CAPITOLO XV
Sulle sommità del monte Olimpo per alcune divinità il tempo scorreva lento e tranquillo come consuetudine.
Nella grande sala centrale del tempio di Dioniso il proprietario di casa aveva indetto, come spesso accadeva, un ricco banchetto al quale erano stati invitati a parteciparvi alcuni suoi pari.
Il cuore dell’edificio era costituito da un’enorme stanza di forma circolare i cui muri perimetrali, così come il soffitto a cupola che era sorretto da imponenti colonne in marmo bianco, erano riccamente affrescati con scene bucoliche di fauni e ninfe impegnati a riversare otri di vino in calici dorati o in intrecci amorosi alquanto espliciti; tutto ciò faceva da cornice alla vera protagonista della sala ovvero la grande e lunga tavola in dura quercia sulla quale erano state messe a disposizione dei commensali ogni sorta di leccornìe: carne di cervo arrostita, faraone, fagiani, quaglie, anatre, lepri ed ogni genere di cacciagione troneggiavano fumanti su letti di ogni specie di ortaggio conosciuto, pesci e crostacei dai carapaci lucenti, conchiglie ed ostriche giacevano su vassoi dorati ricoperti di ghiaccio, frutta in abbondanza tra cui spiccavano acini d’uva maturi e rotondi riempivano ogni spazio, vasi di miele umido e dal profumo inebriante così come delle confetture lambivano altri piatti pieni di un’infinità di diversi formaggi dalle forme golose ed invitanti, vi erano poi pani dolci e salati di ogni genere e dimensione. Il tutto era poi abilmente stato decorato con drappi di tessuto rosso e bianco, piume di struzzo e pavone, pietre preziose e vettovaglie in argento brillante di molte delle quali era addirittura arduo intuirne l’uso. La grande tavola era circondata da una serie di lettighe fabbricate con lo stesso legno e un ammasso di soffici cuscini rivestiti da seta di color porpora dove Dioniso ed i suoi ospiti potevano sollazzarsi, mangiare, bere ed in generale giovare dell’abbondanza del banchetto offerto.
Il Dio del vino, dell’estasi e della liberazione dei sensi era per l’appunto comodamente sdraiato sulla morbida superficie di un gruppo di questi guanciali intento a tracannare coppe di succo d’uva che periodicamente delle giovani ancelle seminude venivano a rabboccare tramite anfore contenenti lo stesso liquido purpureo ed acqua fresca che serviva ad allungarlo. Alla sua destra sedeva su di una lettiga Ares, Dio della guerra, alla sua sinistra invece vi era, il fratello di quest’ultimo ovvero Efesto, Dio del fuoco e della metallurgia.
Dioniso era un uomo rubicondo e ben in carne; la lunga barba, che come i pochi capelli che aveva sopra le orecchie ed intorno alla nuca era di colore nocciola, si adagiava sul ventre rigonfio ed il petto villoso snellendo solo di poco il suo viso dalle rosee gote paffute ed il naso arrossato dal troppo bere. Il suo aspetto allegro e gioviale era ben espresso dagli occhi piccoli ma pungenti e di un azzurro che, come nel caso delle sorelle Athena ed Afrodite, era tanto profondo quanto brillante. Vestiva con un’ampia tunica verde scuro con le estremità ricamate da motivi floreali arancioni e gialli. Per l’occasione speciale di quella giornata portava sul capo una piccola corona di rametti d’ulivo intrecciati a sottolineare di tra tutti i presenti fosse il Re del banchetto.
Efesto invece era alto e robusto. I pettorali lisci e scolpiti, le braccia immense e dal tono muscolare talmente sviluppato da mettere in evidenza addirittura le vene ed i nervi dimostravano come questa divinità amasse in prima persona dedicarsi al lavoro manuale e alla fatica fisica necessaria a forgiare armi ed armature della cui produzione e fattura andava particolarmente fiero. Contrariamente a Dioniso, la barba e la folta capigliatura di colore rosso non nascondevano i suoi brutti lineamenti; lo sguardo torvo ed il folto monociglio, così come il naso largo e squadrato e le labbra carnose ma non eleganti, gli conferivano un aspetto piuttosto severo anche se, in realtà, il Dio del fuoco era un uomo socievole e dallo spirito affabile. Le vesti che utilizzava abitualmente accentuavano oltremodo quest’errata idea che ci si poteva fare della sua persona: non indossava quasi mai tuniche eleganti come erano soliti fare gli altri olimpici ma, al contrario, prediligeva un abbigliamento comodo, spesso in pelle scura, e molto più pratico allo svolgimento dei suoi affari.
Infine Ares, che se ne stava seduto taciturno pizzicando senza troppo interesse un grappolo d’uva, era indubbiamente il più bello dei tre presenti. Per certi versi poteva vagamente ricordare il fratello soprattutto nella statura e nella forma fisica anche se, in generale, le sue forme erano molto più equilibrate e raffinate. Lo sguardo scuro ed intenso era ben accompagnato da un naso fine e diritto che nulla aveva a che vedere con quello di Efesto, le labbra rosse e polpose erano perfettamente disegnate al centro del viso, la barba ed i baffi che, come i capelli portati cortissimi, erano neri e perfettamente curati grazie ad una rasatura meticolosa e geometrica. L’abito indossato dal Dio della guerra era una tunica bianca di seta ricamata con greche blu e dorate; essa gli era stretta in vita da un cinturone in cuoio con una fibbia in oro e avorio al quale, se il padrone di casa non ne avesse esatto l’abbandono come regola per poter prendere parte al banchetto, sarebbe stata ancora saldamente fissata la propria affilatissima daga. Ares teneva fede in tutto e per tutto al suo nome ed al suo rango: l’aspetto nobile ed intransigente intrinseco nella sua persona gli conferiva quella nobiltà e quel rispetto che l’esercito di Sparta avrebbe riconosciuto al proprio generale in occasione di una parata militare successiva ad una grande ed importante vittoria in battaglia.
Pulendosi volgarmente la bocca con il dorso della mano ed innalzando con entusiasmo la propria coppa al cielo, Dioniso si rivolse a colui che, intento ad addentare una coscia d’anatra, sedeva alla sua sinistra:
- Efesto, amico mio, noto con piacere che almeno tu onori il mio banchetto, brinda con me alla nostra salute.
Quest’ultimo rispose alla richiesta del Dio del vino facendo tintinnare il proprio calice con quello di Efesto e tracannandone il contenuto in un sol colpo. Dopodiché prese le difese o almeno tentò di sopperire ai silenzi del fratello affermando che se Ares oggi non era particolarmente loquace forse dipendeva dal fatto che era stato obbligato a separarsi dalla propria spada della quale detestava privarsi quasi come se essa fosse una figlia.
Udendo le parole del Dio del fuoco, Efesto scoppiò in una sonora risata che riecheggiò per tutta la sala proseguendo poi nell’affermare con ironia:
- Ma come? Questo muso lungo per un pezzo di acciaio. Gli ho anche concesso in via del tutto straordinaria di farsi accompagnare dal proprio Santo che, come un cane da guardia, non lo perde di vista nemmeno per un istante dal fondo della sala, cosa devo fare ancora per regalargli un sorriso?
In effetti, dietro all’ombra di una colonna situata a lato dell’ingresso principale, stazionava un quarto personaggio il cui nome corrispondeva a quello di Andronikos, il fedele ed integerrimo Santo del Dio della guerra. Egli era molto rassomigliante nell’aspetto e soprattutto nella postura al proprio padrone: fisico imponente, capelli e barba corti e neri, occhi scuri e penetranti. In sintesi Andronikos, in disparte ed incompleto silenzio, pareva in tutto e per tutto un efficiente soldato sull’attenti in attesa di ricevere istruzioni dal proprio comandante.
«Credo comunque che i turbamenti che attanagliano la mente di Ares non derivino esclusivamente dalla privazione delle sua arma, ma piuttosto dalle notizie che circolano più o meno ufficialmente in Olimpo in merito agli sviluppi terrestri della sfida che Athena ha lanciato a tutti noi alcuni mesi fa, dico bene Ares?» domandò Efesto guardando di sotto in su e con fare interlocutorio l’altro figlio di Era e Zeus presente al banchetto.
Ares sospirò, distolse lo sguardo dall’acino d’uva che stava facendo brillare tra i polpastrelli delle dita, poi, levando gli occhi, rispose cordialmente al fratello e a Dioniso che, interdetto ma solo vagamente interessato, attendeva di udire quanto il Dio della guerra aveva loro da dire.
«Come è noto, non amo separarmi dalla mia spada ma, così come ha giustamente affermato Efesto, non è questa la preoccupazione che impegna la mia mente e che ha rapito i miei pensieri facendoli fluttuare lontani da questo come sempre splendido convivio al quale sono stato ben lieto di essere stato invitato e per il quale ti ringrazio immensamente, caro Dioniso. Il fatto è che, come ha accennato mio fratello, ho sentito delle voci secondo le quali i cavalieri di Athena stiano ben svolgendo la loro missione. Si dice che i tre fedeli alla Dea della giustizia si siano sparsi per la terra di Grecia e siano riusciti nell’intento di reclutare nuove leve; pare poi che abbiano saputo dar sfoggio del proprio valore in più di un’occasione nonostante le difficoltà incontrate e che, per tanto, non siano poi in fin dei conti uomini da sottovalutare così come ci si sarebbe potuti aspettare» si sbottonò Ares.
«Hai forse dunque paura di Athena e del suo manipolo di mortali, o invincibile sovrano delle battaglie?» sentenziò Dioniso con tono sarcastico volendosi burlare del suo ospite.
«Non scherzare, sciocco!» rispose seccato Ares che non tollerava in alcun modo che chicchessia osasse, anche solo per scherzo, mettere in dubbio il suo coraggio ed il suo valore militare.
Mentre Efesto si limitò ad essere solo testimone del breve scambio di batture tra Dioniso ed Ares, quest’ultimo incalzò il padrone di casa dando seguito alla sua precedente affermazione:
- E’ ovvio che né io né il mio Santo si abbia alcun timore per l’eventuale avvento in Olimpo dei cavalieri di Athena. Nonostante ciò che si dice, vero o falso che sia, il loro destino è già stato scritto: se mai avranno il coraggio e l’ardire di presentarsi alla prova proposta alla nostra giovane sorella da nostro padre Zeus, per loro sarà morte certa. E’ impossibile che possano avere la meglio sui nostri potentissimi Santi poiché è impensabile che in così poco tempo questi semplici uomini possano raggiungere un livello di preparazione e di controllo del loro cosmo, ammesso che ne siano dotati, tali da poter competere con semi Dei del calibro di Abidos, Andronikos o dei vostri Barsabas e Zosimos senza contare i Giudici infernali di Hades o i generali dei mari di Poseidone. Ciò nonostante in verità io mi auguro caldamente che qualcosa accada. In cuor mio vi dico in confidenza che spero che Athena riesca a mettere in piedi un esercito degno di una divinità quale, nonostante le sue scelte inopportune, essa è suo malgrado per nascita e natura.
Dioniso sembrò confuso dalle parole di Ares e la sola cosa che fu in grado di fare fu quella di fare cenno ad un’ancella affinché gli portasse altro vino. Quest’ultima si avvicinò ai commensali porgendo un’anfora ai loro boccali. Dioniso non mancò di approfittare del servizio ricevuto per tastare le natiche della giovane serva, poi, compiaciuto e con la coppa traboccante di nettare rosso, domandò infine ad Dio della guerra:
- Dunque dobbiamo dedurre che tu faccia il tifo per Athena? Il giorno dell’assemblea non mi eri sembrato darle conto come fecero Hades e Afrodite ma nemmeno così palesemente schierato dalla sua parte.
Ares si alzò in piedi all’improvviso e con tono innervosito rispose:
- Ancora non hai capito? Io sono il Dio della guerra! Cosa ci può essere di meglio per me se non una sfida dove guerrieri combattono l’uno contro l’altro per dimostrare il proprio valore? Desidero che i cavalieri di tua sorella si presentino numerosi e preparati all’appuntamento e che quantomeno dimostrino di essere in grado di tenere testa ai nostri Santi in modo da regalarci uno spettacolo e un divertimento senza eguali. Forse tu, tra banchetti e giovani ancelle riesci ancora a trovare dello svago in Olimpo e tu, o Efesto, riesci a sfogarti dedicandoti alla metallurgia, ma io? Come posso dare sfogo ai miei istinti se la pace regna sovrana sia in cielo che in terra? Ho bisogno di azione, ho bisogno di nuove sfide, ho voglia che scorra il sangue e, sinceramente, ringrazio Zeus per averci dato la possibilità di assistere a qualcosa che ci distoglierà dal nostro torpore e dalla nostra accidia. Ti è chiaro ora il mio pensiero Dioniso? Oppure forse il vino che instancabilmente continui a trangugiare ti ha eccessivamente annebbiato la mente?
Il Dio del vino, scuro in viso, applaudì ironicamente alle parole di Ares, Efesto preferì restare in disparte.
«Il vino non annebbia la mia mente ed ora mi è tutto più chiaro. Ciò nonostante il tuo sfogo ha offeso me e il mio banchetto, la tua compagnia qui non è più gradita» rispose Dioniso seccato.
«Suvvia Dioniso, non essere permaloso» intervenne Efesto cercando senza successo di fare da paciere.
Ares infatti lo interruppe bruscamente:
- Tranquillo fratello, se la mia presenza non è più ben accetta, levo immediatamente il disturbo. Non mi stavo comunque divertendo.
Così dicendo il Dio della guerra girò i tacchi e raggiunse a lunghe falcate l’ingresso principale della sala dove Andronikos lo attendeva in silenzio.
Quest’ultimo seguì il proprio padrone non appena il Dio spalancò con furore il portone sfilandogli davanti. Immediatamente Ares si recò nell’anticamera dove un’altra serva più anziana di quelle asserventi alla tavola era rimasta a custodire la spada della quale il Dio della guerra si era dovuto privare in precedenza.
Ares, senza degnare di uno sguardo la donna, afferrò la propria arma e proseguì la sua uscita di scena dal palazzo di Dioniso. Andronikos, dato l’andare sostenuto del suo signore, si affrettò a sua volta a recuperare la propria armatura che, come nel caso della daga, era stata trattenuta prima dell’inizio del convivio.
Se spoglio delle proprie vestigia Andronikos appariva già come un valente soldato, una volta indossata l’armatura, assumeva un aspetto davvero pericoloso.
Il Santo di Ares era ora adorno di una protezione metallica grigia e lucente che gli ricopriva interamente gambe e braccia dove, in corrispondenza di gomiti e ginocchia, vi erano degli spuntoni che evidentemente sarebbero stati estremamente utili in uno scontro corpo a corpo. L’inguine, la vita, dove era legato il fodero della spada, ed il busto erano invece protetti da delle placche metalliche decorate con riccioli e greche dipinte di rosso, l’elmo gli proteggeva l’intero cranio eccezion fatta per la bocca ed il mento, ai lati del copricapo metallico vi erano altri spuntoni mentre sulla sommità delle piume purpuree davano ad Andronikos un tocco di diabolico. I copri spalle infine erano di forma tondeggiante e decorati con gli stessi motivi riconoscibili sulle altre parti dell’armatura; ciò che colpiva era il fatto che mentre sul sinistro era agganciato un bellissimo scudo di forma circolare sul destro vi fossero delle tacche incise sulla superficie metallica che, nella loro imperfezione, stonavano con l’eleganza di tutto il resto dell’equipaggiamento.
Uscendo finalmente dal palazzo, Ares sfogò la propria rabbia ghermendo la propria spada e colpendo una delle colonne del porticato antecedente la casa di Dioniso. Una profonda crepa venò il fusto e, anche se per soli pochi istanti, la vibrazione prodotta dal fendente di Ares diede l’idea che l’intero colonnato stesse per crollare.
Dopo aver recuperato la calma e dopo essere tornato a respirare con ritmo regolare, il Dio della guerra si rivolse al proprio Santo:
- Andronikos, non badare alla mia reazione. Oggi ho perso la consueta pace interiore che dovrebbe essere propria di noi guerrieri. So che tu hai capito e condividi le mie parole così come so che anche tu non puoi tollerare di vivere in quest’ozio sfrontato. Dobbiamo pazientare ancora qualche tempo, poi avrai senz’altro l’occasione di incidere il segno che testimonia la vittoria su di un valoroso avversario sopra alla tua armatura.
Il Santo non rispose ma chinò la testa innanzi al proprio Signore in segno di assenso; nonostante la compostezza della sua riverenza non poté fare a meno di sfiorare con la mano la spalla destra accarezzando quei segni che ogni giorno gli ricordavano le battaglie affrontate e vinte in passato e che desiderava con tutte le forze che aumentassero di numero. Ares aveva perfettamente ragione: che i cavalieri di Athena venissero pure a sfidare gli Dei ed i Santi dell’Olimpo, ad attenderli troveranno dei rivali determinati e vogliosi di ricacciargli senza pietà nel loro stupido effimero ed inutile mondo.