CAPITOLO DICIANNOVESIMO: VELENI.

L’Isola del Sole è un’isola situata nella parte meridionale del lago Titicaca, vicino alle coste della Bolivia, lungo la Cordigliera delle Ande a 3800 metri di altezza. Nel cuore della leggenda e della storia dell’impero Inca.

Narra infatti il mito che Manco Capac, il primo imperatore Inca, e sua moglie Mama Ocllo, figli di Inti, Dea del Sole, uscirono dalle acque di quel lago per fondare la città di Cuzco, da cui avrebbe avuto origine l’Impero Inca.

Per molti erano soltanto favole, ricordi sbiaditi destinati a perdersi nel vortice del tempo. Ma per Andrei, che aveva trascorso anni ad Isla del Sol, cibandosi di quello sconfinato patrimonio culturale, era molto di più. Era storia, era Mito. Ed erano gli insegnamenti che aveva tramandato al suo allievo, il Cavaliere delle Stelle che era stato preposto ad addestrare sulle rive del lago Titicaca, imbevendosi dei ricordi degli avi che lo avevano preceduto, e da cui orgogliosamente discendeva.

Seduto a gambe conserte, nell’alto tempio dedicato a Inti, Dea del Sole, Andrei ascoltava il frusciare del vento di quella mattina, che increspava la superficie del lago generando onde che si abbattevano alla base dei terrazzamenti delle colline dell’isola. In un moto continuo, a tratti perverso, ma mai uguale. Come era la Storia per lui. Non quella da imparare sui manuali scolastici o sui polverosi testi del Mondo Antico, bensì quella da vivere, da sentire sulla propria pelle.

"Maestro!" –Lo disturbò una voce, mentre la snella sagoma di un ragazzo appariva all’ingresso del Tempio, proiettando la sua ombra sulla sala dove Andrei stava meditando. –"È ora che vada!" –Andrei aprì gli occhi e osservò Jonathan avvicinarsi.

Alto e ben fatto, con capelli biondissimi che il vento muoveva nell’alba andina, il Cavaliere delle Stelle indossava la sua lucente Armatura, dalle forme aerodinamiche, i cui riflessi parevano cambiare ad ogni movimento del giovane, come se il sole lo seguisse e non volesse lasciarlo andare senza cedergli qualcosa di sé. In mano stringeva un lungo bastone dorato, in cima al quale splendeva un fiore ornato al centro da una gemma bianca: lo Scettro d’Oro.

Andrei si limitò ad annuire, alzandosi in piedi. Nonostante fosse un individualista e preferisse agire da solo, senza dover rendere conto a nessuno, era consapevole che quella volta non potevano esserci imprese solitarie, ma un’unica azione, coordinata a livello centrale. Un’unica mossa per arginare la crescente marea d’ombra.

In passato non s’era fatto problemi ad intervenire autonomamente, anche senza attendere ordini da Avalon, incapace di lasciar trascorrere il tempo senza far niente, incapace di perdersi in troppe riflessioni. Andrei era un uomo d’azione, che soffriva nel rimanere inerme ad osservare i pezzi del mosaico andare a posto uno dopo l’altro, con una lentezza che gli pareva disarmante. Lui avrebbe composto subito l’immagine completa, anche a scapito della qualità. Per questo aveva esercitato pressioni su Avalon, affinché gli concedesse maggiori spazi di manovra, desideroso di confrontarsi con la causa primaria del dolore che aveva provato. Il demone intriso di fuoco e di ombra che stava conducendo il mondo verso l’apocalisse.

Quello stesso maledetto demone che negli ultimi anni aveva assunto identità diverse, cercando di sollevare i sopiti rancori del mondo, asservendoli alla causa dell’ombra. Seth, Apopi, Atene, Angkor, Loky, Crono, Ares, Tifone, tutti erano stati usati. Flegias non aveva risparmiato niente e nessuno, disposto a vendere persino l’anima pur di perseguire l’obiettivo finale. E Andrei aveva con lui un conto in sospeso, per qualcosa che lo aveva toccato da vicino. Il Rosso Fuoco infatti, nella sua disperata ricerca, aveva appiccato violenti incendi sia al tempio dedicato a Inti, a Isla del Sol, sia a Cuzco, sterminando sacerdoti e fedeli, senza trovare alcun talismano antico. Perché non aveva saputo cercare. O, come Avalon amava spesso ripetere ad Andrei e ai Cavalieri delle Stelle, perché non sapeva esattamente cosa cercare.

La soddisfazione per il fallimento di Flegias non aveva lavato le lacrime di Andrei, per la morte dei Sacerdoti e dei fedeli che ancora continuavano ad adorare Inti e il Sole, quegli stessi fedeli che anni addietro lo avevano accolto come un Dio, invocando la sua benevola protezione. E proprio quel rancore lo aveva portato a disobbedire agli ordini di Avalon, abbandonando Isla del Sol e scendendo per la prima volta in guerra.


Andrei sospirò, ricordando la devastazione apertasi davanti ai suoi occhi mesi prima, quando era apparso tra le fiamme di Angkor, in una macabra notte di guerra. Mura crollate, templi sfregiati e un gruppo di superstiti rannicchiati sotto i bassorilievi del Kurma, vittime innocenti della violenza di un diavolo. Flegias era in mezzo alle fiamme e lo fissava con aria di sfida, né sorpreso né intimorito dalla sua apparizione.

"Questa spirale di violenza deve terminare!" –Aveva esclamato Andrei, mostrandosi ai tre discepoli di Virgo sopravvissuti, rivestito dalla sua splendida Armatura di fuoco. –"Gli Dei e gli uomini che hai oltraggiato, disonorando i loro culti e i templi a loro dedicati, scateneranno una tremenda vendetta su di te!"

"Né gli Dei né gli uomini potranno mai sfiorare l’araldo della grande ombra! Le loro effimere vite sono un niente paragonato all’abisso oscuro che si sta aprendo! Un niente di fronte all’eternità!" –Aveva sibilato Flegias, avvolto nel suo cosmo di fiamme e ombra. –"E tu, e il marionettista codardo che tiene i fili di questa sporca commedia, nascosto tra le nebbie di un’isola dimenticata, scomparirete con loro!"

"Se anche accadrà, saremo vissuti comunque per fermarti, Flagello di Uomini e Dei!" –Aveva esclamato Andrei, cercando di non tradire l’ira montante. Aveva espanso il cosmo, avvolgendosi in un turbine di fiamme rosse e lucenti, e lo aveva scatenato contro Flegias con un semplice gesto della mano. –"Aurora infuocata!!! Risplendi!"

"Apocalisse Divina!!!" –Aveva ringhiato Flegias in tutta risposta, generando una tempesta di energia che si era schiantata contro l’attacco infuocato di Andrei, scagliando entrambi indietro e distruggendo parte della galleria orientale di Angkor.

Quando Andrei si era rimesso in piedi, usando i suoi poteri per controllare le fiamme circostanti e abbassarle d’intensità, Flegias era già scomparso. Nuovamente lo aveva perso. Aveva sospirato, incamminandosi verso i tre uomini superstiti, rannicchiati e feriti, e li aveva pregati di essere forti e non perdere la speranza. Quindi, aveva invaso l’intero tempio con il suo cosmo, mondando le fiamme dalla loro oscurità, ed era scomparso, portandole via con sé e liberando Angkor dalla maledizione di Flegias.

"Mai come in questo momento la frase di Esopo sembra acquistare una nuova luce!" –Commentò Andrei, salutando Jonathan. –"Se davvero l’unione fa la forza, allora avremo qualche speranza di vittoria!"

Jonathan annuì alle parole del maestro, volgendogli le spalle e uscendo nella fresca alba andina. Dall’alto del Tempio di Inti il lago Titicaca risplendeva come una chiazza d’oro, e Jonathan ritenne fosse di buon auspicio. Raggiunse il portale, ai piedi della scalinata, e si fermò sotto l’arco di pietra, sentendo su di sé secoli di storia e di mito. Sorrise, stringendo i pugni e pensando ai compagni che avrebbe rivisto tra poco. Reis, Febo e Marins erano già pronti. Soltanto il Comandante Ascanio era ancora impegnato sull’Olimpo.

Il Comandante dell’Ultima Legione era infatti rientrato sul Monte Sacro, sorreggendo il corpo debole di Phantom dell’Eridano Celeste e portando con loro anche Matthew, il giovane schiavo che era riuscito a liberarsi dall’inferno dell’Isola delle Ombre. Ma non li accolsero né squilli di trombe né corone di alloro, soltanto la silenziosa solitudine dell’Olimpo, interrotta saltuariamente dalle urla di dolore di Zeus, disteso sul letto nelle sue stanze, sotto le amorose cure di Era e delle ancelle.

"Che tristezza!" –Mormorò Ascanio, guardandosi attorno e notando le vuote sale della Reggia Olimpica, dove ormai non era rimasto neanche un Cavaliere, né una Divinità, tutti massacrati dalla guerra che nell’ultimo anno aveva imperato.

E ripensò a quando, quasi quindici anni prima, vi era giunto, recuperato da Ermes ad Atene e salvato dall’assalto dell’Esercito del Sole Nero. Quel giorno era rimasto estasiato, ad osservare lo splendore del Monte Sacro, la lucentezza del suo cielo, l’incanto dei suoi giardini. Tutto gli era parso fosse fatto di luce. Tutto gli era parso fosse colmo di mito e di storia. Adesso, dei bei marmi scolpiti, delle legioni di Cavalieri che marciavano di fronte alla Reggia del Fulmine, e della pacata ma ferma autorevolezza di Zeus, non era rimasto niente. Soltanto Ganimede, il coppiere degli Dei, che sorrideva loro stancamente, al centro del grande salone.

"Temevo che non vi avrei rivisto mai più!" –Commentò il giovane, avvicinandosi.

"I tuoi timori erano ben fondati, coppiere degli Dei!" –Esclamò Ascanio, pregandolo di occuparsi di Phantom, che necessitava di cure immediate. Gli presentò pure Matthew, anch’egli bisognoso di assistenza e di qualcosa da mangiare, per rimettersi in forze. –"Poi ti condurremo ad Atene, al cospetto della Dea tua Signora! Adesso devo assolutamente incontrare Zeus!"

"Sii forte!" –Mormorò Ganimede, mettendo un braccio di Phantom sulle sue spalle e aiutandolo a stare in piedi. –"Lo troverai molto diverso dall’ultima volta in cui l’hai visto! Forse più vecchio, sicuramente più debole!" –Aggiunse con tono inquietante, prima di allontanarsi, dirigendosi verso le stanze del Dio della Medicina.

Ascanio sospirò, avendo intuito a cosa Ganimede si riferisse. Aveva avvertito da subito, fin da quando aveva messo piede sull’Olimpo, che qualcosa era in atto. Qualcosa di oscuro stava prosciugando lo splendore del Sacro Monte e del suo Signore. Senza perdere altro tempo, si incamminò verso le stanze private di Zeus, bussando con forza al portone.

Fu una voce di donna a rispondergli e ad autorizzarlo a entrare. Era, Regina degli Dei, consorte del Signore del Fulmine, sedeva sul letto accanto a Zeus, disteso sotto lenzuola di seta, con il viso rivolto al soffitto. Verso gli splendidi affreschi delle sue imprese mitologiche, realizzati da Apollo secoli addietro. Attorno al letto, sempre pronte per esaudire ogni desiderio del Dio, alcune ancelle si affaccendavano operose.

"Mio Signore!" –Esclamò Ascanio, avvicinandosi al letto.

"Oh Ascanio! Sei tornato!" –Mormorò Era, con voce strozzata dal dolore. –"Ha chiesto spesso di te!"

"Cosa è successo?" –Domandò il Comandante dell’Ultima Legione, osservando il volto pallido del Dio, su cui vistosi spuntavano i segni di una vecchiaia che non aveva mai dimostrato. –"Che ne è del cosmo del Signore di tutti gli Dei?"

"Svanito!" –Sentenziò Zeus, con un filo di voce. Senza neanche muovere lo sguardo verso Ascanio. –"Sommerso da una tenebra senza fine che mi ha divorato l’animo!"

"Non cedete, mio Signore!" –Esclamò Ascanio, sporgendosi sul letto. –"Voi siete l’esempio, l’orgoglio di tutti noi Cavalieri Celesti! E siete anche la guida di uomini e di Dei che confidano nella benigna potenza delle stelle!"

"Vorrei esserlo davvero, Ascanio!" –Borbottò Zeus, cercando di sollevarsi, di appoggiare la schiena al mucchio di cuscini, prontamente aiutato da Era e da alcune ancelle. –"Ma non so quale maledizione ha deciso di ridurmi così! Guarda le mie mani, guarda la grinzosa pelle che ricopre ossa che sento sempre più deboli! Per la prima volta percepisco il peso dell’età, il peso del tempo che non ho mai sostenuto!"

"Cosa posso fare, mio Signore? Ci sarà una cura, un antidoto, una soluzione qualsiasi!" –Incalzò Ascanio. –"Non possiamo cedere adesso! La lotta contro l’ombra richiede l’unione di tutti noi, uomini e Dei, e voi dovete prenderne la guida!"

"Te ne occuperai tu, Ascanio! Tu, assieme al mio Luogotenente! Sarete il braccio che non riesco più a muovere, il braccio che coordinerà i Cavalieri Celesti in vece mia!" –Disse Zeus, tossendo più volte. –"Quanto alla cura… io non ho veramente idea di cosa mi stia succedendo…"

"Mio Signore!" –Confessò Ascanio con voce rigida, ergendosi come un soldato. –"Il Luogotenente dell’Olimpo riposa adesso nelle stanze di Asclepio, gravemente ferito durante l’assalto all’Isola delle Ombre! La Dea Artemide è caduta, massacrata dal figlio di Ares, e con lei sono caduti tutti i Cavalieri Celesti! Soltanto Phantom ed io siamo riusciti a scampare a tale atroce massacro!"

Zeus volse di scatto lo sguardo verso Ascanio, quasi non credesse alle sue parole. Non aveva sentito niente, neppure percepito lo spegnersi dei cosmi dei suoi Cavalieri, e questo lo fece avvampare di rabbia, oltre che di dolore. Per un momento, ad Ascanio sembrò quasi di vedere gli occhi argentei del Signore del Fulmine tingersi di lacrime, prima che crollasse contro i cuscini, respirando a fatica.

"È dunque la fine per tutti noi?" –Mormorò Zeus.

"Marito mio, riposa adesso! Parlerai più tardi con Ascanio!" –Intervenne allora Era. –"E voi, ancelle, aiutate Ganimede a prendersi cura del Luogotenente dell’Olimpo!"

"Subito, Regina!" –Risposero in coro le ancelle, accomiatandosi poco dopo.

Ascanio le seguì con lo sguardo fino al portone della stanza, attirando i loro sorrisi audaci, da sempre ammaliate dai fisici scultorei dei Cavalieri Celesti. Ne conosceva un paio, che aveva visto altre volte, ma non aveva mai dato loro molta considerazione, impegnato com’era sempre stato con questioni di sicurezza molto più importanti. Soltanto una attirò la sua attenzione, l’ultima della fila. Forse per il seno abbondante e la veste leggera, che lasciava intravedere due splendide gambe, forse per gli occhi piccoli e neri che parevano leggergli nell’anima, o forse perché, per un momento, gli parve di percepire un baluginare di cosmo proveniente proprio da lei. Scosse la testa, per non pensarci più, e riportò lo sguardo su Zeus.

"Non possiamo tardare, mio Signore! Il futuro della Terra, e dell’Olimpo, sarà deciso a breve!" –Esclamò. –"E per quanto mi dolga di dovervi strappare all’abbraccio della vostra sposa, credo che il Dio del Fulmine dovrebbe essere sul campo di battaglia e non disteso sul letto di morte!"

"Ma Ascanio!!!" –Brontolò subito Era, per quanto Zeus le fece cenno di tacere. –"Zeus è debole, si regge a malapena in piedi! E tu vorresti mandarlo a combattere? Sarebbe la fine del Signore dell’Olimpo! Una fine ingloriosa e immeritevole!"

"E credete davvero che restando qua, avvolti negli ultimi resti delle nuvole del Mondo Antico, la fine non ci coglierà comunque?" –Mormorò Ascanio, abbandonandosi a un sospiro. Si avvicinò alla vetrata del lato sud, lasciando correre lo sguardo lungo le vallate dell’Olimpo, fino a perdersi nel mare lontano. Un mare che in quel momento sembrava ribollire di fiamme nere.

Anche Phantom dell’Eridano Celeste stava fissando quel mare, dai vetri della stanza dedicata ad Asclepio. Ganimede lo aveva disteso su un letto, spogliandolo dai resti insanguinati della sua armatura, e stava medicando le sue ferite, mentre Matthew riposava poco distante, sprofondato dopo pochi minuti in un sonno quasi innaturale.

"Non so da quanto tempo quel ragazzo non chiudesse gli occhi, ma spero che sull’Olimpo riesca a curare le sue ferite! Quelle esteriori per lo meno!" –Commentò Ganimede.

"Quelle che ci portiamo dentro non si chiuderanno mai!" –Mormorò stanco il Luogotenente dell’Olimpo.

Proprio in quel momento entrarono le ancelle inviate da Era per portare aiuto a Ganimede e subito si affaccendarono con solerzia attorno al corpo del bel Luogotenente, non lesinando sorrisi e sguardi ammiccanti.

"Non tutti i mali vengono per nuocere, in fondo, no?" –Scherzò Ganimede, alzandosi dal letto e uscendo poco dopo dalla stanza, strizzando un occhio alle ancelle. –"Lascio a voi il posto, per tornare da Zeus, ma vedete di non stancarlo troppo!"

Le ragazze sorrisero, scivolando sulle lenzuola lungo il corpo del Luogotenente, che chiuse per un momento gli occhi, lasciando alle dolci mani femminili il compito di pulire le sue ferite, con le erbe e gli unguenti di Asclepio. Per un momento Phantom si sentì sollevato, quasi elettrizzato da quella situazione. Ma era troppo stanco per tutto, anche solo per guardare i bei visi delle ancelle di Zeus, le stesse con cui il Dio amava sollazzarsi nelle sue notti brave. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare da una profonda cantilena, quasi una nenia, che sembrò dissipare per un momento il velo di tenebra che lo aveva avvolto.

La sua mente lasciò l’Olimpo, perdendosi nei polverosi sentieri della memoria, ritrovandosi bambino, a correre dietro ai greggi di pecore allevate da suo padre Deucalione, lungo le pendici meridionali del Monte Sacro. Ai tempi in cui ancora lo chiamavano Nikolaos, nome scelto da sua madre, grande amante delle storie di eroi, e abbandonato in seguito all’epiteto ricevuto per le sue capacità di muoversi senza farsi scoprire. Aveva trascorso così i primi anni della giovinezza, gli stessi in cui sua madre allattava a fatica un’altra figlia. Una figlia che non avrebbe voluto avere, tanto difficile e delicata era stata per lei quella gravidanza. Era stato un miracolo che la bambina si fosse salvata.

"Un miracolo… o una maledizione?!" –Ripeteva spesso Elena, reggendo la piccola Teria tra le braccia. Era magra, con la pelle chiara e piccoli occhi spenti, ben diversi dal verde luminoso di quelli di Nikolaos, e sembrava non sorridere mai, quasi avvertisse la tensione che quel parto aveva generato nei suoi genitori.

Deucalione era stato davvero convinto che avrebbe perso sia la moglie che la figlia. E Nikolaos, che aveva osservato di nascosto la madre gemere su un letto di dolore, piangendo alla vista di tetre macchie di sangue e nell’udire gli urli a cui Elena si abbandonava spesso, non poteva fare a meno di notare gli sguardi di odio che continuamente Teria le rivolgeva. Il rancore che la bambina sembrava provare per la felicità che a lei era stata negata.

Così erano trascorsi dieci inverni, in cui Nikolaos era cresciuto, aiutando il padre nel lavoro, e in cui Teria si era chiusa sempre più in se stessa, parlando poco anche con la madre, fino al giorno in cui il ragazzo non aveva deciso di partecipare a dei giochi olimpici ad Atene. Era molto giovane ma aveva un fisico ben allenato e questo gli aveva permesso di conquistare qualche premio e molti applausi. E soprattutto le attenzioni di Zeus, che aveva incaricato Ermes di condurlo sull’Olimpo per farne un Cavaliere Celeste.

Elena e Deucalione, appresa la notizia, per quanto preoccupati all’idea delle battaglie che il figlio avrebbe dovuto affrontare, lo avevano abbracciato, colmi di gioia e di orgoglio. Ma Teria lo aveva fulminato con lo sguardo, per le attenzioni che ancora le strappava. Pochi giorni dopo Nikolaos era partito per l’addestramento e soltanto anni più tardi, quando era rientrato a casa, ottenuta l’investitura, aveva appreso che Teria era scomparsa, e né lui né i suoi genitori avevano avuto più sue notizie.

Al ricordo della sorella, che ogni tanto tornava a turbare i suoi pensieri, Phantom si agitò, ansimando sul letto delle stanze di Asclepio, mentre l’immagine di lei pareva fissarlo con sguardo severo, quasi volesse imputargli le colpe della sua mancata felicità. Phantom cercò di gridare qualcosa, di dirle che aveva tentato di volerle bene, di accettarla come una sorella, ma lei non glielo aveva mai permesso. Né sembrò intenzionata a farlo quella volta, puntando l’indice contro di lui e condannandolo a una vita di infelicità. La stessa che aveva vissuto lei.

Phantom si svegliò di scatto, tirandosi su e respirando agitatamente. Tirò un’occhiata veloce alla stanza e vide che tutte le ancelle se ne erano andate. Tutte tranne una.

"Ti sei svegliato? Credevo tu volessi riposare, Cavaliere!" –Commentò una ragazza con voce melodica, allontanandosi dalla vetrata e avvicinandosi al letto.

"Quanto ho dormito?!" –Balbettò Phantom, quasi impaurito all’idea di chiudere nuovamente gli occhi.

"Non abbastanza!" –Rispose lei, ancora con voce incantevole, sfiorandogli il volto e sollevandolo, in modo che lui potesse guardarla negli occhi.

Erano piccoli, erano spenti, ma sembravano attrarlo come niente prima di allora aveva fatto. Né il desiderio di servire Zeus, dimostrandogli di non aver sbagliato a sceglierlo tra gli uomini mortali, né il sentimento che provava per Castalia. Era qualcosa di nuovo, e al tempo stesso di antico, che lo aveva adescato, quasi intrappolato in un mondo di favole, e da cui non riusciva a liberarsi.

La donna sorrise, chiudendo gli occhi del Luogotenente dell’Olimpo con un leggero gesto della mano e osservandolo crollare nuovamente nella prigionia in cui l’aveva confinato, cullato da una melodia di fate e di sirene. Di colpo, il suo volto bello ed eterno si trasformò, divenendo un muso di bestia, e i suoi occhi avvamparono, gridando rabbia e vendetta. Si chinò sul corpo del giovane, odorandone la pelle, e scoppiò in una risata isterica, prima di affondare i denti nel suo braccio sinistro.

Proprio in quel momento Phantom cacciò un grido, con gli ultimi barlumi di coscienza che gli erano rimasti, e riconobbe Teria intenta a succhiare via il suo sangue, e con esso la sua vita. Trasfigurata, rovinata dal tempo e nell’aspetto, di sua sorella non aveva più niente ormai. Adesso era Lamia, l’ultimo dei sette Capitani dell’Ombra, la rapitrice di sogni e di bambini. Flegias le aveva donato una nuova vita, affidandole il supremo incarico di strappar via i sogni dell’infanzia, prosciugando i corpi degli uomini della loro stessa linfa vitale.

"Il Maestro di Ombre sarà fiero di me!" –Commentò Lamia, divorando il corpo del fratello che non aveva mai amato.

Di Lamia, Flegias era sempre rimasto contento. Nonostante fosse una donna, l’unica tra le fila dei Capitani dell’Ombra, non temeva niente e nessuno, audace come un uomo e sempre disposta a servire la sua causa. Non aveva esitato, una volta, a colpire Orochi con un calcio secco tra le gambe, dopo che il gigante si era abbandonato a qualche commento sulle sue forme.

Ma in quel momento Flegias non pensava affatto a lodare Lamia, gridando arrabbiato come non lo era da tempo. Fissava Iemisch e Sakis, in ginocchio ai piedi del trono, nella caverna dell’Isola delle Ombre, con due occhi fiammeggianti di ira e di sangue, chiedendosi se fossero davvero due guerrieri al suo servizio o un maledetto scherzo del destino.

"Idioti!!!" –Strillò, scaraventando entrambi contro una parete rocciosa, avvolgendoli in un vortice di fiamme e tenebra. –"Siete due incapaci, la vergogna dell’Esercito delle Ombre!"

"Ma… Maestro di Ombre!" –Rantolò Iemisch, la Tigre Nera, cercando di rialzarsi, mentre le fiamme vorticavano attorno al suo corpo, insinuandosi tra le crepe della sua corazza, sporca di guerra e di vergogna. –"Ci lasci spiegare!"

"Che cosa vuoi spiegare, Iemisch? Il motivo per cui non avete ucciso il Cavaliere di Virgo quando ne avevate la possibilità, lasciando invece che tornasse a nuova vita? O il motivo per cui hai condotto tre Cavalieri Neri alla morte, senza portarmi alcun trofeo di vittoria, soltanto il debole corpo di quell’infima ragazzina?!" –Gridò Flegias, fiammeggiando di rancore. –"Sei un fallimento, su tutta la linea!" –Sentenziò infine, placando l’assalto infuocato e liberando Iemisch e Sakis dalla stretta morsa.

Quelle parole ferirono Iemisch più di quanto le fiamme, o lo scontro con Andromeda, avessero fatto fino ad allora. Un fallimento, ecco cos’era. Nient’altro che uno sconfitto. Anziché tornare da vincitore, sorreggendo le teste dei suoi trofei, e ricevere quell’accoglienza trionfale che aveva tanto sognato, era finito nel fango. E da lì, ne era certo, non si sarebbe più rialzato. Almeno per Flegias. Qualunque desiderio di affermazione, qualunque volontà di emergere, era stato stroncato per sempre.

"Non sarai mai il Comandante dei Capitani dell’Ombra!" –Affermò infine Flegias, mentre Iemisch e Sakis si rimettevano in piedi. –"Non potrei affidare le mie truppe ad un inconcludente!"

Orochi, il grande Drago Nero, uscì dall’ombra in quel momento, calpestando il suolo con i suoi tozzi piedi e rivelando il ghigno di soddisfazione che aveva mascherato fino a quel momento, nel vedere Iemisch piegato ai piedi del Maestro di Ombre. Con tutte le sue inutili ambizioni.

"Ci sono errori che, una volta commessi, non possono più essere perdonati!" –Sentenziò Flegias, facendo infine cenno a Iemisch e a Sakis di ritirarsi.

Il Capitano dell’Ombra e l’Esploratore Oscuro si incamminarono verso l’uscita della sala, deboli e malconci, ma Iemisch trovò comunque la forza di procedere a testa alta, senza degnare neppure di uno sguardo il Comandante Orochi, che continuava ad osservarlo con aria di superbia, certo che quel gesto aveva segnato la fine della loro guerra interna per il potere.

"Ben fatto, mio Signore! Ordine e disciplina sono quanto mai necessari in un esercito!" –Esclamò Orochi, non appena Iemisch e Sakis erano usciti.

"Da quando passi il tempo libero a coniare massime e aforismi?" –Brontolò Flegias, rimettendosi a sedere sul trono e zittendo il suo Comandante. –"Occupati piuttosto di coordinare l’Esercito e verificare la produzione di armi da parte degli schiavi!"

"Tutto è già in funzione, mio Signore! La macchina bellica del Maestro di Ombre funziona a pieno regime!" –Rispose Orochi, chinando il capo in segno di sottomissione. –"Pur tuttavia, mi duole informarvi che i miei sospetti su Siderius avevano ben ragione di esistere! Non ho sue notizie da qualche ora e non so dove possa essere! Considerando la sua avventatezza, non mi sorprenderebbe sapere che si è abbandonato a qualche azione individuale!"

"Siderius?!" –Sgranò gli occhi Flegias. –"Dove diavolo può essere finito?" –Si chiese, strusciandosi il mento, prima che un’intuizione lo illuminasse, rilassando il volto in un ghigno perfido. –"Mi auguro soltanto che le sue azioni non autorizzate portino qualche successo! Pare che ultimamente deludermi sia l’aspirazione massima di voi Capitani dell’Ombra! Ah ah ah!"

La risata sinistra di Flegias risuonò per l’intero sotterraneo scavato sotto l’Isola delle Ombre, raggiungendo Iemisch e Sakis, intenti a medicare le loro ferite in una sala poco distante. Dario del Fiume Tigri era sceso nell’armeria, per cercare qualche pezzo di ricambio per la sua corazza, e Tirtha era stata resa inoffensiva, pronta per essere usata contro gli stessi difensori di Atena.

"Non sopporto come sono andate le cose, Sakis!" –Brontolò Iemisch, con voce piena di rabbia. –"Avevamo la vittoria in pugno!"

"Non agitarti, Iemisch! Gli imprevisti possono capitare anche nelle battaglie meglio strutturate!" –Esclamò Sakis del Quadrante Oscuro, il migliore degli allievi della Tigre Nera. –"Anche se, bisogna ammettere, la colpa principale è nostra! Siamo stati troppo buoni con i Cavalieri di Atena! È tempo che il senso dell’onore venga calpestato e che sangue sia sparso, per vendicare l’onta da noi subita!"

"Te ne occuperai tu? Io ho le mani legate, e Flegias non autorizzerà mai una mia nuova uscita dall’Isola!" –Mormorò Iemisch. –"Maledizione! La Tigre è in gabbia!"

"Lascia fare a me! Sarà un’azione rapida e indolore, con cui dimostreremo di saper giocare sporco! Molto sporco!" –Sorrise Sakis, espandendo il proprio cosmo.

"Confido in te!" –Esclamò Iemisch, mentre il corpo dell’Esploratore Oscuro veniva avvolto da un quadrato di luce nera, dentro il quale scomparve all’istante.

Sakis riapparve poco dopo sulla riva scoscesa di un’isola nell’Oceano Indiano, all’altezza dell’Equatore, incamminandosi verso l’interno. I passi attutiti dallo scrosciare del mare sugli scogli poco distanti. Non dovette impiegare molto tempo per localizzare la sua vittima, l’unica abitante di quell’isterilita landa.

Nemes del Camaleonte uscì dall’abitazione di pietra in quel momento, indossando soltanto la cotta di rame e bronzo degli addestramenti. Non aveva alcuna maschera sul volto, così Sakis poté ammirare la paura impadronirsi di lei quando si avvide del Cavaliere nero.

"Chi sei?!" –Esclamò Nemes, cercando di riprendersi dalla sorpresa.

Sakis sogghignò, ripensando al primo incontro con il Cavaliere di Andromeda, nella torre sopra il sacrario centrale di Angkor, e al senso dell’onore che aveva dimostrato.

"Proprio per rispetto a quel senso, adesso sono qua!" –Esclamò divertito, sollevando l’indice destro, su cui concentrò il cosmo.

Nemes fece per lanciarsi verso l’interno dell’abitazione, per afferrare la frusta che usava in combattimento, ma fece soltanto due passi e si trovò paralizzata con una gamba alzata, bloccata in una posizione innaturale da un semplice disegno che Sakis aveva realizzato in aria. Il sigillo del tatto aveva intrappolato Nemes.