Capitolo 35: Infine la Verità
Freiyr si rialzò, era ferito, ma stranamente non sembrava soffrire per il potente colpo subito, "Sei riuscito a superare le difese divine di cui sono stato fornito e questo è degno di lode, comandante celtico, ma la vera fonte della mia invulnerabilità è la fede in Odino, quindi, per quanto tu possa colpirmi e dilaniare il mio corpo, non sentirò il dolore dei tuoi attacchi", spiegò il Re asgardiano. "Inoltre la tua tecnica non ti ha salvato dalla lama della Sacra Spada", aggiunse, indicando la spalla del nemico.
Dagda si guardò la spalla e solo allora si accorse che l’armatura era incrinata, non appena la toccò questa andò in pezzi. "Grandi sono quindi le doti del primo cavaliere del Nord se sei capace di tali azioni, superare le mie difese e non soffrire dell'attacco è cosa difficile", si congratulò il comandante celtico.
"Se l’incontro con te, che sei un Signore del Nord mi dovrà portare alla morte, sia pure, ma ciò non avverrà senza che io ti affronti ferocemente in duello, preparati a subire di nuovo questo colpo, che, prorompendo dal Nulla, non può essere facilmente deviato", lo sfidò il Tree Monk del Faggio, preparandosi ad un nuovo attacco.
"Sono pronto, guerriero celtico, la spada Balmung stavolta non avrà pietà di te e ti mostrerà quale sia la vera natura delle tue azioni in quest’Isola", replicò il god warrior di Dubhe, sollevando la propria splendida arma sacra.
"Void Impact", urlò Dagda, correndo contro l'avversario, "Spada Balmung, colpisci il nemico, anche se egli si nasconde nelle trame del Nulla", invocò in tutta risposta Freiyr.
Nuovamente i cavalieri videro la figura del loro nemico diventare più simile ad un’immagine riflessa, poi, con un bagliore, scomparve, per riapparire alle spalle dell’avversario. Allo stesso tempo, però, i diversi santi, mariners e Bifrost, poterono osservare la spada di Odino brillare fra le mani di Freiyr, che scatenò un fendente abbagliante, prima che la figura del suo nemico scomparisse.
Dopo quest’ultimo attacco, Freiyr appoggiò la punta della Spada al suolo, per appoggiarvisi, e dalle sue braccia proruppero diverse ferite, da cui scaturì una gran quantità di sangue, allo stesso tempo, però, Dagda, sembrò quasi stordito, come se qualcosa lo avesse lasciato spiazzato, facendogli perdere l’orientamento.
"Mi hai quindi battuto, Signore del Nord, toglimi ora la vita, come prevedono le stelle che da sempre mi hanno guidato", affermò con un filo di voce il comandante celtico, mentre l’intera armatura del Faggio andava in pezzi e dal suo corpo iniziava a scorrere una gran quantità di sangue.
Dagda cadde al suolo ferito, mentre Freiyr si avvicinava lentamente e faticosamente a lui, "Voltati, comandante celtico", ordinò semplicemente il Re asgardiano.
Con estrema difficoltà il Tree Monk del Faggio si girò, appoggiando le spalle al suolo, anziché il petto; i due si scambiarono uno sguardo, non vi era sfida nei loro occhi, né l’odio ed il rancore che li alimentava all’inizio del duello, bensì comune rispetto, entrambi avevano saggiato sul proprio corpo la forza dell’altro e solo per la sua potenza superiore che il figlio di Siegfried era stato capace di vincere e questo lo riconoscevano entrambi.
Freiyr sollevò la lama della spada Balmung contro il capo del nemico, "Le stelle affermano che tu devi morire per mano mia, Dagda del Faggio, ma non posso rendermi responsabile della tua morte, poiché troppo simile è stato il tuo destino rispetto a quello di mia madre. E ciò mi rende cosciente dell’unico desiderio che alimentava i tuoi fedeli Tree Monks: che tu sopravvivessi, a nessuno di loro interessava della proprio vita, tutti volevano che tu vivessi, si sono sacrificati per questo e non deturperò i loro gesti, ti prego solo di credermi quando dico che la divinità nel Lago non è Mannanon, bensì un essere olimpico sotto molti aspetti simile ad Urano, l’ancestrale divinità", affermò gentilmente il figlio di Siegfried, prima di riporre la sacra Spada.
"Sei nobile, Freiyr di Dubhe, Re di Asgard, ma le tue parole non possono essere veritiere, come potrei essere ingannato da questo dio? Come Egli avrebbe potuto ingannare tutti per così lungo tempo?", domandò, perplesso con la poca voce rimastagli, l’aureo comandante.
"Non vi aveva ingannato tutti", replicò all’improvviso una voce femminile a molti nota.
"Botan", sussurrò con tono sorpreso Helyss, mentre tutti percepivano l’ampio cosmo della sacerdotessa d’oro avvicinarsi a loro, come un gentile abbraccio.
Un bagliore, poi, dagli strati di Spirito di cui era padrona, Botan di Cancer aprì un varco attraverso cui riapparve dinanzi ai cavalieri a lei alleati ed a Dagda, ormai sconfitto.
La sacerdotessa guerriera dai lunghi capelli verdi era ferita, ma, lo squarcio nel suo animo sembrava ricucitosi.
"Dove sei stata, Botan?", domandò Myokas di Sagitter, avanzando verso la parigrado, "Dovevo chiedere perdono alla mia vittima", disse semplicemente la voce filtrante dalla maschera dorata.
"Tu devi essere Dagda, il comandante di cui mi hanno parlato", affermò rivolgendosi al Tree Monk al suolo ferito, "Si, e tu chi sei?", incalzò lui, "Botan del Cancro, sacerdotessa di Atene e cavaliere d’oro della Quarta Casa, oltre ad essere, purtroppo, la carnefice di Ceridwen dell’Olmo", si presentò la giovane guerriera.
"Che cosa vuoi da me? E perché sei tornata ora sul campo di battaglia?", ribatté con voce offesa il comandante dei Tree Monks.
"Capisco il tuo odio verso di me, anch’io lo ho provato per me stessa quando ho ucciso Ceridwen, ma ho compiuto un atto di penitenza, portando la sua anima fino al luogo in cui riposano i guerrieri celtici", replicò gentilmente la sacerdotessa d’oro.
"Ho accompagnato Ceridwen nel mondo dei morti, è vero", ripeté nuovamente la Gold Saint, "e lì ho incontrato gli altri guerrieri che abbiamo sconfitto, anche i due che sono morti dopo la Tree Monks dell’Olmo, tutti, però, chiedono la medesima cosa, che tu viva, comandante dorato e che li vendichi. Dicono di non essersene resi conto dapprima, ma colui che tutti vi guida non poteva essere Mannanon, lo hanno intuito solo dopo, ma sono rimasti fedeli a te, che in quel dio credevi", raccontò la guerriera dai verdi capelli.
"Menti!", urlò Dagda, cercando di alzarsi, "Come potevo, io solo non percepire la differenza fra il cosmo di quest’essere e quello di un dio celtico?", tuonò disperato il comandante dorato.
"Per colpa di Arawn", esordì allora una terza voce.
Tutti si voltarono e videro apparire un altro Tree Monk dalla cloth quasi azzurra, chiaramente cieco, "Gwyddyon", lo salutò Tok’ra, appena ripresosi, "Salve a te, cavaliere di Virgo", replicò lo sciamano del Tiglio.
Mentre i cavalieri d’oro ed argento che non avevano accompagnato i Mariners chiedevano chi fosse il nuovo arrivato, questi si avvicinò al proprio comandante, per soccorrerlo, se possibile.
"Che intendevi dire, dando la colpa ad Arawn?", domandò con la poca voce rimastagli Dagda, "Che, per quanto potesse sembrare gentile e buono, il mio vecchio compagno d’addestramenti era un vile, un essere maligno che tanto aveva lavorato per ucciderci tutti e prendere il potere, ma che sbagliò il suo alleato, ritrovandosi preda del suo stesso imbroglio", iniziò a spiegare Gwyddyon.
"Tutti quanti, da Belenos e Cernunnos, fino a me, Nuada e Ogma, quando abbiamo iniziato ad allontanarci da questo Lago circondato dagli alberi, in quel momento, lentamente, la percezione del cosmo divino è apparsa diversa. Ho capito poco fa il motivo, riavvicinandomi, quando ho percepito la presenza di Arawn, seppur lui è già morto", spiegò con parole confuse il Tree Monk del Tiglio.
"Che intendi dire, sciamano?", domandò incuriosito Golia del Toro, "Che cosa quel vile essere dagli occhi rossi avrebbe fatto a questo luogo?", continuò il santo d’oro, memore della particolare battaglia vissuta con quel particolare nemico.
"Probabilmente ci sarà qualche sua runes, era abile ad illudere le masse e l’aiuto di questo dio maligno gli ha permesso di ingannare Ogma, me e tutti gli altri, compresa la nostra grande guida, Dagda", spiegò seccamente Gwyddyon, sollevando le mani al cielo.
Lo sciamano cieco recitò dei versi antichi e di natura scozzese, poi il silenzio. Tutti si chiesero cosa volesse fare il Tree Monk del Tiglio, ma, improvvisamente, un’esplosione d’energia proruppe dai palmi delle mani, insieme ad un potentissimo boato.
L’intera area fu circondata da un bagliore azzurro e lentamente gli alberi scomparvero da quel luogo, sorprendendo tutti i presenti.
"Gli alberi stessi erano le runes", affermò sorpreso Dagda del Faggio, rialzandosi.
"Il cosmo del dio, che prima assomigliava soltanto a quello di Urano, è cambiato", rifletté Reptile dell’Anaconda, "Hai ragione, generale dei Mari, ora non assomiglia più a quello di Urano, è il suo", balbettò sorpreso Ryo di Libra.
"Disprezzo gli uomini da quando furono creati, ma voi, esseri immondi che avete osato rovinare un mio piano e che, sopra ogni cosa, avete osato paragonarmi a mio Fratello, vi distruggerò, senza alcuna pietà, lascerò solo polvere, cenere e pochi frammenti dei vostri corpi", tuonò una voce furiosa, proveniente dal Lago.
Tutti furono spaventati da quella voce, ma il terrore si unì alla rabbia, divenendo furia, dinanzi ad un cosmo che i cavalieri d’oro, i mariners, i santi d’argento ed i due god warriors odiavano perché gli ricordava la guerra contro il dio del Cielo, mentre Dagda e Gwyddyon disprezzavano, poiché li aveva ingannati ed aveva portato alla morte di quasi tutti i Tree Monks.
"Mostrati, dunque, essere che ti facevi chiamare Mannanon, noi, seguaci degli dei celtici, siamo desiderosi di punirti per questo tuo gesto", lo sfidò il comandante dorato del Faggio.
"Non sono il tuo dio degli Abissi Mannanon, ma mi dovresti una devozione maggiore di quella che gli concedi, poiché io sono una creatura Ancestrale, come mio fratello, il Cielo, e mia sorella la Terra", ribatté la divinità.
In quel momento, i cavalieri distinsero una figura fuoriuscire dalle acque, lentamente, ma inesorabilmente, prima i capelli, che si dimostrarono essere blu, poi, la fronte spaziosa, quindi lo sguardo ed il volto, che lasciò sbalorditi tutti i guerrieri fedeli alle divinità olimpiche, infine, il corpo possente.
Quando questi fu completamente fuori dal Lago, camminò sulle acque e raggiunse la riva, dove si fermò con il viso pieno d’odio.
"Se non fosse per i capelli, azzurri, anziché verdi, sembrerebbe Urano prima di ritornare vecchio", affermò sorpreso Myokas di Sagitter.
La divinità Ancestrale alzò il pollice e sul suo corpo nudo si dispose un’armatura, che, con grande sorpresa di tutti era di titanio, ma non assomigliava a quella di Zeus, come la cloth di Urano, bensì alla scale di Nettuno, seppur le mancava il Tridente.
"Avevo sperato di non dover più vedere quelle orribili armature di titanio, chi sei tu, che ne indossi una e tanto assomigli al dio Urano?", esclamò innervosito Freiyr di Dubhe.
"Piccolo ed insulso mortale, io sono Colui che rappresenta il Mare", esordì il dio antico, "il mio nome è Pontos".