CAPITOLO XXI
L’aria della sera era piuttosto fredda nonostante non spirasse un vento né particolarmente gelido né particolarmente forte, il cielo era limpido e punteggiato di stelle ed il solo suono ad interrompere quel bucolico dipinto era il grugnire di qualcuno degli animali rinchiusi all’interno della stalla. Alla magione del vecchio Akepsimas regnava sovrana la tranquillità.
Quest’ultimo stava già riposando russando sonoramente da alcune ore nel proprio letto così come la moglie Iphigenia che, anche se ormai abituata da anni al beato ronfare del marito, non lesinava di rifilargli qualche spintone per cercare di farlo spostare su un fianco. Nella stanza immediatamente adiacente anche la nuora Eleni era coricata; al contrario Kallistratos era il solo a non aver ancora preso sonno perseverando ad osservare il soffitto in travi di legno in attesa che la madre non desse più segnali inerenti il suo non essere completamente addormentata. Il ragazzino aveva, non potendo più seguire come un’ombra per tutta la giornata l’amico Patros ormai partito da mesi, occupato il pomeriggio ad intagliare con un coltellino un pezzetto di legno cercando di ricavarne una statuina di Zeus da donare a Daphne per la quale, ormai l’aveva capito, provava un amore tanto infantile quanto platonico.
Dopo una mezz’ora buona, il respiro profondo e regolare di Eleni gli confermò che sua madre era definitivamente sprofondata nel mondo sei sogni. Sgattaiolando silenziosamente fuori dal proprio giaciglio, ebbe grande cura di non produrre nemmeno un piccolo suono anche se, quasi sull’uscio della stanza, un’asse del pavimento lo tradì scricchiolando sotto al suo piede. Kallistratos si voltò quasi in apnea e con il cuore che gli pareva gli si fosse improvvisamente spostato sotto la lingua. Per sua fortuna la madre non si mosse di una virgola. Accelerando poi il passo arrivò sino alla porta d’ingresso della fattoria che aprì avendo maniacalmente cura che la pressione prima esercitata sulla maniglia e poi sui cardini non producesse altri cigolii inaspettati. Ormai fuori di casa gettò un’ultima volta lo sguardo verso l’interno: tutto sembrava al posto giusto, non si udiva nulla se non qualche rantolo nasale del nonno. Kallistratos trattene a stento una risata che gli si strozzò in gola.
Una volta spostatosi al centro dell’aia la brezza lo raggiunse facendogli provare un brivido che, arrampicandosi sulla schiena, gli raggiunse la base del collo e gli fece rimpiangere di non aver progettato di portare con sé anche qualcosa con cui coprirsi.
Come all’interno della magione, anche in esterna tutto pareva calmo ed addormentato così che a Kallistratos la realizzazione del suo piano parve ormai veramente a portata di mano; questo progetto architettato quasi in ogni minimo dettaglio non prevedeva in verità nulla di più se non uscire di casa notte tempo e senza permesso, introdursi furtivamente nella baracca di Daphne e di, senza farsi scoprire, lasciarle la sua piccola scultura accanto al letto in modo che potesse essere trovata dalla sua amata non appena avesse aperto gli occhi il mattino seguente.
La sola cosa che il piccolo non aveva potuto prevedere, oltre naturalmente al freddo delle ore notturne, era che, nonostante l’apparente immobilità che dava l’idea di regnare per tutta la vallata, egli non fosse stato quel giorno il solo ad aver puntato sull’oscurità per tener celata la propria presenza.
Non molto distante infatti dall’aia che Kallistratos stava attraversando in punta di piedi, lo spettro Veronica di Druj Nasu della Stella del Cielo Indagatore era accovacciato tra i cespugli intento ad osservare con attenzione l’evolversi degli eventi.
L’incarico che quest’ultimo aveva ricevuto dal sommo Aiacos era tanto delicato quanto segreto ma soprattutto, come a detta del suo generale, di vitale importanza; il giudice infernale gli aveva consegnato senza dare troppe spiegazioni un piccolo scrigno di legno nero che doveva rimanere sigillato sino al momento in cui il suo sottoposto avrebbe raggiunto in gran segreto la casa dove la Dea Athena viveva sotto le mentite spoglie della giovane Daphne.
Kallistratos fece la sua comparsa tra le ombre della notte proprio nel momento in cui Veronica, tenendo tra le mani ciò che gli era stato affidato, si stava preparando ad agire; l’ingresso in scena del piccolo, se in un primo momento sembrò un inatteso imprevisto, si dimostrò di lì a poco una ghiotta occasione da cogliere al volo. Quest’ultimo infatti andò diritto verso la capanna dove l’obbiettivo dello spettro stava sicuramente riposando, attraversò l’aia ed il portico, aprì la porta in legno consumato lasciandola semi aperta e sparì all’interno della baracca.
Veronica non indugiò nemmeno per un solo istante ed aprì il misterioso scrigno. Da esso ne uscì un piccolo scorpione dal carapace incredibilmente lucido e completamente nero eccezion fatta per una minuscola porzione del dorso dove si trovava una macchia bianca i cui contorni tanto ricordavano il disegno di un teschio umano.
L’insetto, quasi come se fosse stato ammaestrato o se seguisse l’invisibile richiamo del cosmo della Dea, fece capolino dallo scrigno e si diresse deciso verso la meta attraverso i fili d’erba e le radici degli arbusti.
In pochi istanti Veronica perse il contatto visivo con l’emissario di Aiacos o di chissà chi per lui ma sapeva senza margine d’errore che lo scorpione avrebbe raggiunto la Dea Athena. Non restava che attendere l’evolversi degli eventi.
All’interno della casupola Kallistratos si era sincerato che Daphne dormisse profondamente nel suo giaciglio e, con il solo aiuto della pallida luce lunare che filtrava dalla finestra, stava decidendo il miglior punto dove appoggiare con cura la statuina la cui produzione lo aveva tanto impegnato quello stesso pomeriggio. Dopo un lungo cogitare, decise infine di scegliere la mensola attaccata alla parete tramite due staffe in ferro fatte dall’amico Patros e sulla quale Daphne era solita riporre una fiasca d’acqua fresca ed i propri pochi oggetti per la toeletta mattutina. Così facendo Kallistratos si disse sicuro che la sua amata avrebbe potuto vedere il dono solo pochi istanti dopo aver aperto gli occhi l’indomani. Soddisfatto si allontanò silenziosamente ed in punta di piedi così come era giunto sin lì; quasi sull’uscio e con già la maniglia della porta tra le mani, rivolse un ultimo sguardo a Daphne che, avvolta in una candida coperta di lana bianca, gli parve un angelo soavemente addormentato. Fu probabilmente il contrasto con quel biancore a fargli scorgere la sagoma di qualcosa di minuscolo ed insolito vicino al piede nudo della ragazza che sporgeva al di fuori del bordo della coperta. In un battito di ciglia Kallistratos mise a fuoco l’immane pericolo che stava per colpire l’oggetto delle sue attenzioni giovanili ed agì d’stinto; con un balzo si protese verso lo scorpione che stava per colpire con il proprio venefico aculeo tentando di scacciarlo con un secco gesto della mano; il messo di Veronica aveva però ormai sferrato il proprio affondo e così l’eroico gesto di Kallistratos impedì che il delicato piede di Daphne venisse trafitto ma non poté evitare di ricevere a sua volta la mortale puntura dell’insetto.
La Dea Athena si svegliò di soprassalto al suono di un grido di immane dolore ed incredula si trovò davanti il suo piccolo amico che si contorceva sul pavimento tenendosi stretta la mano destra con la sinistra. Strappata così improvvisamente ai suoi sogni, non comprese immediatamente che cosa stava realmente accadendo. Cosa faceva Kallistratos nel cuore della notte nella sua capanna? Perché il piccolo si stava disperando dal dolore? Chi o che cosa glielo aveva procurato? Che cosa poteva fare lei ora per aiutarlo?
Athena si chinò presa dal panico sul Kallistratos che aveva preso a tremare colto da convulsioni; dalla sua bocca stava iniziando a fuoriuscire della schiuma biancastra e la luce della coscienza si stava celermente spegnendo dentro all’iride dei suoi dolci occhi azzurri. Terrorizzata non sapeva che fare se non chiedere l’aiuto della madre e dei nonni. Era quasi in procinto di sollevare dal pavimento Kallistratos per correre con lui verso la magione quando notò una puntura di un rosso vivace sulla piccola mano ora gonfia e deformata.
Athena voltò di scatto il capo cercando con lo sguardo un indizio all’interno della stanza buia. Trascorsero soli pochi istanti prima che la Dea della giustizia trovasse il colpevole: un piccolo scorpione nero con una sinistra macchia biancastra sul dorso la osservava dalla base del letto con le chele ed il pungiglione tesi e pronti a sferrare un nuovo attacco. Athena richiamò a sé una minima parte del proprio cosmo divino che convogliò in una folgore devastante con la quale investì l’insetto velenoso che si dissolse in cenere in meno di un battito di ciglia.
Dall’esterno Veronica osservò balenare una luce accecante attraverso la finestrella e le fessure della porta d’ingresso della casa cui fece immediatamente seguito l’uscita repentina di una giovane dai capelli neri e dalla pelle straordinariamente candida tenente stretto tra le braccia quello stesso bambino avvistato soli pochi minuti prima. Ella gridava a gran voce i nomi delle persone che probabilmente si trovavano all’interno dell’edificio più grande.
Lo spettro intuì che qualcosa doveva non essere andato per il verso giusto e che ciò, contrariamente a quanto gli era stato ordinato, lo avrebbe costretto ad intervenire in prima persona. Inoltre era oltremodo evidente come quella ragazza non fosse altri se non la Dea Athena in persona ovvero la vittima designata del suo bieco attentato.
Le grida d’aiuto di Daphne fecero svegliare ed alzare di gran carriera i nonni e la madre del piccolo. Eleni, non vedendo il figlio nel letto di fianco al proprio, ebbe come un tonfo al cuore che gli diede la sensazione di saltargli su per l’esofago, Iphigenia si destò e si catapultò giù dal letto come un soldato chiamato a mettersi sull’attenti dal proprio generale mentre il vecchio Akepsimas, che stava russando sonoramente, non si rese conto di quanto stava accadendo fino a quando la moglie lo strattonò così forte da farlo svegliare imprecando.
Eleni fu la prima ad uscire di casa e, vedendo il figlio privo di sensi tra le braccia dell’amica, scoppiò in lacrime temendo il peggio; immediatamente andò in contro a Daphne irrazionalmente divisa tra il sentimento materno che l’avrebbe spinta a dare la vita per il proprio bambino ed il sentimento di chi forse preferirebbe non sapere. Quando ormai prossima a Kallistratos lo vide con gli occhi rivoltati all’indietro e la bava alla bocca, sentì le gambe abbandonarla ed una pressione in mezzo al petto che parve stritolarle il cuore ed arrestarle il respiro.
Ciò che seguì fu tanto repentino quanto incomprensibile per la maggior parte degli abitanti della magione di Akepsimas.
Quest’ultimo varcò la soglia di casa quando anche la moglie aveva già raggiunto la nuora ed il nipote ancora stretto tra le braccia della loro inquilina. Vedendo che a sole poche decine di passi dal gruppo di donne vi era una quarta persona nascosta nell’ombra, il vecchio imbracciò la prima cosa che trovò a portata di mano e così, agitando il manico di una vecchia pala, corse incontro a quella figura intimandogli di allontanarsi:
- Chi va là? Chi sei? Cosa ci fai qui? Vattene subito o mi costringerai a farti assaggiare il legno della mio badile!
Dalle tenebre non vi fu nessuna risposta verbale ma soltanto un fascio di luce rossastra che pareva essere costituito da tante piccole mosche infuocate; questa esplosione energetica investì in pieno petto il povero Akepsimas che fu sbalzato all’indietro con una violenza tale da fargli sfondare con il corpo uno dei pilastri che sorreggevano la veranda della sua stessa casa. Vedendo il marito volare via come una foglia sbattuta dal vento, Iphigenia si precipitò in soccorso dell’uomo; inginocchiandosi su di lui la donna scoppiò in lacrime: il colpo subito dal suo anziano sposo era stato troppo irruento ed inaspettato, non vi era in lui traccia di respiro e dal naso, dalla bocca, dalle orecchie e persino dagli occhi fuoriuscivano lacrime di rosso sangue; Iphigenia si rese così immediatamente conto che la vita aveva abbandonato di schianto il gentile e docile Akepsimas.
«Maledetto, te la prendi con i vecchi e con i bambini?» disse tra le lacrime la donna che, dopo aver stretto per l’ultima volta la mano del marito, si lanciò a pugni chiusi contro quel demonio che, ancora reso praticamente invisibile dalle tenebre, l’aveva appena resa vedova.
Una seconda onda luminosa balenò dal fondo dell’aia. Iphigenia ne fu investita e la sua sorte non fu differente da quella del marito.
Mentre Eleni, terrorizzata per aver appena visto uccidere senza pietà e nel giro di pochi istanti metà della propria famiglia, non capiva effettivamente in quale incubo si fosse ritrovata; Daphne invece aveva perfettamente inteso ciò che stava accadendo.
Il suo dilemma era ora se perseverare nel mantenere celata la sua vera identità e tentare una fuga con Eleni e Kallistratos o se lasciare che il suo smisurato cosmo divino si manifestasse; questa ultima opzione avrebbe indubbiamente annientato il sicario cui qualche altra divinità olimpica sua pari aveva dato incarico ma, al contempo, l’esplosione improvvisa del suo immane potere avrebbe potuto ferire sia Eleni che Kallistratos che, tra l’altro, pareva già versare in condizioni al limite del disperato.
Daphne non ebbe poi in verità molto tempo per prendere una decisione; Veronica infatti uscì finalmente dall’ombra lasciandosi illuminare dalla luna.
Quest’ultimo era un uomo molto alto e magro con lunghi e mossi capelli biondi. I lineamenti, così come il portamento, erano fini ed eleganti da risultare quasi femminili; l’incarnato era così chiaro che le labbra, carnose e ben disegnate, erano di un colore viola pallido così come l’iride degli occhi dal taglio sofisticato e vagamente orientale. Quest’uomo, che con voce soave si presentò con il nome di Veronica di Druj Nasu della Stella del Cielo Indagatore, indossava un’armatura nera che, pur nella sua longilinea forma, richiamava le linee di un’orrida mosca infernale; infatti su tutta la superficie metallica della corazza vi erano spuntoni acuminati a simulare i peli di questo insetto così come la spalla sinistra era adornata con due semisfere rosse che in tutto e per tutto ricordavano i vitrei e riflettenti bulbi oculari del ronzante volatile. L’armatura si estendeva su tutti gli arti culminando sulle mani con dei guanti dai polpastrelli appuntiti e sui piedi con dei drappi viola con striature gialle che, come le ali venate del dittero, si diramavano come una gonna sulle gambe.
Veronica avanzò in direzione delle sue vittime di qualche passo, poi rivolse un epitaffio alle due ragazze e a ciò che rimaneva dell’anima di Kallistratos:
- Uccidere i due vecchi non era in programma così come non lo è eliminare anche il bambino e l’altra donna. Avrei dovuto condurre a termine la mia missione senza alzare un solo dito e senza scendere personalmente in prima linea ma, evidentemente, qualcosa non deve essere andato per il verso giusto.
«Parli di quello schifoso scorpione che ho ridotto in cenere? Per tua sfortuna il fato ha voluto che il piccolo Kallistratos venisse raggiunto dal suo veleno al posto mio. In ogni caso mi congratulo con te: un insetto disgustoso come sicario ma, come posso vedere, tu non sei da meno!» ribatté Daphne con un ardire che, anche per un solo istante, rincuorò la giovane Eleni.
«Dea Athena, il metodo è soltanto un mezzo per raggiungere un fine! Non importa quale esso sia ed ora, vi prego di perdonare la fretta con la quale, nonostante la conversazione con la vostra persona possa risultarmi gradita, concludo il nostro breve dibattito. Aimè, mi trovo costretto portare a termine i miei incarichi con un metodo che, come avete potuto notare pocanzi, sarà certamente più cruento e doloroso per tutti rispetto a quello che il mio signore aveva previsto per voi» disse Veronica distendendo in direzione della Dea il braccio destro con il palmo della mano aperto.
Da esso fuoriuscì per la terza volta il mortale sciame di mosche infuocate che, come un’onda ronzante, diresse il proprio battito d’ali verso il gruppo costituito da Eleni e da Daphne la quale ancora teneva tra le braccia il corpicino di Kallistratos.
La Dea Athena strinse forte a se il bimbo e frappose il suo stesso corpo tra Eleni ed il nemico, chiuse gli occhi ed irrigidì i muscoli offrendo il dorso al colpo mortale di Veronica.
Passarono attimi che sembrarono intere ore ma il dolore che la Dea si aspettava di provare di lì a poco non arrivò mai.
Dischiuse gli occhi. Vide che Kallistratos non era più grave di quanto non fosse stato sino a poco fa e che Eleni era ancora sana e salva al suo fianco. Alle sue spalle invece era sorto come per miracolo un muro di luce sul quale l’attacco delle mosche di Veronica si era infranto senza che lo stesso muro desse segnale di un tremore o uno scricchiolo.
Daphne si voltò osservando quasi a bocca aperta la spettacolare luminescenza che veniva emanata da quell’etera struttura architettonica. Ma da dove era emersa? Chi ne era l’autore che, almeno per il momento, aveva salvato loro la vita?
Eleni indicò con il dito un punto poco distante da loro e con un filo di voce ed il groppo alla gola pronunciò il nome del loro salvatore:
- Pa…Patros!!!
Il cavaliere di Athena indossava l’armatura dell’unicorno che, in forma e sostanza, era la stessa con la quale era partito mesi orsono alla volta dello Jamir, ma ora era ammantata di uno scintillio che, sotto al chiarore delle stelle della volta celeste, brillava di una luce propria che le conferiva un aspetto tanto elegante quanto temibile.
Patros si avvicinò alle ragazze con passo calmo. I suoi occhi, pur traboccanti di rabbia, erano bagnati da rivoli di lacrime. Quando fu al cospetto di Daphne si inginocchiò:
- Mia Dea: perdonate il ritardo!
- Dolce Eleni: il mio tardivo intervento non ammette scuse. Permettimi di riparare a ciò che i cari Akepsimas ed Iphigenia ed il piccolo Kallistratos hanno dovuto subire a causa della mia assenza riversando sul loro attentatore la rabbia ed il desiderio di vendetta che provo in questo momento.
Sia Eleni che la Dea Athena annuirono con un cenno del capo.
Patros si rimise in posizione eretta e si asciugò le lacrime dal viso:
- Tenetevi in disparte per cortesia. Non vorrei che lo scontro che sta per avvenire vi coinvolgesse più di quanto non abbia già fatto.
Detto ciò, Patros girò su se stesso; nei suoi occhi non vi erano ora lacrime ma solo una furia cieca che di lì a poco si sarebbe abbattuta senza la stessa pietà che lo spettro aveva dimostrato nei confronti degli abitanti della magione.
Con un lieve tocco della mano Patros dissolse il muro di cristallo che aveva creato in precedenza e si avvicinò a grandi passi verso Veronica.
Quest’ultimo, più indispettito per l’ennesima interruzione che spaventato dalle evidenti intenzioni bellicose dell’avversario, si limitò a chiedere:
- E adesso tu chi saresti? Inizio ad essere stanco di questa situazione; ti consiglio vivamente di tornare da dove sei improvvisamente apparso e, se proprio lo desideri, approfitta della mia impareggiabile benevolenza. Prendi con te il marmocchio e l’altra ragazza, avete la mia parola d’onore che vi sarà fatta salva la vita. In merito ad Athena invece mi dispiace ma non posso rinunciare a lei.
«Onore dici? Quale onore può albergare in un guerriero che colpisce senza pietà anziani, donne e bambini? Mi dispiace per te ma io sono Patros, cavaliere dell’unicorno e servo devoto della Dea della giustizia, preparati a pagare con la vita per i tuoi crimini» disse l’eroe greco.
«Va bene, o cavaliere, non ti sarà data una seconda opportunità. Preparati a morire» disse Veronica digrignando i denti per l’insolenza dimostrata dall’avversario e lanciando contro di esso l’ennesimo attacco.
Lo sciame di mosche si diresse fulmineamente contro Patros che non si mosse di un solo passo e non diede l’idea di voler evitare il colpo. Infatti con un semplice gesto della mano, l’unicorno respinse il fulgore dell’attacco di Veronica. Lo sciame si schiantò contro il palmo della mano destra di Patros riducendosi ad una sorta di gelatina purpurea che il cavaliere lasciò colare al suolo con disgusto dopo averla strizzata all’interno del proprio pugno chiuso.
«E’ già la seconda volta che il tuo attacco si infrange contro la mia difesa. Ora, se me lo concedi, ti mostrerò il vero potere di un uomo che vive e lotta in nome della giustizia» gli urlò in faccia Patros la cui rabbia era giunta al culmine.
Patros alzò il braccio al cielo e lasciò che il suo desiderio di vendetta pervadesse il suo cosmo ardente che in quel preciso momento andò in risonanza con l’armatura raggiungendo quasi il massimo del proprio essere; intorno a lui sembrò che gli astri si staccassero dal cielo e andassero a concentrarsi nel suo pugno:
- Rivoluzione delle stelle!!!
A questo richiamo la massa di energia cosmica che si era concentrata nella mano del cavaliere si scagliò contro Veronica dividendosi in centinaia di comete celesti la cui forza devastante andò a precipitare sul corpo dell’avversario.
Veronica avvertì dapprima il suono sordo della propria armatura che andava in briciole e poi un calore devastante che gli andava tormentando tutto il corpo. L’onda d’urto fu di portata talmente clamorosa che lo spettro andò a schiantarsi a più di dieci metri di distanza dal punto in cui era stato investito dall’attacco di Patros.
Disteso ora a terra e ferito a morte, assaggiò il sapore del proprio sangue che era tanto amaro quanto il gusto della sconfitta che aveva appena patito; il bruciore dovuto alle ustioni che aveva su tutto il corpo era talmente diffuso da risultargli quasi indifferente o forse era l’appropinquarsi della morte a renderlo così indolente?
Patros gli fu addosso prima che potesse esalare l’ultimo respiro:
- Parla maledetto! Chi ti ha inviato ad uccidere la Dea Athena? Devi darmi il nome del tuo mandante.
Veronica rise ironicamente:
- Non avrai mai questa informazione da me anche perché la morte non è la fine di tutto. Se io ora tradissi ora il mio signore, sappi che i patimenti che mi hai appena causato tu sarebbero solo dolci carezze in confronto a ciò che egli mi infliggerebbe di qui all’eternità.
Detto ciò Veronica approfittò di una lieve distrazione di Patros e, con quel poco che restava dei propri guanti dagli artigli acuminati, si recise da solo la carotide abbandonando la sua miserabile vita riverso in un lago del suo stesso sangue.
Patros osservò l’avversario dissolversi in una nube di cenere nera.
Il nemico era sconfitto ed il pericolo scampato ma ora restava da affrontare la situazione legata alle condizioni di salute di Kallistratos.
Il cavaliere si precipitò al suo capezzale dove il piccolo non dava segni di miglioramento e la madre, accarezzando dolcemente il viso del proprio bambino, stava versando fiumi di lacrime di disperazione.
Eleni non aveva ancora realizzato del tutto ciò a cui i suoi occhi mortali avevano appena dovuto assistere: il figlio in stato catatonico, i suoceri uccisi da un misterioso nemico che pareva essere giunto a loro direttamente dalla bocca di Ade, il provvidenziale intervento di un ritrovato Patros che si era dimostrato capace di compiere gesti e di avere un potere molto al di là dell’umano e dell’immaginabile e soprattutto le ragioni per le quali quel sicario fosse venuto sino alla loro insignificante fattoria per colpire la sua amica Daphne la quale era stata apostrofata più volte con il titolo di Dea e con il nome di Athena.
«Kallistratos, piccolo mio, cosa ti è successo? Cosa posso fare per guarirti?» continuava Eleni a ripetere più a se stessa che al figlio.
Patros si avvicinò levandosi l’elmo:
- Eleni: parte del mio dovere è stato svolto; il nemico è sconfitto ma ora resta da salvare la vita di Kallistratos.
- Daphne: credo che ormai la nostra copertura non abbia più ragione di esistere e che solo tu possa tentare un disperato tentativo di ricondurre il piccolo agli abbracci della madre.
La giovane respirò intensamente, poi fissò i propri occhi in quelli di Eleni e con tutta la dolcezza di cui era capace le svelò il mistero della propria identità e della sfida che lei stessa ed i suoi cavalieri avevano dato corso nei confronti dell’intero Olimpo.
Eleni, nonostante ciò a cui aveva appena assistito suo malgrado, stentava a credere alle parole dell’amica, non trovava un modo con cui ribattere a quanto le era stato appena narrato ma soprattutto Dea e cavalieri non le avrebbero restituito né Akepsimas, né Iphigenia, né Kallistratos.
«Se sei veramente colei che sostieni di essere, perché hai permesso che accadesse tutto ciò?» domandò infine con la voce rotta dal pianto.
Udendo le parole di Eleni, anche le guance della Dea furono rigate da lacrime.
«E’ proprio perché non voglio che queste tragedie accadano che ho deciso di scendere sulla Terra e vivere come una ragazza mortale ed è proprio perché non potevo più tollerare che gli altri Dei miei pari disponessero delle vite degli uomini così liberamente e come se per loro fosse un gioco che ho scelto di mischiarmi a voi e di vivere un’esistenza simile a quella di una donna e non di una Dea idolatrata e temuta dall’umanità intera» affermò la Dea della giustizia con il cuore colmo di tristezza.
«Ora però, o cara Eleni, lascia che io faccia uso in modo benevolo di quella che è la mia natura originale. Purtroppo per Akepsimas e Iphigenia non posso fare più nulla ma ti chiedo di avere comunque fiducia in me e di lasciare Kallistratos alle mie cure» proseguì.
Il primo istinto della madre fu quello di trattenere a sé il proprio piccolo ma in fin dei conti Daphne, o qualunque fosse il suo vero nome, rappresentava ora la sola speranza di riavere ciò che restava della sua famiglia ancora al proprio fianco. Anche se in parte contro voglia, Eleni porse quindi il corpo di Kallistratos alla Dea.
Quest’ultima gli appoggiò la mano sinistra sulla fronte e la destra sul cuore, chiuse gli occhi e trovò la giusta concentrazione lasciando poi che il proprio cosmo scorresse attraverso lei sino a Kallistratos. Nell’intorno della Dea Athena si diffuse un’aurea soffice e pacifica. La stessa Eleni ne avvertì chiaramente l’essenza, Patros invece assaporò nuovamente quella sensazione di pace che già aveva avvertito insieme ai compagni Atthia e Theodote durante quella mattina in cui tutta la vallata sino al frutteto ne era stata impregnata.
Dopo alcuni minuti di trepidante attesa durante i quali il pallore assunto da Kallistratos andò man mano scomparendo restituendogli il suo colorito originale, il bimbo riprese finalmente coscienza e riaprì gli occhi.
Anche se terribilmente scosso, provato e confuso non mancò, nella sua ingenuità, di restituire il sorriso a tutti i presenti:
- Mamma, ti giuro che non uscirò mai più di casa nel cuore della notte! Daphne, hai trovato la statuina di Zeus che ho fatto per te?
Athena gli passò le dita tra i capelli e lo rincuorò:
- Sì caro, l’ho vista ed è bellissima!
Eleni scoppiò in un pianto inarrestabile che, per fortuna, questa volta era di gioia:
- Grazie Daphne, mi hai restituito il mio unico figlio! Non mi importa sapere se tu sia o non sia una Dea ma sappi che, per ciò che mi hai ridato, io ti sarò sempre amica.
Athena ringraziò solo con un cenno del capo; in realtà non desiderava nemmeno essere ringraziata, il miracolo che aveva appena compiuto era per lei niente più dell’aver svolto ciò che riteneva essere il suo dovere.
Kallistratos ruotò lievemente la testa e scorse dietro alle due ragazze la figura del cavaliere:
- Patros? Ci sei anche tu? Che bello!
Dopodiché si sentì talmente spossato da non riuscire a tenere sollevate le palpebre; fu così che il piccolo Kallistratos si addormentò tra le braccia della Dea della giustizia.
Quest’ultima e lo stesso Patros si sentivano sollevati nel vedere la felicità dipinta sul volto di Eleni e nel sapere che avrebbero ancora potuto gioire della presenza di suo figlio. Entrambi però avvertivano che in lui, tanto per la puntura dello scorpione, tanto per il tocco divino della Dea, qualcosa di nuovo ed ancora indefinibile era appena sbocciato nel profondo della sua anima.