CAPITOLO XI

Dopo la partenza di Atthia e Theodote, Patros e la Dea Athena dovevano trovare un posto sicuro dove attendere il ritorno dei compagni dal loro peregrinare. In questo luogo si sarebbero inoltre dovuti dedicare alla costruzione delle armature necessarie ai futuri cavalieri per affrontare la missione suprema che inesorabilmente incombeva sui loro destini.

I due, dopo qualche tempo passato a girovagare per le campagne, avevano trovato dimora presso la masseria del signor Akepsimas.

Quest’ultimo era un pastore ed un contadino piuttosto anziano ma ancora molto vitale. Aveva un fisico tarchiato che, nonostante l’età avanzata, gli consentiva di lavorare duramente ogni giorno così come aveva fatto per tutto l’arco della sua vita nei campi o nei pascoli. I capelli corti e di colore grigio chiaro facevano da cornice ad un viso rugoso ma pasciuto sul quale difficilmente mancava un sorriso che a volte traspariva anche soltanto attraverso la luce suoi scuri occhi marroni. Con Akepsimas viveva la moglie Iphigenia la quale, mentre il marito si spaccava la schiena coltivando la terra o allevando le bestie, si occupava del buon andamento della fattoria, di cucinare deliziose pietanze e della produzione del formaggio che ottenevano dalla mungitura delle pecore e dell’unica vacca di loro proprietà. Iphigenia, come detto, era una donna molto attiva e, per questa ragione, era evidente come il suo lavoro fosse indispensabile per l’economia dell’intera masseria. Ella era una donna minuta e di poco più giovane del marito, aveva lunghi e lisci capelli del colore dell’argento, un naso sottile ed elegante così come le labbra intorno alle quale il tempo aveva disegnato alcune rughe, gli occhi di un azzurro vivido testimoniavano sempre la sua generosità e la sua bontà d’animo. Con loro vi erano poi la nuora Eleni ed il nipote Kallistratos. Purtroppo Kallodote, il figlio di Akepsimas e Iphigenia nonché rispettivamente marito di Eleni e padre di Kallistratos, era caduto in battaglia in circostanze misteriose difendendo la città di Atene quando prestava servizio nell’esercito della polis come semplice oplita. Eleni era una donna tra i venticinque i trent’anni di bell’aspetto, longilinea e dalle belle forme, occhi verde scuro e capelli biondi; aiutava la suocera in tutte le faccende domestiche ed era teneramente attaccata al figlio che, a suo dire, eccezion fatta per il colore dei capelli, gli ricordava in tutto e per tutto, essendone il ritratto, il defunto sposo. Se Kallistratos assomigliava così tanto al padre del quale conservava un vago ricordo, allora Kallodote doveva essere un uomo dai lineamenti fini e dagli occhi azzurri ed espressivi; la capigliatura invece aveva proprio la medesima doratura di quella della madre. Sul volto di lei, come su quello del giovane Kallistratos che aveva nove anni, era spesso dipinta un’espressione molto triste che i due anziani tentavano sempre di cancellare offrendo tutto l’amore e l’affetto dei quali la guerra e la morte di Kallodote avevano loro privato.

Patros e la Dea si erano presentati alla famiglia di Akepsimas come fratello e sorella. Avevano loro raccontato una storia di fantasia secondo la quale sarebbero stati originari della città di Corinto dalla quale, caduta la loro famiglia in disgrazia, si erano allontanati in cerca di miglior fortuna nella più vivace regione dell’Attica.

Athena aveva naturalmente celato la sua natura divina nonché il suo vero nome che aveva cambiato in quello di Daphne.

Dopo un primo approccio titubante, sia Akepsimas che la moglie si erano resi conto che due braccia forti e giovani quali quelle di Patros ed un aiuto in più all’interno della fattoria avrebbero fatto loro davvero comodo. Non potevano permettersi di dare ai due nuovi abitanti dell’azienda agricola un tributo in denaro per i servigi svolti ma quantomeno sarebbero sempre stati loro garantiti due pasti al giorno ed un tetto sotto il quale riposare. Nello specifico il tetto era quello di una piccola casa in sasso che sorgeva a lato di quella del tutto simile ma molto più grande dove viveva la famiglia di Akepsimas. Entrambe le costruzioni erano di forma piuttosto squadrata e di colore chiaro, le finestre erano piccole ma sempre decorate per mezzo di vasi di fiori che Eleni raccoglieva nei dintorni della proprietà, sul fronte principale vi era un porticato costituito da dei pilastri di legno scuro che sorreggevano un pergolato dove, durante la primavera e l’estate, germogliavano dei rampicanti che liberavano nell’etere un profumo dolce e gradevole. L’aia era spaziosa e ricoperta da della ghiaia chiara e polverosa, sul retro della proprietà, dove stazionava il carretto scalcinato che Iphigenia utilizzava per recarsi al mercato di Atene, vi era infine la stalla dove venivano radunate le pecore e quell’unica vacca che, anche se un po’ magra, pareva tra il gregge rumoroso, una regina troneggiante sui propri sudditi. Sul fondo di essa Patros, dopo aver ricevuto il permesso dall’uomo di casa, aveva allestito un piccolo spazio a lui esclusivamente riservato dove, dopo aver svolto il proprio lavoro quotidiano e quindi in genere notte tempo, aveva ricreato il suo piccolo e personale laboratorio metallurgico che tanto gli ricordava la bottega del padre, fabbro di professione, dove era cresciuto ed aveva imparato i rudimenti di quel mestiere.

Con il trascorrere dell’estate, Athena, nelle vesti della giovane Daphne, era giunta a stringere un sincero legame d’amicizia con Eleni la quale poco a poco aveva preso a confidarsi con lei. La donna non riusciva a dimenticare il ricordo dell’amato marito ed era sempre in ansia per il piccolo ed esuberante Kallistratos al quale anche la stessa Dea si era molto affezionata. Sapeva che i suoceri erano dei gran lavoratori e che mai, fin quando le forze non li avrebbero abbandonati, avrebbero permesso che mancasse loro qualcosa. Ma cosa sarebbe successo dopo la loro morte? Eleni non si riteneva in grado di mandare avanti l’intera attività da sola, non accettava l’idea di accogliere un secondo sposo che sopperisse all’assenza degli anziani e per Kallistratos sognava qualcosa di più che non la umile e dura vita dell’agricoltore. Daphne la rincuorava ogni volta e la esortava a gioire di giorno in giorno per ciò che le era dato, le faceva compagnia nei suoi momenti più tristi, la aiutava instancabilmente nelle faccende domestiche e si dedicava con sommo piacere e divertimento a giocare con Kallistratos per il quale la giovane aveva assunto il ruolo di una sorta di sorella maggiore.

Patros invece si alzava ogni giorno con il sorgere del sole e si recava nella stalla a mungere la vacca insieme ad Akepsimas, dopodiché, mentre il vecchio portava le pecore al pascolo, si occupava di arare la terra o di raccogliere i frutti donati da essa; nel tardo pomeriggio o dava da mangiare agli animali o si occupava della manutenzione della magione svolgendo piccoli lavoretti quali la riparazione di qualche asse di legno della stalla, l’assestamento dei cardini di qualche porta o finestra, la sostituzione di qualche tegolo del tetto o simili.

Giunta la sera, consumava stremato il pasto, sempre squisito, che Iphigenia gli preparava e faceva due chiacchere con il piccolo Kallistratos che, curioso, era solito ronzargli attorno così come un’ape fa col miele. Patros lo coinvolgeva con storie di Dei e di eroi che il bambino ascoltava estasiato e con attenzione. Il cavaliere era un ottimo narratore di fiabe al punto che, certe volte, Kallistratos si addormentava ascoltando i suoi racconti; Patros allora lo prendeva in braccio e lo portava dentro l’edificio principale dove la madre ed i nonni avrebbero vegliato sul suo candido sonno.

La più parte delle volte anche Patros avrebbe voluto coricarsi ma il suo dovere non poteva essere trasceso. Si recava quindi sul fondo della stalla e lavorava con martello ed incudine per alcune ore sino a quando non avvertiva che anche l’ultimo baluardo di forze presenti all’interno del suo corpo lo stava per abbandonare. A quel punto tornava alla sua piccola dimora dove la Dea Athena giaceva addormentava, ne contemplava la bellezza, poi ripensava ai compagni Atthia e Theodote e alla missione che stavano intraprendendo; avrebbe dato qualsiasi cosa per essere al loro fianco ma, per il momento, gli erano stati assegnati altri incarichi. Un ultimo sguardo al cielo stellato che si intravedeva al di fuori della finestra e poi si lasciava sopraffare dal sonno in attesa del sorgere del prossimo sole.

In una di queste serate, Patros trovò la Dea Athena ancora sveglia ad attenderlo sull’uscio della casa.

«Povero il mio caro Patros, sei a pezzi. Guardati: sei un bagno di sudore e sei tutto sporco di polvere di ferro» gli disse la ragazza accarezzandogli teneramente il viso.

«Non preoccupatevi per me, mia Dea. Svolgo i miei impegni con piacere anche se mi costa molta fatica. So che ciò che sto facendo sarà utile alla nostra causa e che farà felici i miei compagni quando finalmente saranno nuovamente qui con noi» rispose Patros passandosi il dorso della mano sulla fronte per asciugarsi almeno un poco.

Athena però lo incalzò:

- Ti capisco perfettamente. Anche a me mancano moltissimo i nostri amici ma possiamo solo avere fiducia in loro e attenderli con fiducia.

Patros annuì dimessamente in segno di assenso per poi andare un attimo a riposare le propria membra sotto il piccolo porticato. Solo in quel momento si rese conto che una fresca brezza notturna si stava alzando dando loro finalmente tregua dopo il caldo torrido patito per tutta quella giornata di piena estate.

«C’è un’altra cosa che mi turba oltre l’attesa» disse all’improvviso Patros.

«Che cosa?» ribatté prontamente la Dea.

«Ciò che mi dà preoccupazione è il fatto di lasciarvi troppo spesso da sola. In quanto unico cavaliere restato al vostro fianco, mi sento totalmente responsabile della vostra incolumità. Quando sono a lavorare alla stalla o nei campi non vi sono esattamente affianco ma comunque diciamo che, per ogni eventualità, il mio intervento sarebbe pressoché immediato; ma quando il vecchio Akepsimas mi manda a pascolare le pecore sulle alture o addirittura in quelle rare occasioni in cui mi si chiede di accompagnare Iphigenia con il carro sino al mercato di Atene, io non vi sono più vicino come vorrei e come dovrei. Se in uno di questi frangenti vi succedesse qualcosa non mi sarebbe possibile soccorrervi e la sola idea che vi possa accadere qualcosa di male, e di non essere presente per impedirlo, mi fa impazzire» confessò Patros con una tormentata vena malinconica.

Athena lo guardò intensamente con i suoi grandi occhi azzurri che il quel preciso momento si stavano inumidendo di lacrime di sincera commozione:

- Mio devoto cavaliere, sapevo che il tuo animo era nobile e che il tuo cuore era colmo di amore e devozione nei miei confronti, ma non immaginavo lo fossero sino a tal punto. Vorrei che vivessi le tue giornate più serenamente senza badare eccessivamente a ciò che mi accade. Ti garantisco che qui sulla Terra non corro nemmeno lontanamente i pericoli che correrei stando in Olimpo ed inoltre quella di vivere tra i mortali è stata una mia libera scelta che, più passa il tempo, più sono felice di aver compiuto. E’ per questa ragione che ogni giorno che passo in tua compagnia ed insieme alle gentili persone che ci hanno accolto è per me un dono del quale faccio tesoro e che mi rende incredibilmente felice e serena nonostante io sappia che tutta questa felicità potrebbe non durare ancora a lungo se fallissimo nella missione che ci siamo prefissati. Nonostante ciò e nonostante le parole che ti ho appena rivolto, credo che non riuscirò ad impedire al tuo cuore di restare costantemente in ansia per me. Quindi la sola cosa che posso fare per alleviare i tuoi tormenti è quella di farti, se lo vorrai accettare, un dono.

«Un dono?» domandò stupito il cavaliere.

«Sì, mio dolce Patros. Ciò che vorrei regalarti è un potere che normalmente non si affida ad un essere umano poiché proprio solo delle divinità. Ciò di cui sto parlando è la capacità di spostarsi da un luogo all’altro solo con la forza del pensiero. Questo è un prodigio che dovrai imparare a controllare e a gestire. All’inizio potrai compiere solo piccoli spostamenti ma, con l’esercizio e la concentrazione, diverrai capace di attraversare il mondo intero solo ed esclusivamente grazie al potere della tua mente; inoltre, grazie alla conoscenza e al tuo cosmo che io so essere immenso, potrai giungere ad una padronanza tale da riuscire a spostare insieme a te anche altri individui. Se tutto andrà come mi auguro, infine potrai insegnare questa tecnica a coloro che in futuro avranno la fortuna e l’onore di essere tuoi discepoli. Questo dono è infatti un qualcosa che è possibile trasmettere da uomo a uomo ma solo se, all’origine, una divinità volle rinunciarvi per sempre a vantaggio di un mortale».

Patros, che aveva ascoltato la sua Dea con attenzione, intervenne deciso:

- Athena, io non voglio privarvi di nulla. Non osate rinunciare a qualcosa per me!

La giovane sorrise al suo cavaliere e con estrema calma gli rispose nuovamente:

- Patros, non te ne preoccupare, questa è un’ennesima mia libera scelta. E’ deciso! Ora avvicinati e chiudi gli occhi.

Patros tentò di protestare ma la convinzione con la quale Athena continuava a chiamarlo a sé lo fece desistere. Il cavaliere si mise di fronte alla Dea ed abbassò le palpebre. Lei gli scostò da un lato parte dei lunghi capelli neri che gli scendevano sulla fronte, dopodiché appoggiò l’indice ed il medio della mano destra tra le sopracciglia di Patros. Si concentrò, lasciò che il suo divino cosmo si sprigionasse ed esercitò una lieve pressione con i polpastrelli delle sue fini dita sul cavaliere. Patros si sentì prima avvolgere e poi ammantare da un calore dolce e rassicurante al quale si abbandonò completamente, udì poi la voce di Athena pronunciare ciò che gli sembrò una preghiera in una lingua che non conosceva, infine avvertì un lieve pizzicore nella parte superiore del viso.

Quando riaprì gli occhi, Athena lo stava osservando soddisfatta.

Patros si sfiorò la fronte con la mano ed avvertì un leggero bruciore.

«Non aver paura, passerà nel giro di un paio di giorni» lo confortò la Dea.

Al centro della fronte del cavaliere, appena sopra la linea delle sopracciglia, vi erano, come disegnati, due piccoli cerchi di colore rosso scuro che sarebbero stati, d’ora in avanti, il marchio inconfondibile di colui o coloro in grado di asservirsi di un dono che, all’origine del mito, fu dato in dono da una divinità ad un comune mortale.