XXVII
Il tempio del Leone si accese di luce e due figure furono travolte da bagliori dorati, cadendo riverse mentre il pavimento si copriva del loro sangue. Poco dopo il buio e il silenzio avvolsero nuovamente quei luoghi.
"Minosse, guarda!"
"Cosa sta accadendo là dentro? Non è possibile che qualcuno difenda quel luogo!" esclamò rabbioso Minosse lanciando un’occhiata dubbiosa a Eaco, il cui viso lasciava trasparire uno stupore mai provato prima.
"Penserò io all’intruso!" esclamò Briareo, facendosi avanti. La sua poderosa figura, che sovrastava in altezza quella di tutti gli altri Spettri, avanzò fino all’altezza dei leoni di pietra posti all’ingresso del tempio. Sul suo volto non vi era timore alcuno. Chiunque avesse osato porsi sul suo cammino sarebbe stato spazzato via. "Dove ti nascondi?" ruggì entrando dentro il tempio e facendo rimbombare quegli spazi vuoti.
Una figura dorata si accese nella notte, rivelando le vestigia dell’armatura del Leone. Una voce sottile sibilò nell’aria, mentre un braccio si sollevava e un indice veniva puntato contro di lui. "Dì ai tuoi comandanti che se aspirano a fare di questo luogo la loro tomba non hanno che da avanzare ancora. Si ritirino, finché sono in tempo, e la mia furia li risparmierà."
Briareo replicò sprezzante: "E vorresti fermarli tu, da solo? Povero stolto! La vittoria di Ade, ormai prossima, deve averti tolto il senno. Non temere tuttavia, non dovrai soffrire oltre. Sarò io a spazzare via te e a liberarti del peso della sconfitta di Atena." Sferrò un destro micidiale, tale che l’aria parve sibilare: "Pugno del Titano!"
"Zanne del Leone!"
Un lampo dorato si accese e si spense nelle notte e percorse e colmò la distanza che separava i due contendenti. Due fiotti di sangue schizzarono in aria e il poderoso Briareo crollò con un tonfo sordo, emettendo un gemito e strabuzzando gli occhi.
Eaco e Minosse irruppero nel quinto tempio. Il primo era incredulo, quasi stordito per quanto stava accadendo. "Come puoi essere ancora vivo?"
"Conserva la domanda per te stesso, Eaco. E tu fa lo stesso, Minosse."
Eaco si fece avanti, rabbioso. Il tono della voce del nemico, mellifluo, suonò per lui come un’ulteriore provocazione. "E sia, vorrà dire che terminerò qui quello che ho iniziato. Pisandro, le tue risorse sembrano illimitate così come la tua resistenza. Tuttavia nessuno sfugge ad una seconda morte, vale a dire quella che ti darò ora!"
In tutta risposta giunsero queste enigmatiche parole: "Nessuno sfugge a una seconda morte, che ciò non debba ritorcertisi contro un domani. Sappi però che del pari che nessuno sfugge nemmeno a una seconda vita, anzi ad una vita restituita, quando essa chiama ad alta voce!"
Minosse si irrigidì. Che Pisandro avesse davvero intuito qualcosa riguardo quello che era accaduto negli scontri precedenti? Che davvero avesse carpito il loro segreto?
Eaco si preparò all’affondo: "Minosse, precedimi, penserò io a lui." Aprì le braccia e fece apparire dietro di sé decine di occhi ammaglianti e penetranti, occhi che sembravano poter bucare persino l’anima tanto erano penetranti. "Illusione di Garuda!"
Il cavaliere fu avvolto da un’aura cosmica mentre strane melodie si diffondevano nell’aria e decine di occhi sembravano scovare ogni sua difesa, fosse anche la più remota, indagare ogni suo segreto, giù nel profondo dell’anima, annichilire la sua volontà di combattere. "Ti perderai nell’oblio e allora ti colpirò senza pietà e sarà la fine." Eaco stava già per sferrare il colpo di grazia quando una risata argentina lo lasciò interdetto.
"E questa sarebbe la tua illusione fatale? Davvero poca cosa! Nulla più che un gioco di colori e suoni." disse l’avversario, avanzando ieratico verso di lui.
"Assurdo, l’Illusione di Garuda avrebbe dovuto paralizzare la tua mente e il tuo corpo!"
"Se non avessi già visto il tuo colpo credo sarebbe andata come dici tu."
"Ma tu non lo hai mai veduto!"
"Ho veduto questo ed altro e so come affrontarvi." replicò beffardo.
Così dicendo il guerriero portò le mani alla testa e tolse l’elmo. Capelli rossi ondulati si liberarono cadendo morbidamente sui coprispalle dorati mentre due occhi verdi e luminosi si accendevano finalmente su quel viso delicato e sorridente, dai lineamenti gentili.
"Aletto! Che significa?" trasalì Minosse.
Eaco era del pari stupefatto. "Perché indossi quelle vestigia? Hai dunque tradito?"
"Non chiamarmi più con quel nome che detesto! Maia è il mio nome. Cerca di ricordartelo, Minosse." replicò con decisione.
"E dunque ti riveli per quello che sei." Sentenziò stizzito Minosse "Avevo messo in guardia Radamante riguardo il voler fare di una fanciulla mortale una di noi. Sei ancora troppo legata agli uomini e alle tue origini, è evidente, e infatti ora passi dalla parte del nemico, com’era prevedibile. Pagherai a caro prezzo questa defezione."
"Aspetta, Minosse." intervenne Eaco. "Prima di subire il giusto castigo, dimmi come è possibile che tu indossi le vestigia dorate di un guerriero di Atena. Il tuo cosmo oscuro dovrebbe essere incompatibile con quello dei Cavalieri d’Oro."
Maia si rabbuiò un istante, ma poi la luce dei suoi verdi occhi si posò sull’interlocutore. "Sì, il mio cosmo, o sarebbe meglio dire la mia anima, è appartenuta al buio, all’Ade, per troppo tempo. Tra voi demoni sono cresciuta e il male è cresciuto in me, fino a sopraffarmi. In fasce fui strappata alla mia famiglia. A stento ricordo la luce del sole, visi amici e amorosi attorno a me. Radamente e altri fecero bene il loro mestiere e crebbi con voi, diventando una di voi. Per questo non posso che maledirvi e detestarvi e lo farò finché avrò vita. Ma ora la cortina nera che mi avete gettato addosso, che mi avete posto sulla mente e sul cuore, si sta diradando e sono tornata da dove sono venuta, tra gli uomini che vivono sotto le stelle. E’ stata un’ardua impresa risalire gli abissi del Tartaro in cui voi, maledetti, mi avevate trascinata. Fino a poche ore fa sarebbe stata ardua impresa anche solo il poter pensare di provarci. Devo a Plistene se ora sono di nuovo io. Io, Maia, la bambina che Lycaon rapì una notte di molti anni fa e che portò a Radamante. Sono Maia, figlia di Nisandro, nata per appartenere ad Atena come i miei fratelli Lisandro e Pisandro!"
***
Non si era mai spinto tanto oltre. Mai aveva osato sostare sulle rive sempre affollate di quel fiume livido, tantomeno aveva mai immaginato di navigarlo da vivo. Eppure era quello che stava facendo, seppur controvoglia. La corrente faceva rollare ritmicamente la barca, mentre lui e il suo avversario si studiavano. L’assalto decisivo era imminente. Tutt’attorno silenzio, un silenzio interrotto solo, di tanto in tanto, dai lamenti che giungevano dalla riva, che si faceva sempre più lontana, nascosta da un velo di nebbia. Davvero era possibile tornare dal luogo dove si trovava ora? Aveva compiuto un’analoga impresa tante volte in passato; non temeva l’oscurità, ma ora il dubbio di essersi spinto troppo oltre lo divorava. La fretta era però una cattiva consigliera e lo sapeva. Non doveva forzare i tempi o avrebbe rischiato di esporsi inutilmente contro un nemico che aveva mostrato di possedere solide difese.
Ad Eleusi il fuoco aveva divorato case e campi, il terrore aveva provocato la fuga della maggior parte degli abitanti. Il Santuario dei Misteri era stato risparmiato dal saccheggio per miracolo, anzi sembrava quasi che agli Spettri non interessare proprio colpirlo, quasi ne avessero timore. Appena giunto là, aveva scoperto che la furia del nemico aveva lasciato sul campo numerose vittime. Gli si era stretto il cuore nel riconoscere visi noti tra i caduti. Ma non aveva potuto punire gli autori di quell’infame strage e di quel saccheggio, il grosso della nera armata si era già allontanato. Davanti a lui un solo guerriero, avvolto in un logoro e vecchio mantello, una lunga asta in mano. Un duello serrato, con il Demone avvezzo a stare sulla soglia che aveva difeso la posizione senza cedere di un passo. Avrebbe voluto sbarazzarsene in fretta e rincorrere il grosso dell’esercito, ma l’altro lo aveva incalzato sempre più. Infine, ricorrendo ai loro colpi più raffinati e letali, i due erano precipitati oltre la soglia di Ade e si erano ritrovati, nemmeno lui sapeva come, su quell’imbarcazione.
"Se attendi ancora un po’, potrò sbarcarti sull’altra riva e lasciarti alle zanne di Cerbero, così mi risparmierai di doverti trasportare nuovamente da morto!"
Un’orrida prospettiva, pensò Kyriakos. "Che non sia tu a fare quella fine, Caronte, anche se dubito fortemente che Cerbero si sazierebbe mai di un Demone come te!"
"Non vi è pericolo che accada." disse il traghettatore di ombre brandendo il remo. "Coraggio, non indugiare e fatti avanti, ho molto lavoro in arretrato e molti infelici da traghettare."
Senza scomporsi il cavaliere disse: "Attenderanno."
"Pure i tuoi compagni d’armi?" replicò con un ghigno feroce Caronte. E leggendo il dubbio negli occhi di Kyriakos lo incalzò: "Davvero credevi che nessuno di loro cadesse? Ebbene, alcuni sono già qui, lo sento, e le loro anime inquiete non attendono altro che qualcuno dia loro una sepoltura sulla terra in modo che poi possano finalmente essere trasportati sulla riva interna dell’Acheronte. Ah quanta pena per coloro che sono costretti ad indugiare sulla riva!"
"Taci, maledetto!" sibilò Kyriakos.
"Altri presto li seguiranno." Continuò imperterrito Caronte "Tu però non condividerai la loro sorte, anzi li precederai o scomparendo ora tra i flutti o perché ridotto ad ombra e come tale sbarcato sull’altra riva. Coraggio, usa i tuoi Strati di Spirito!" E si abbandonò ad una risata.
Non doveva pensare ai compagni caduti, alla loro sorte e al loro strazio. Non doveva pensare a dove si trovava e a cosa lo attendeva. Non doveva pensare nemmeno ad un eventuale ritorno. Doveva battere il suo avversario che evidentemente, rimosso temporaneamente dal suo incarico e proiettato in prima fila nel saccheggio di Eleusi, doveva avere un grosso ruolo da giocare in quella Sacra Guerra tra Atena e Ade.
"Che aspetti?"
"Caronte" disse con voce ferma Kyriakos "perché tutta questa fretta di liberarti di me? Ansioso di tornare al tuo solito incarico?"
"Non sono fatti che ti riguardino."
"Devo pensare che il traghettatore dell’Ade abbia un ruolo anche come traghettatore dei Demoni da questo mondo al nostro?"
Seguì un lungo silenzio, poi Caronte si accucciò e spostando il peso di lato provocò un brusco movimento della barca, rischiando di far finire in acqua Kyriakos che però, con eleganza e agilità, riuscì a rimanere ben saldo a bordo.
"Sono andato molto vicino alla verità, vero traghettatore?"
In tutta risposta Caronte attaccò. "Vortice dell’Acheronte!" Un’ondata si riversò addosso al paladino di Atena, ribollendo, e lo trascinò via tra i flutti.
"Hai avuto ciò che meritavi, Kyriakos. Ed è stato persino più facile del previsto…"
In quella però una mano afferrò la murata e in pochi istanti Kyriakos, fradicio, era di nuovo a bordo. "Perdona, ma non è la stagione ideale per un bagno." lo irrise.
Caronte lo colpì con il remo, prima alla testa e poi ai fianchi, provando a gettarlo nuovamente fuori bordo. "Il prossimo vortice non ti risparmierà!"
"Stolto, parli di vortici ma non ne hai mai visto uno degno di essere chiamato tale!" replicò l’altro strappando il remo di mano all’avversario ed ergendosi sulle incerte assi dello scafo. Dopo aver fatto scivolare il remo accanto a sè Kyriakos unì le mani, come in segno di preghiera, e richiamò l’essenza vitale del suo cosmo, che sprigionò una luce tale da diradare la nebbia che indugiava sulle acque livide.
"Cosa speri di fare, folle? Prendi questo. Vortice dell’Acheronte!" urlò Caronte distendendo le braccia.
"Per il Sacro Cancer!" urlò Kyriakos alzando le mani sopra la testa a mostrando i palmi. Fu come se un vuoto si aprisse nella nera volta dell’Ade, come se una tenebra di buia della notte eterna si manifestasse. Le acque stesse dell’Acheronte erano attirate da quel vortice che si era aperto sopra di loro e difatti spruzzi furiosi si stavano levando in alto. Il remo venne risucchiato, così come l’elmo di Caronte. Pure il traghettatore doveva lottare con tutte le sue forze per non esserne attratto e inghiottito.
"Che potere inaudito è mai questo?" urlò sgomento.
"Questa è la Nebulosa di Cancer. Spiacente, per un po’ di tempo sparirai dalla circolazione e Ade dovrà trovare qualcun altro che traghetti le ombre!"
Caronte venne strappato via dalla barca e sparì urlando in quel vuoto minaccioso, che subito si richiuse. Tutto tacque.
Stanco, Kyriakos si accucciò, respirando profondamente. Ora doveva solo cercare di tornare alla riva e da lì al regno dei vivi. E doveva fare presto, una nuova battaglia era imminente.
***
Un cosmo aveva attirato la sua attenzione, accendendosi minaccioso a poca distanza da lui, dove ormai pensava non vi fosse più nessuno. Un cosmo colmo di rabbia e determinazione. E dire che fino a pochi giorni prima, nel Tartaro, era appartenuto a qualcuno a lui sommamente fedele, a un vero flagello delle ombre dannate. D’altro canto, tuttavia, perché stupirsi? Quella era la natura umana, era prevedibile che, a contatto con i suoi simili, essa sarebbe riemersa. Come Radamante pure lui si era illuso ed era questo a dargli sommamente fastidio. Poco male, si disse, la traditrice sarebbe presto stata eliminata e i suoi generali sarebbero giunti al suo cospetto.
Poi sarebbe toccato a qualcun altro, pensò abbandonandosi per un attimo ad un dolce ricordo. Si guardò attorno. Una bella dimora. Sì, davvero una bella dimora. Si sentì soddisfatto.
Percorse lo spazio che lo separava dal grande portone in legno. Lo aprì senza sforzo e uscì sotto il cielo plumbeo. Stranamente, ne fu infastidito. Quando tutto sarà finito, pensò, farò in modo che qui brillino ancora le stelle. Sì, mi piacciono le stelle. E piacciono pure a lei.
Ancora quel cosmo rabbioso. La battaglia stava dunque per avere inizio e sarebbe stata l’ultima lì al Santuario.
Fu allora che si ricordò di un particolare cui non aveva dato peso. Quei cosmi che erano scomparsi… No, non erano cosmi di vigliacchi. Quindi vi era una sola spiegazione possibile, meditò con rabbia serrando i pugni.
"Coraggio miei Giudici!" disse Ade con fierezza "Terminate quello che avete iniziato, ho un altro incarico per voi. Eliminate la traditrice, alla mia fiera nipote penserò io. Ora possiamo metterci sulle sue tracce."
***
Pegasios si era lanciato in una corsa forsennata in direzione di Eleusi. Aveva evitato alcune ombre nere che si dirigevano di gran carriera verso Atene, in gruppi più o meno grandi.
Giunto nella città celebre in tutto il mondo ellenico per i Misteri, si arrestò. Quanta desolazione, che visione di morte e violenza si presentava ai suoi occhi in quel buio che qualcuno aveva steso sotto il Sole e sulla terra. Gemiti e grida disperate si levavano alte, sia tra le abitazioni sia nei campi circostanti, lacerando la sua anima. Uomini, donne e bambini stavano ovunque, chi sporco e ferito, chi disperato, chi muto e chiuso nell’angoscia e nel terrore, chi privo di vita abbandonato lungo le strade sterrate o presso erme e altari, come a voler cercare, nel momento estremo della morte, un aiuto da parte dei Celesti che però erano rimasti muti al richiamo. E vi erano donne con il viso disfatto dal dolore che piangevano i propri caduti, e uomini che cercavano vanamente un amico o un fratello. Più di tutto furono i bambini ad impressionare il ragazzo: nei loro occhi lucidi, che parevano essersi fatti enormi, oltre lo sgomento, si potevano scorgere solo la paura e il vuoto, un vuoto nel quale vi era posto per una sola domanda: perché?
D’un tratto si accorse di non essere solo. Un ragazzo si era fermato non molto distante da lui e Pegasios lesse nel suo viso il suo stesso sgomento, il suo stesso orrore.
"Sono stati i Demoni, vero?" chiese il ragazzo con un filo di voce.
Seguì un lungo silenzio. "Temo di sì." Nel pronunciare quelle parole il Cavaliere di Atena avvertì il peso dell’impotenza che come un macigno gli schiacciava l’anima. Provò vergogna per non poter più fare nulla, per l’essere giunto troppo tardi. Disperazione e rabbia lo sopraffecero ed egli gridò al cielo parole di sdegno e di rabbia: "Ade, figlio di Crono, e voi creature uscite dal Tartato, che voi siate maledetti! Giuro qui, su Zeus Tonante, che vi darò la caccia e non avrò pace finché non vi avrò abbattuti, finché non vi avrò puniti per quello che avete fatto! Tu, che governi l’Ade, come puoi osare portare la morte sotto le stelle e sotto i cieli che Zeus governa? Non ti accontenti che gli uomini vengano a te quando il fuoco della vita si è spento in loro, ora vuoi fare dell’ecumene, del mondo intero il tuo regno! Zeus, padre dei Celesti, perché, perché permetti tutto questo? E’ rimasta soltanto Atena a curarsi delle pene dei mortali, gli altri Olimpici si sono forse dimenticati del mondo? Ade! Spettri di Ade! La mia collera vi coglierà prima o poi. Dovessi rinascere dieci, cento, mille volte come l’uccello dalle piume infuocate, tutte le userei per venirvi a cercare uno ad uno, dovessi passare da vivo l’Acheronte, così come il grande Eracle!"
"Basta così, Pegasios! Hai forse perduto la ragione per provocare così i Celesti e minacciare i Numi con queste empietà?" disse una voce severa.
"Kyriakos, sei ancora con noi…" disse Pegasios vedendo apparire il Cavaliere d’Oro. Guardando il suo viso, leggendo la tensione e la disperazione di quell’uomo che ad Eleusi era nato e che pure riusciva a mantenere il controllo di sé, provò vergogna per la sua violenta invettiva. Il Cavaliere del Cancro, lui sì avrebbe avuto motivi ben più validi dei suoi per sfogare la sua furia eppure stava lì, pochi passi da lui, e riusciva a controllare la furia delle sue emozioni.
"Credi davvero di poter vincere Ade da solo? Di poter abbattere tutti i nemici? Sei solo un uomo, Pegasios, ancorché protetto da Atena. Non essere troppo audace, non farti travolgere da empie passioni, che poi i Numi non abbiano a punirti in modo esemplare, come in passato hanno già fatto con altri." Vi era fermezza in quelle parole, ma non rimprovero o quantomeno non solo. Vi era sincera preoccupazione per la possibile sorte di un compagno.
"Tu non credi, Kyriakos" disse timoroso Pegasios "che ci abbiano già punito?" E subito si pentì di quelle infelici parole e avrebbe voluto sprofondare negli abissi della terra.
"Sì, lo credo." disse il compagno con gli occhi lucidi. "Ma se pure il mio viso si sciogliesse ora nel pianto o se ardissi di sfidare tutti le divinità dell’Olimpo quello che è accaduto non muterebbe. Il Fato ci ha duramente colpiti, che noi lo volessimo o meno."
"Perdonatemi…" riuscì a bisbigliare il giovane cavaliere.
Kyriakos gli si avvicinò e posatagli una mano sulla spalla disse: "So che il tuo cuore è generoso e che la tua impulsività è pari alla tua compassione e alla tua devozione. Per questo non ti posso biasimare, anzi ti ringrazio. Il tuo sdegno, Pegasios, è anche il mio."
In quella si accorse del ragazzo. "Tu sei Nisia, vero?"
Nisia si avvicinò. "Se ne sono andati adesso, vero? Tu e il tuo compagno dorato li avete cacciati. L’ho visto, da lontano, mentre prendeva la strada di Atene. Avranno bisogno di voi anche là immagino." Le lacrime rigavano il suo volto. Pegasios si avvicinò e gli disse: "Sì, ma tu non temere, prima mi occuperò di te e di questa gente."
"Pegasios, c’è bisogno di me ad Atene…" disse con un filo di voce Kyriakos.
"Resto io qui ad occuparmi della tua gente." replicò il giovane, mentre il cavaliere del Cancro considerava quanto fosse maturato in pochi giorni. L’esperienza sul campo e le battaglie sostenute erano state maestre rigorose e inflessibili ma, d’altro canto, Kyriakos ricordava che per altri giovani cavalieri era stato così e qualcosa di simile era accaduto pure a lui, in un’età più verde.
***
"Per il Sacro Leo!"
Eaco evitò il colpo scansandosi rapidamente, subito imitato da Minosse. Seguì un altro colpo, e un altro ancora, lampi di luce che accendevano di colori l’interno del quinto tempio, mentre le ombre giocavano sulle scanalature delle colonne e sui fregi.
"Come può essere così abile e così veloce?"
"E’ stata ben addestrata, è evidente. E si comporta come fosse davvero una delle Furie."
"Padroneggia pure i colpi che furono di suo fratello Pisandro. La sua abilità è prodigiosa."
Maia arrestò l’attacco e li fissò: "Non stupitevi, Giudici. Sto solo incanalando nella giusta forma il cosmo che mi appartiene, un cosmo nato per servire Atena, un cosmo il cui Fato era quello di svilupparsi sotto stelle benefiche. La furia delle Erinni si è convertita nella furia del Leone, che fu propria di mio fratello Pisandro e che sento ora promanare dalla sua armatura, quasi che egli fosse qui con me. Ma sappiatelo, se fosse necessario la mia rabbia si convertirebbe pure nella furia del Drago, la creatura mitologica la cui energia vitale si manifesta e prende corpo nei colpi dell’altro mio fratello Lisandro."
"Stupefacente." mormorò Minosse.
Eaco le si piantò davanti: "Maia, desisti dal tuo folle proposito! A che pro ti ribelli ad Ade? L’esito della battaglia è scritto. Molti dei Cavalieri di Atena sono stati sconfitti o dispersi, la capitolazione finale è vicina. Tu nutri rancore verso chi ti ha strappato alla tua famiglia, e questo è comprensibile. Tuttavia sarebbe una vera disdetta che il tuo potere e le tue abilità, che noi non possiamo che ammirare, dovessero morire con te. Ade sa essere magnanimo: ritorna sui tuoi passi e ti accoglierà di nuovo nelle nostre schiere. Se considererai questa possibilità, potrei intercedere per te e ottenere che almeno Lisandro sia risparmiato. Abbiamo subito delle perdite, nell’esercito di Ade ci sarebbe posto pure per lui."
Maia restò interdetta e interruppe ogni attacco. Gli occhi verdi erano fissi in quelli di Eaco. Ma subito scoppiò in una risata. "Eaco, hai appena ammazzato uno dei miei fratelli e ora mercanteggi sulla salvezza dell’altro? Sei pazzo se credi che possa darti ascolto!"
"Sei tu la pazza, Aletto!" disse sprezzante Minosse.
In quella un boato squassò l’aria e tutto il tempio del Leone parve tremare. Tre cosmi ampi, determinati e violenti si erano accesi ai piedi del Santuario.
"Sembra che la partita sia aperta. I Cavalieri d’Oro sono venuti a reclamare il Santuario e con esso le vostre teste!" disse Maia ironica.
Minosse levò il braccio, irritato, pronto a colpire, ma Eaco lo trattenne. "Risparmia le energie, Giudice. Abbiamo dei potenti avversari da affrontare e sconfiggere."
"Eaco, non vorrai lasciar agire questa traditrice?"
"Solo uno di noi può sperare di sconfiggerla. Tuttavia solo noi due assieme possiamo arrestare i tre cosmi che hanno scatenato questo nuovo attacco. Ho sconfitto Pisandro, certo, ma non mi illudo che sia facile prevalere su tre Cavalieri d’Oro. Se pure Maia è così abile e temibile, pensa a come lo devono essere uomini addestrati da una vita a combattere sotto le insegne di Atena."
"Eaco, ho avuto modo di misurarmi con loro pure io e credo che tu li sopravvaluti. Tuttavia forse è meglio non rischiare che uno di noi li affronti da solo. E poi sono desideroso con scontrarmi con due di loro, il cui cosmo ho già percepito e contrastato poche ore fa."
"E allora, sia! Spettri, al tempio dell’Ariete!" disse ad alta voce Eaco. Poi rivolto a Maia. "Non tentare di fermarci. Approfitta del tempo che ti concediamo per valutare la mia proposta."
"La valuterò, certo." replicò beffarda "Non sono tuttavia sicura che dopo aver incontrato i custodi dorati voi farete ritorno."
"Maia… Aletto..." replicò a tono Eaco. "Non è che dimentichi qualcosa?"
La fanciulla si incupì e comprese che era inutile forzare i tempi. "E sia Eaco. Affronta il tuo Fato e torna per udire la mia risposta, se ci tieni. Sappi però che io non dimentico che sei l’assassino di mio fratello!"
I due erano rimasti soli. Eaco le si avvicinò e le parlò con tono che poteva sembrare di scusa: "Maia, non sono severo e inflessibile come Minosse né orgoglioso e impulsivo come Radamante. Dovresti conoscermi abbastanza da sapere che, se si fosse arreso, avrei risparmiato Pisandro, che peraltro era già provato da una precedente battaglia. Per rispetto del suo valore e delle sue vestigia, che ora tu indossi, non vorrei che il Fato ci mettesse l’uno contro l’altra perché, se così fosse, dovrei eliminare pure te e me ne dispiacerebbe."
Detto questo partì di gran carriera verso i templi inferiori.
***
Il Santuario, alto sul colle, era ormai poco più che un’ombra scura che si confondeva col buio. Policrate procedeva sicuro, senza voltarsi. A Delfi, dove stava Atena. A Delfi sì, al Santuario di Apollo. Forse era il Fato a volere che un nuovo Sole dovesse essere riconquistato per gli uomini proprio in quel luogo. Dietro di lui, silenziosi, venivano Metoneo, Elettra, Callimaco e Alcmene.
Ad un tratto Alcmene si fermò e restò in ascolto. "Che succede?" disse Callimaco accorgendosi che il compagno restava indietro.
"Avverto un cosmo potente e credo stia venendo da questa parte."
"Qualcuno è stato messo sulle nostre tracce. Dobbiamo distanziarlo o finiremo per condurre il nemico fino alla Dea."
Alcmene restò a scrutare il buio, poi sicuro di sé disse con freddezza: "Callimaco, prosegui con gli altri. Penserò io a fermare costui."
"No, Alcmene, non puoi affrontarlo da solo. Sei stanco e spossato, così come lo sono io. Dovremmo affrontarlo assieme ma siamo rimasti in pochi, troppo pochi. Che ne sarebbe di Atena se potesse contare solo sul mio maestro, Metoneo ed Elettra?"
"Callimaco, non li senti? Dei cosmi ardenti, verso il mare." Callimaco guardò laggiù, dove sapeva essere il Santuario e d’un tratto avvertì la loro presenza. "Ci saranno anche loro a darci manforte!" disse Alcmene "Ora è più urgente che voi raggiungiate Atena. Coraggio, vai!"
Callimaco esitò. Il compagno era determinato ed egli non dubitava certo delle sue capacità, tuttavia avvertì tutto il peso di quel distacco. "Sii prudente, amico mio."
Alcmene abbozzò un sorriso: "Vedrò di non fare troppo male al mio avversario." E sparì di gran carriera inghiottito dalla notte.
***
"Chi di voi vuole essere il prossimo a cadere?" sentenziò Anassilao con aria di sfida.
Gli Spettri indietreggiarono, timorosi, gettando uno sguardo ai miseri che erano stati sopraffatti da Anassilao poco prima.
"Abbandonate quel tempio! Io ne sono il custode e lo reclamo ora." La voce di Archita, ferma e determinata nella richiesta, si era imposta sul quel silenzio denso di attesa.
Plistene si avvicinò al compagno e disse piano: "Andiamo. Caduti questi vili combattenti resteranno solo i più intrepidi tra i demoni degli Inferi da abbattere."
"E quando avremo trovato Atena allora potremmo tentare pure di scagliarci contro il signore dell’Ade." meditò Archita, quasi stupito al pensiero di dover sfidare, prima o poi, tale avversario. Tuttavia, si chiese, perché esitare dopo che, in un tempo che non era poi così lontano, lui e altri compagni avevano affrontato l’ira dei Celesti affrontando, in dura battaglia, il vigoroso Ares, che aveva inflitto alle schiere di Atena numerose perdite? Potevano ora esitare di fronte al dio degli Inferi dopo aver vinto, a suo tempo, la medesima esitazione che li aveva colti nel dover affrontare l’ira del dio della guerra? Il loro senso del dovere avrebbe scansato senza troppi dubbi quell’esitazione, ma la loro natura di uomini, che li rendeva inferiori agli dei, li avrebbe inchiodati d’innanzi alla prospettiva di compiere un atto di insubordinazione imperdonabile contro gli Olimpici, di macchiarsi del peccato di tracotanza e superbia, un peccato che nelle ere mitologiche era costato la vita a una folta schiera di uomini, donne ed eroi.
Plistene, Anassilao e lo stesso Archita non ebbero tuttavia altro tempo di meditare la questione, di arrovellarsi su quel dilemma. Un cosmo immenso si accese sopra di loro, un’aura cosmica che sembrava voler abbracciare il cielo intero, aleggiando e protendendosi lontano, come alla ricerca di qualcuno, come a voler superare gli orizzonti vicini. Poi, paga della sua ricerca, quella stessa energia era stata indirizzata verso l’obiettivo che era più a portata, verso i tre impavidi d’oro rivestiti che avevano osato sfidare la marea nera che si era impadronita del Santuario. Quello che ora era il suo Santuario. Una cometa lucente precipitò sulle loro teste. Le loro armature si accesero di riflessi impazziti, i loro visi furono illuminati da quella luce accecante, i loro occhi brillarono come solevano fare alla luce del sole o d’innanzi alla loro Dea. Un boato terribile e poi il silenzio. Di Archita, Anassilao e Plistene, quando la notte tornò dominare il cielo di Atene, non vi era più traccia.
Ade, dall’alto del recinto sacro, abbassò il braccio che aveva teso in direzione dei templi sottostanti. "Mortali, ecco cosa accade a chi osa sfidarmi." disse con fierezza. Poi, sfruttando i poteri della sua mente celeste si mise in contatto con i Giudici: "Miei fidati sottoposti, ho pensato io a risolvere il problema ai piedi del Santuario. Ora la vostra missione è trovare Atena. So dove si trova ed è lì che andrete. Eliminate coloro che provassero a fermarvi. Sistemata un’ultima questione qui al Santuario vi raggiungerò e vi guiderò al trionfo finale."
***
"Ti stavo aspettando, demone."
Radamante sorrise. Aveva imparato che i cavalieri di Atena sapevano sorprendere e difatti non si sorprese che qualcuno lo avesse atteso lungo il cammino, là dove i colli che cingono Atene tendono a diventare monti e dove i campi e i terrazzamenti lasciavano posto a sparuti arbusti e a radure solitamente bruciate dal sole, dove piste battute solo da pastori risalgono i crinali per tuffarsi poi oltre gli alti passi.
"E’ Radamante il mio nome, e sono uno dei Giudici degli Inferi. Imprimitelo nella mente, potrebbe essere il nome di chi ti farà mordere la polvere." La sua spavalderia tuttavia era stata messa a dura prova dalla recentissima battaglia con Lisandro e le parole gli venivano pesanti. Ciò che pareva inconcepibile era davvero accaduto. Solo per orgoglio e devozione si era sottoposto al rito, confidando nel fatto che mai e poi mai un nemico avrebbe potuto sopraffarlo. Ora invece si trovava nell’amara condizione di chi ha assaggiato la sconfitta e… No, basta, era assurdo continuare a pensarci. Doveva piuttosto far tesoro di quell’amara esperienza.
"Il mio nome è Alcmene, Cavaliere del Toro." replicò il giovane dai capelli scuri. "Non avvicinarti di un passo o assaggerai la potenza del mio pugno."
"Non ti temo, tuttavia temo per te. Levati dalla mia strada se ci tieni alla vita."
"Non ho ceduto il passo di fronte a numerosi nemici, nemmeno di fronte al tuo parigrado Minosse. Non lo farò nemmeno davanti a te!"
Radamante avvertiva tutta la tensione del momento. Dopo essere stato beffato da Lisandro non voleva ripetere l’errore di sottovalutare l’avversario. "Castigo Infernale!" gridò spalancando le braccia, mentre terra e pietrisco schizzavano via da tutte le parti e i rami degli arbusti circostanti si spezzavano e le fronde venivano violentemente scosse. Alcmene, rapidissimo, si era scansato ma il raggio d’azione dell’attacco era troppo ampio e ne stava subendo gli effetti. Radamante scattò in avanti e gli fu sopra, mulinando pugni e fendenti con furia demoniaca. L’elmo dell’avversario volò via, mentre un rivolo di sangue solcava il suo viso dal sopracciglio all’angolo della bocca.
"Soccombi Alcmene! Castigo infernale!" Colpendolo a distanza ravvicinata lo fece volare indietro. "Vedremo se ti rialzerai, preparati a subire…"
Non ebbe il tempo di finire la frase. Con una velocità sorprendente Alcmene si era rialzato e aveva pure lui spalancato le braccia mentre l’attacco si sprigionava violento: "Per il Sacro Toro, Grande Corno!" Colto in controtempo, Radamante era stato investito in pieno ed il suo elmo era volato via.
"Non passerai di qui, Giudice, così come non ho fatto passare Minosse giù al tempio!"
"Vorresti insinuare di aver fermato Minosse?"
"Di sicuro l’ho spedito molto lontano!" Una feroce determinazione ardeva negli occhi di Alcmene, cui tornavano alle mente le crude immagini degli scontri al Santuario. Incrociò gli occhi del suo nemico e leggendovi una determinazione pari alla propria comprese che non doveva concedergli spazio. Raccolse tutte le energie residue e gridò a gran voce: "Ecco la tecnica con la quale ho arrestato l’avanzata del tuo parigrado. Corrente Selvaggia delle Pleiadi!"
L’armatura del Toro parve accendersi e si riempì di stelle. Radamante fece l’unica cosa sensata e rispose con il suo colpo più potente. "Urlo Infernale!"
Fu come se due Titani sferrassero contemporaneamente un pugno l’uno contro quello dell’altro. Il terreno, le pietre, le piante tra i due contendenti si sbriciolarono e una nuvola di polvere si levò alta mentre due sfere di energia possenti e brillanti restavano in stallo per un tempo che parve infinito. Le urla infernali si alzarono fino alle stelle, la luce stellare si spinse fino negli Inferi, poi esplosero assieme. Radamante e Alcmene furono sparati a centinaia di metri l’uno dall’altro, mentre il fianco della montagna veniva squassato con violenza inaudita.
Fu Radamante il primo ad alzare il capo da terra. Si puntellò sulle braccia e ciò che vide nella notte fu solo una nube di sottili polveri di roccia, di cui percepiva l’odore acre. Del nemico nessuna traccia. Poi un lampo dorato attirò la sua attenzione. Lassù il suo avversario si stava rialzando.
Alcmene scrutò in basso e vide Radamante tirarsi in piedi. Non era stupito di non averlo sconfitto, non ora che aveva assaggiato l’Urlo Infernale, un colpo di terribile violenza, e lo aveva contenuto, seppur con uno sforzo estremo. Comprese che entrambi si preparavano all’assalto finale. Pensò ad Atena e ai compagni, che in quel momento dovevano essere sufficientemente lontani così da non essere più raggiungibili.
"Radamante" disse a gran voce "la tua cerca è fallita, comunque vadano le cose."
L’altro risalendo il pendio replicò a tono: "E’ il tuo tentativo di fermarmi che è fallito."
"Non hai più energie, non più di quelle che siano rimaste a me."
Radamente sorrise sarcastico: "Vero, mio possente avversario. Tuttavia dove il vigore del cosmo non può arrivare possono giungere altre tecniche. Sul piano della forza bruta ci equivaliamo, ma dubito che tu possa contenere attacchi di altra natura."
Alcmene soppesò quelle parole e comprese che, ancora una volta, doveva battere il suo avversario in velocità, che il pericolo era estremo. Poche le energie rimaste, indomita la sua volontà. "Per il Sacro Toro, Grande Corno!"
Radamente, chiamando a sé le residue energie, spiccò un salto aprendo le ali dell’armatura e puntando un dito contro Alcmene gridò: "Cerchi di Spirito!" Il Sacro Toro lo investì e lo fece precipitare a terra. Tuttavia, con un’occhiata di sbieco vide il suo colpo andare a segno. "Addio, Alcmene, precipita negli Inferi!"
Il Cavaliere del Toro, il prode Alcmene, vide una tenebra più buia della notte inghiottirlo e poi, si sentì trascinare giù, in un baratro senza fine, mentre brividi di freddo e di terrore gli percorrevano le membra. Fu solo nel momento supremo che il ricordo del maestro Pelopida, del compagno di addestramento Pisandro, della madre, delle tre sorelle e dello sguardo puro di Atena gli donarono un po’ di calore e serenità. Calore che divenne una vampa, quando ebbe coscienza di aver fatto fino in fondo il suo dovere di Cavaliere, prima di varcare le fatali porte della notte.
Radamante, dopo averlo visto sparire, mosse alcuni passi, per gettarsi all’inseguimento di Atena e degli altri cavalieri, ma dovette desistere, trovandosi ginocchia a terra. Non aveva più una stilla di energia. Aveva vinto ma era un’amara vittoria.
***
La notte che era calata sui mortali infine prevalse, unita alla diffusa stanchezza e al senso di sgomento e di orrore, alla rassegnazione e alla disperazione che si erano insinuate nell’animo di coloro che dimorano sotto i cieli. Il Sole non era riapparso e forse non lo avrebbero rivisto mai più. Bastava questo pensiero a far inorridire e a far accapponare la pelle.
Un grido di disperazione si levava di tanto in tanto su quel silenzio pesante che una mano invisibile pareva aver steso sull’ecumene. Un grido, piuttosto un pianto, che poteva essere di un pastore abbandonato anche dalle amiche stelle, di una donna che stringeva a sé i figli guardando fuori dalla propria misera abitazione quel cielo fattosi nero e minaccioso, dei marinai dai visi solcati che non osavano nemmeno pensare di tornar per mare, delle fanciulle e i fanciulli che si erano alzati di buon ora per recarsi ai campi e che presto erano tornati ai focolari temendo la tenebra. Non bastava ai soldati il coraggio e l’aver visto ripetuti orrori sui campi di battaglia, non bastava la fede ostinata in Zeus Tonante e nel divino Apollo ai sacerdoti che andavano accendendo bracieri e celebrando sacrifici, non bastavano ai pensatori le risposte che si erano dati riguardo l’ordine del cosmo e i misteri della natura, non bastava l’aver scacciato, per quanto possibile, superstizioni e irrazionali paure. Il Sole non c’era più e non era una cosa momentanea. Non c’era più e quindi poteva voler dire soltanto che la fine di ogni cosa si approssimava e che si avviava a tornare a quel Caos che i più dotti o i più fortunati sapevano esser stato descritto da Esiodo con belle e potenti parole.
Pegasios, dopo aver portato a braccio l’ennesimo ferito, si coricò esausto sotto quel che rimaneva di una bottega artigiana. Atena spense la propria lucerna e si coricò, che il suo cosmo era ancora fiacco e il suo cuore pesante. Policrate, Elettra, Metoneo e Callimaco proseguirono lenti per sentieri nascosti finché dovettero abbandonarsi sotto le fronde di un cedro generoso. Kyriakos rimirò nella notte l’altura del Santuario, percepì un cosmo maligno e considerando di essere allo stremo seppe di non poter proseguire oltre per quel giorno; una capanna abbandonata lo accolse. Alcuni cosmi si accesero e si spensero, qualcuno rivide la luce e qualcuno camminò nel buio.
Un’ombra nera se ne stava da poco a celebrare il suo uffizio, dopo la breve parentesi sotto i cieli. Livido era il suo cuore per quanto provato e patito quel giorno e sarebbe trascorso molto tempo prima che potesse tornare nel suo pieno vigore e alla sua forma corporea. Pochi ancora dovevano transitare al suo cospetto poiché un suo parigrado era stato da poco sopraffatto e il suo eterno uffizio si era per la prima volta interrotto. Certo, sarebbe stata questione di poco, a quella vita incorporea ci si abituava presto, assai più in fretta che dello smacco patito per mano dei mortali. Forse la partita era ancora aperta, rimuginò tra sé vergando le eterne carte. Ma no, che andava pensando? Avrebbero infine capitolato, così doveva essere. Eppure… In quella un viso noto, fin troppo noto, gli si parò di fronte. L’ombra che era stata un prode giovane impallidì e lui provò il dolce gusto della rivincita. Ora, mio caro mortale, è l’ora del giudizio, della vendetta. A quel punto tuttavia compì un atto inatteso, che stupì pure se stesso. Ignorando le direttive impartiteli e i suoi propositi di rivincita indirizzò il nuovo venuto là dove solo gli eroi possono aver dimora. Te lo sei meritato, anche se mi costa ammetterlo e qualcosa mi dice che non sarai solo, non per molto. L’ombra che era stata un prode giovane sorrise, stupita. Il tuo signore ti punirà per questo. Il mio signore sa riconoscere il valore e la nobiltà d’animo, si tratti di un nume celeste o di un mortale, replicò quello accomiatandolo.