Shaina '90 presents:

Irina
Eterno amore e solitudine

 

Il mio nome è Irina. Sono una dea. Una creatura divina che possiede capacità soprannaturali ma è afflitta da una noia infinita. Per me lo scorrere dell'eternità non esiste. Sono sempre esistita e sempre esisterò, e il mio corpo rimarrà sempre quello che lui mi ha detto appartenere a una giovane e bella esponente femminile della sua specie. Già, lui. L'unica persona che abbia lenito la mia solitudine, l'unico con cui ho condiviso la mia esistenza. L'unico il cui ricordo mi riempie insieme di dolore e dolcezza. E' stato lui a darmi questo nome, come è stato l'unico che abbia avuto l'occasione di usarlo. Ma lo usava di rado, perchè non ci separavamo mai. Volle darmelo per poterlo ricordare nelle sue preghiere. Questo pensiero mi commosse, anche se quelli come me le preghiere le ricevono, non ne sono oggetto. Lui mi definiva molto bella, per i miei capelli dal colore della neve e i miei occhi gemelli del ghiaccio e la mia costituzione minuta come un bocciolo congelatosi prima di sbocciare. Avevo visto molti umani e quelli che sono belli secondo i loro metri di paragone, ma non capivo se fosse oggettivo. Ma di una cosa sono sicura: per quanto potessi essre bella (ma cos'è la bellezza, in fondo?) non sarei mai stata bella neanche un decimo di lui. La mia storia inizia molto indietro in quello che gli uomini chiamano tempo. Non ho mai incontrato un'altra divinità, ma nel mio eterno girovagare per mondi e dimensioni ho osservato lo scorrere della vita di milioni di persone. Senza mai intervenire, mi limitavo ad osservarli che provavano gioia, tristezza, dolore, odio, paura: tutte cose che io non avevo mai provato nella mia eterna esistenza. La svolta fu quando arrivai in quel luogo remoto. Era bellissimo: si, fu il primo luogo che mi ispirò un sentimento, e per quello me ne innamorai. La neve candida ricopriva tutto e cadeva continuamente in piccoli fiocchi, dando a quel luogo un aspetto onirico. Il mare si estendeva a perdita d'o cchio, e gli alberi congelati sembravano sculture di cristallo. Certo, non c'era niente e nessuno da osservare, ma non ebbi tempo di annoiarmi. Scoprii di possedere un talento che non avrei mai immaginato: riuscivo a congelare le cose semplicemente volendolo. Scatenare quel potere divenne la mia ragione di vita. Divenni abilissima, per la prima volta provavo piacere nel fare qualcosa, per la prima volta le mie giornate non erano vuote. Senza rendermene conto erano passati millenni umani e io ero ancora in quel posto, mai sazia, sempre presa a scoprire qualche nuova meraviglia e ad incrementare le mie capacità. Arrivai perfino a creare delle tecniche da combattimento, anche se non c'era nessuno contro cui utilizzarle, e a creare sculture di ghiaccio rappresentanti animali e piante. Avevo raggiunto ormai lo Zero Assoluto quando, durante le mie esplorazioni trovai un'enorme caverna, ampia e altissima e piena di stalattiti e stalagmiti dai mille colori. E al centro della caverna vi era, rinchiusa in un sarcofago di ghiaccio, una bellissima armatura dorata che rappresentava una persona con un'anfora tra le mani. Desiderai avere quella splendida corazza per me, ma quando scongelai il sarcofago e cercai di indossarla, non vi riuscii; un po'delusa, ma in fondo conscia che in quel luogo di meraviglie ce n'erano tante, la risigillai nel ghiaccio eterno.

Non so quanto tempo dopo avvenne la seconda svolta nella mia vita, perchè fu così importante da rendere grigio tutto ciò che la precedette. Era un giorno particolarmente freddo, e io me ne stavo rintanata al sicuro nella caverna più grande della zona, che avevo adibito a mia abitazione, quando all'improvviso mi sembrò di udire una voce chiamare aiuto, persa nel fragore del vento. Non vi erano insediamenti umani per centinaia di miglia, e soprattutto nessuno si sarebbe mai avventurato in quel luogo inospitale. Comunque, spinta da non so cosa, uscii dalla caverna e, pochi minuti dopo, lo trovai. Era quasi completamente ricoperto dalla neve e tutto il suo corpo freddissimo. Lo portai nella mia caverna e lo riscaldai. E quando il suo viso ebbe ripreso colore, quando fui riuscita ad allontanare Ade da lui, mi accorsi di non riuscire più a staccare gli occhi da lui. Era giovane, ancora un ragazzino, ma il suo viso aveva i lineamenti e la serietà di un adulto. I capelli neri erano folti e lunghissimi, e gli occhi scuri profondi come laghi di montagna, impenetrabili come il Tartaro e allo stesso tempo dolci come l'ambrosia. Sapevo abbastanza degli esseri umani da capire che doveva provenire da un paese molto, molto lontano, eppure sentivo di conoscerlo da sempre. Avevo visto da vicino moltissime persone, perchè questa mi turbava così? Perchè avevo questo desiderio di prendermi cura di lui, e di tenerlo con me?

Quando si svegliò non parve affatto turbato di trovarsi di fronte a una divinità, e mi ringraziò con molta cortesia. Il suo nome era Camus e, come avevo creduto, veniva dalla Francia, che sapevo trovarsi molto distante da li. Sentivo sempre più simpatia verso di lui e accolsi quindi con piacere la sua richiesta di mostrargli quel luogo. Quando infine arrivammo alla caverna in cui era custodita l'armatura, Camus sembrò conoscerla e mi narrò la storia di quella corazza e della Dea Atena, uno dei cui Cavalieri era predestinato ad indossare quelle vestigia. Quello stesso giorno Camus manifestò il desiderio di tornare a casa sua, poichè le sue ferite non erano gravi. Rimasi di sasso. Sapevo di non avere nessun diritto di trattenerlo con me, ma sentivo che sarebbe diventato molto importante per me, sarei morta se l'avessi lasciato andare. E trattenendolo con la forza lo avrei solo indotto a provare odio nei miei confronti. Fu allora che ebbi un'idea. Proposi a Camus di addestrarlo al controllo delle energie fredde, apprese le quali sarebbe potuto diventare cavaliere. Camus, che non aveva alcun legame che lo legasse alla sua terra, accettò, e iniziammo l'addestramento. Ed iniziarono anche i sei anni più belli della mia vita. Camus era un allievo attento e dotato, ed io mi divertivo tantissimo ad insegnargli tutto ciò che avevo appreso negli anni di solitudine che il suo arrivo aveva dissipato come un raggio di sole disperde le tenebre della notte. Ogni giorno mi sentivo sempre più legata a quel giovane dai modi garbati e dall'intelligenza pronta, a colui che ormai consideravo parte di me. Poco importava che io fossi di natura divina e lui un uomo, l'unica cosa che mi interessava era poter stare con lui. E mi sembrava che anche lui provasse le stesse cose per me. O forse erano solo le fantasie di una donna innamorata. Si, l'amore. Da sempre l'amore che vedevo nelle persone mi aveva affascinata; un sentimento che trascende dal tempo e dallo spazio e che permette di compiere imprese sovrumane e può modificare l'essenza stessa di una persona. Si, amavo Camus ogni giorno di più, e ancor più che desiderare il suo corpo, che a volte abbracciavo nelle notti più fredde, quando lui era addormentato e io non avevo il coraggio di osare di più, desideravo soltanto dividere con lui quel luogo meraviglioso per sempre. Poi, dopo sei anni, Camus conquistò l'armatura e divenne Cavaliere. Nulla cambiò tra di noi. Lui era tutto il mio mondo e lui, come me, non era mai stanco di allenarsi e di tenermi compagnia. Poi, dopo qualche anno, arrivarono due ragazzini per essere allenati a loro volta da Camus. Inutile dire che non ne fui entusiasta. Non volevo che qualcuno arrivasse a rompere l'idillio mio e del mio compagno, Camus era però ansioso di mettere a punto le sue capacità, e non gli impedii quindi di allenare i due bambini. Si chiamavano Isaac e Hyoga ed ammiravano molto il loro maestro. Nonostante le insistenze di Camus, non gli permisi di parlare loro di me, perchè l'unica compagnia di cui avevo bisogno era la sua e non volevo conoscere altre persone. Aiutai Camus a superare l'immenso dolore per la perdita di Isaac, annegato nel mare ghiacciato di quei luoghi, e osservai Hyoga conquistare l'ambita armatura del Cigno. Quando finalmente anche l'altro allievo di Camus se ne fu andato, sperai che avremmo potuto ricominciare a vivere da soli, unici spettatori di quel mondo soprannaturale. Mi sbagliavo.
Dai viandanti che a volte capitavano in quel luogo inospitale e che noi aiutavamo a trovare la strada per uscirne, Camus venne a sapere di problemi in corso al Grande Tempio, la sede del suo Ordine. Per un pò Camus fu molto nervoso, poi un giorno mi disse che desiderava raggiungere la Grecia e combattere al fianco degli altri cavalieri. Litigammo. Non potevo credere che mi lasciasse sola come ringraziamento per essermi presa cura di lui per tutti quegli anni, e lui mi accusò di averlo addestrato solo per egoismo, per tenerlo vicino a me, e non per fare di lui un guerriero votato al bene. Alla fine scoppiai in lacrime e lo pregai "Ti prego, Camus, non andartene, non lasciarmi sola! é vero, sono un'egoista, ma solo perchè tengo troppo a te, perchè non voglio perderti.... io ti voglio bene!" Seguì il momento più bello e insieme più brutto della mia vita: Camus mi abbracciò forte, e mi ritrovai stretta contro il suo corpo, che ormai era quello di un uomo adulto. Eppure mi rattristai, perchè sapevo che era il preludio di un addio eterno. "Se veramente mi vuoi bene lasciami andare" mi disse infatti Camus con la sua voce dolce "Cerca di capire che è per ringraziarti della tua opera di maestra che metto a frutto i tuoi insegnamenti" Parole sagge, le sue. Ma io non le ascoltai. Arrivai a offrirgli il dono più grande degli Dei miei pari: quello del nono senso, l'essere divinità, immortali ed eterni. Ma Camus lo rifiutò. Forse il bacio leggero come un respiro e caldo come l'amore eterno che nutrivo per lui fu realtà, o forse fu creato dalla mia mente per rendere più sopportabile il ricordo di quell'attimo, negli anni a venire. In un attimo Camus era sparito. Non lo rividi mai più, nonostante l'abbia a lungo cercato per il mio regno. Un regno inutile ora che non potevo dividerlo con lui. Pensai anche di seguirlo in Grecia, ma non sarebbe servito a niente: io volevo impedirgli di essere ciò cui lui anelava, il luogo in cui lo facevo non aveva importanza. Volevo tarpargli le ali e lui invece voleva volare. E nelle lunghe serate nuovamente solitarie presi a ricordare con nostalgia ogni attimo di quegli anni passati insieme, ogni sguardo, ogni parola e sensazione che li avevano resi indimenticabili.

Ora ho capito. Camus aveva ragione, ero stata cattiva ed egoista a volerlo trattenere con me, nonostante anche lui avrebbe voluto dividere l'eternità con me in quel luogo; perchè, l'ho capito dopo molte lacrime, anche lui provava ciò che provavo io. Ma è proprio per amor mio che se n'è andato, per non sprecare il mio insegnamento e per rendermi fiera di lui. Comunque non rimarrò qui ancora per molto. Un giorno ho sentito qualcosa dentro di me spezzarsi e sono scoppiata nel pianto più disperato della mia vita. Perchè avevo capito che Camus, il mio Camus, era morto. E con lui la mia voglia di vivere. La mia immortalità se ne sta andando a poco a poco, lo sento. Sto per morire. Non so dove finirà il mio spirito, ma di una cosa sono felice: li io e Camus ci reincontreremo. E io li potrò ringraziarlo per tutto ciò che ha fatto per me, perchè è stato lui a insegnare a me a crescere, non il contrario. E potrò dirgli che sono fiera di lui, e potremo tornare nel nostro regno di ghiaccio insieme, per sempre.

Shaina '90, 25-9-05

Dedicato a Kagome, fan n. 1 di Camus. Con tutto il mio affetto.