei suoi soldati e il nostro esercito si assottiglierà di molto. Corriamo il rischio di non poter agire come vorremmo››.

‹‹Non possiamo permetterlo!››.

Si spalancò la porta della sala e Skœrir spinse dentro una donna, fino a farla cadere in ginocchio davanti a Bylistr.

‹‹La thír stava ancora tramestando con le sue erbe, Bylistr!››.

‹‹Preparavi un veleno per uccidermi, Gullveig?›› scherzò Bylistr, sporgendosi verso la donna.

‹‹No, signore, preparavo una pozione per darti la vittoria! Hai bisogno del mio aiuto per vincere questa guerra!››.

Skœrir e Ragnarr risero selvaggiamente, poi lo Sfregiato afferrò la donna per un braccio e la strattonò.

‹‹Non abbiamo bisogno della tua magia, seiðkona ! (4) Con questa, vinceremo la nostra guerra!›› inveì sfoderando una lunga lama.

‹‹Lascia che parli›› s’intromise Bylistr. ‹‹Qualche giorno fa, mi hai detto che puoi piegare un uomo al tuo volere, che puoi impossessarti della sua volontà perché faccia quello che vuoi. Chi sei tu per arrogarti questo diritto?››.

La donna rise, beffarda e sicura di sé. Poi si liberò dalla presa di Skœrir, e s’alzò in piedi guardando Bylistr dritto negli occhi.

‹‹Sono una maga, Bylistr›› ammise. ‹‹Mia è la magia del Padre di Tutti, la magia seiðr, mie le rune che possono vincolare un uomo, togliergli la forza o il senno…››.

Ragnarr storse la bocca, Skœrir ruggì la sua disapprovazione.

‹‹La seiðkona ci farà morire tutti, con le sue inutili magie! Ammazziamola adesso, Bylistr!››.

Bylistr zittì il compagno con un’alzata di mano e si sistemò più comodamente sullo scranno.

‹‹Perché credi che col tuo aiuto vinceremo? Non siamo in gran numero, ma abbiamo guerrieri valorosi e motivati, pronti a combattere. Uccideremo l’utlänning e Magni ci farà entrare al Þing! Nessuno ci fermerà!››.

La donna rise di nuovo. ‹‹Sei sicuro delle tue possibilità, ma ancora Magni figlio di Thor non è convinto…e questo perché dubita di Leif e delle sue intenzioni. Cosa farebbe, se solo immaginasse che avete progettato la morte della sacerdotessa? Una mente incerta fa strani ragionamenti, Bylistr! Se Magni sospetta del tuo compagno, Leif morirà prima di rendersene conto e il tuo piano fallirà…››.

Bylistr storse il naso e digrignò i denti. ‹‹Come puoi sapere queste cose?›› chiese irritato.

‹‹Sono una maga, Bylistr›› ripeté lei. ‹‹Dai tuoi uomini ho saputo tutto quello che mi serviva e adesso posso aiutarti, con questo!››.

Dalla tasca del vestito lacero, la donna estrasse una fiala e la agitò in aria, mostrandola bene a Bylistr.

‹‹Non riuscirete a sconfiggere l’utlänning con tanta facilità, perché è forte e sente il male…forse ha già scoperto lo jarl traditore…Con una droga come questa, lo stordirete e sarà facile farlo sparire per sempre! Ma per catturarlo avete bisogno della rabbia e della forza di Magni. Di voi, solo Leif può entrare e uscire da palazzo, ora che Herald figlio di Healfdene, che vi conosce tutti, è entrato nell’hirð. Avete assoluto bisogno dell’aiuto del capitano traditore››.

‹‹Continua›› la esortò Bylistr. Gullveig spalancò gli occhi fiammeggianti, esibendo un sorriso diabolico.

‹‹Fammi avere un oggetto di Magni il Rosso, che sia solo suo, e io opererò la mia magia su un ciondolo di Loki››. Indicò l’oggetto metallico che pendeva sul petto di Bylistr, e su quello di Ragnarr e Skœrir. Agitò le braccia in aria, sotto lo sguardo curioso e impressionato dei tre cospiratori e concluse la sua arringa. ‹‹Fate in modo che Magni lo indossi, convincilo, forzalo, fa’ come vuoi! L’importante è che una volta che lo avrà al collo, quell’amuleto lo piegherà al mio volere, al tuo volere! Allora lui avrà la sua vendetta, e tu la tua!››.

Bylistr osservò la donna con maggior interesse, sforzandosi di vedere in lei, più che un riempitivo del suo letto, quello che era stata fino allora, un’indispensabile e perfida alleata. Si passò la lingua sulle labbra tirate in un sorriso soddisfatto.

‹‹Cosa pensi di Leif?›› domandò facendosi serio, forse un ultimo dubbio.

Lei alzò le spalle. ‹‹Sono stata nel suo letto, prima che arrivaste tu e i tuoi guerrieri a riportare l’ordine. Era sciatto e insignificante, come uomo e come guerriero. Ha raggranellato qualche ricchezza, un po’ rubando un po’ imbrogliando, ma è tutto merito vostro, da solo si sarebbe consumato nella sua miseria. Adesso l’avete mandato tra gli Asar, alla cittadella, e si fa chiamare jarl ma è rimasto insignificante. I veri jarls, i veri condottieri, quelli che contano, sanno bene di che pasta è fatto il figlio di Eric il Vile. Borioso, saccente, insopportabile! Questo è il motivo per cui non l’hanno voluto al Consiglio! Solo l’ingenuità della principessa gli ha permesso di restare in gioco, perché quella strega di Hilda l’avrebbe cacciato a pedate da tempo!››.

Bylistr annuì, soddisfatto.

‹‹Sbarazzati di Leif, Bylistr! È un idiota, e pericolosamente incompetente!›› disse ancora la donna. ‹‹Se il tuo piano ha un punto debole, quello è lo jarl Leif! Non mi stupisco che la principessina metta gli occhi su un altro uomo, non è difficile trovarne di migliori!››.

‹‹Basta!›› tagliò corto Bylistr. ‹‹Accetto il tuo aiuto, seiðkona! Ma prima voglio sapere cosa t’aspetti per ricompensa! Pensa bene a quello che dici, potrebbero essere le tue ultime parole!››.

La donna sentì, dietro di lei, il rumore caratteristico di una lama estratta dal fodero. Skœrir, rispondendo ad un impercettibile gesto di Ragnarr, aveva di nuovo sciabolato la sua lunga lama e la brandiva minaccioso, pronto a sferrare un fendente che le avrebbe tagliato di netto la testa.

La donna non si scompose, anzi rise selvaggiamente.

‹‹Quello che voglio non è quello che interessa a te, Bylistr! Né oro, né argento, né gioielli o ricchezze d’altro tipo!›› sibilò Gullveig. ‹‹Voglio Hilda morta, voglio la sua testa su un piatto, voglio il suo scettro. Voglio essere la Grande Sacerdotessa del Culto di Odino!››.

 

Note

1) Le colonne di legno, accuratamente scolpite, venivano erette ai lati dello scanno padronale nella sala comune e simboleggiavano il culto del focolare.

2) L’odierna Trondheim, in Norvegia.

3) Leif Ericson riuscì a conquistare il cuore di molti Groenlandesi e il Cristianesimo prese sempre più piede anche in quella desolata terra al di là dell’oceano. Come si vedrà tra breve, in questo racconto, si narra di uno scontro tra gli dèi pagani e la croce cristiana che non è quello che la storia conosce.

4) ‹‹Maga››.